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Milano, sabato 20 aprile 2013. In concomitanza con un corteo contro la vivisezione cinque persone umane attiviste antispeciste occupano i laboratori di vivisezione del Dipartimento di Farmacologia, Chemioterapia e Tossicologia medica dell’Università Statale di Milano e vi si barricano dentro. Nel frattempo il corteo si dirige presso l’edificio dell’Università per sostenere l’occupazione dalla piazza. Dopo dieci ore di assedio e trattative, vengono liberati dagli stabulari centinaia di Animali destinati alla vivisezione. Eventi come questo dovrebbero essere considerati per ciò che effettivamente sono: delle pietre miliari nella storia del liberazionismo in Italia. Invece anche le azioni così importanti finiscono dimenticate, scompaiono dalla memoria collettiva, ingoiate dall’assurdo e persistente rumore di fondo delle informazioni quotidiane che ci bombardano. Oltre a permettere la liberazione di Animali altrimenti destinati a enormi sofferenze e alla morte, queste azioni dirette sono fondamentali per una crescita individuale e collettiva, per avviare confronti, riflessioni per permettere alle giovani generazioni di continuare coerentemente ed efficacemente la lotta di liberazione degli Animali.
Dimenticarle è la cosa peggiore che si possa fare, arrecando un danno esiziale alla causa. Di seguito il comunicato dal titolo “Per non dimenticare” che alcune delle persone attiviste protagoniste dell’occupazione hanno rilasciato a Veganzetta in occasione del decimo anniversario dell’azione, una dichiarazione rilasciata durante il processo all’occupazione dei laboratori di Farmacologia e una serie di video fino ad oggi inediti che documentano cosa accadde dentro i laboratori in quella giornata così importante.
20 aprile 2013, una data importante.
Per non dimenticare
Il 20 aprile di 10 anni fa ebbe luogo la storica occupazione dello stabulario di Farmacologia dell’Università Statale di Milano.
Fu un’azione senza precedenti.
E senza seguito, purtroppo.
Alcune/i di noi entrarono.
Erano in 5.
Occuparono per più di 10 ore un piano intero di quell’edificio.
Simbolo della ricerca su Animali.
Lì, oltre quel muro, erano ammassate, come fossero disordinate cianfrusaglie, o cose di poco conto, migliaia di piccole vite.
Dentro gabbie su gabbie, stanza dopo stanza, in quel maledetto corridoio.
Sepolte dentro.
Senza una storia, se non fosse stata raccontata quel giorno.
Grazie ad un’eclatante azione di disobbedienza civile, un’azione diretta, non violenta, mostrammo le immagini, tragicamente drammatiche, della vita quotidiana degli Animali da laboratorio.
L’ordinaria brutalità di luoghi senza tempo e senza speranza.
Luoghi senza luogo.
Senza inizio né fine.
Senza spazio o significato.
Portammo in salvo centinaia di Animali quel giorno.
Sembrò il mondo alla rovescia.
Pensavamo che avremmo potuto resistere molto poco asserragliate/i là dentro.
Che presto ci avrebbero tirati fuori, e in malo modo.
Invece, inaspettatamente, e presto, iniziarono le trattative.
Fu l’Università a volerlo.
Accadde nel preciso istante in cui iniziammo a leggere dati e numeri del registro di carico e scarico dello stabulario.
Dove erano dettagliatamente annotati numeri ed eventi che indicavano così distrattamente la vita e la morte di migliaia di individui.
E ciò che stava in mezzo a quegli eventi che era l’inferno.
Non volevano che lo raccontassimo.
Che documentassimo la realtà così come era.
Senza bisogno di fronzoli.
Ma nuda e cruda, quale, irrimediabilmente, era.
Così, trattammo e ottenemmo di uscire con tutti quei piccoli prigionieri che riuscimmo a trasportare fuori solo uscendo.
Senza poter più tornare indietro per gli altri.
Questo fu terribile.
E, oggi direi, col senno di poi, imperdonabile.
Ma avevamo ottenuto l’impegno, la promessa, straordinaria, ma mai mantenuta, che avrebbero affidato a Vitadacani tutti gli altri Animali, i giorni successivi.
Ma non accadde.
Loro rimasero lì.
Non furono liberati.
Noi e Vitadacani andammo avanti mesi e anni a chiedere per loro giustizia e libertà.
Sembra passato un secolo.
Ai dibattiti iniziali è seguito presto il silenzio.
La repressione.
L’isolamento.
Le critiche e i processi.
In tribunale e nelle piazze, sui social, nelle discussioni.
Tutti sembrava avrebbero potuto fare meglio di noi.
Ma non lo fecero.
Non lo avevano fatto.
Né lo fecero in seguito.
Ed eccoci qui.
Solo pochi ricordano quei giorni.
Ma è vitale che la memoria non vada perduta.
Sapere ciò che accadde ieri ci può insegnare e ispirare oggi.
Mostrare una strada.
Capire cosa funzionò e perché e cosa invece fu sbagliato, non solo è giusto, ma ci può insegnare molto.
Su come andare avanti.
Non ripetere gli stessi errori.
Crescere e maturare.
Esperienza dopo esperienza.
Passo dopo passo.
Certamente l’occupazione di Farmacologia indica uno spartiacque.
Da allora c’è un prima e un dopo.
Perché in quell’attimo tutto cambiò.
Diventammo un soggetto con cui discutere e arrabbiarsi.
Un interlocutore.
Non più gente che protesta davanti ad un palazzo.
Costringemmo chi faceva ricerca in quel tempo a scendere.
Uscire.
Perfino manifestare in piazza.
Radunare adepti.
Fondare associazioni per la libertà di una scienza che intendeva utilizzare Animali.
Non erano proprio abituate/i a questo.
Giustificare, in qualche modo, il proprio operato.
Le proprie scelte.
Giustificarsi.
Fornire spiegazioni.
Prima ciò sarebbe stato fantascienza.
Così, rivendicammo il ruolo fondamentale della società civile nella scienza.
Nelle decisioni da prendere.
L’importanza straordinaria dell’etica.
Rivendicammo che non potevamo affidarci ad altre/i.
Alla tecnocrazia.
Ma volevamo, anche noi, scegliere e dire la nostra.
E, soprattutto, mostrammo che nessun muro è davvero insormontabile e invalicabile.
Che nessuna istituzione è intoccabile.
E insinuammo il dubbio e la certezza che ciò che accadde, potesse di nuovo accadere.
Può di nuovo accadere.
Ancora.
E ancora.
Gli Animali nei laboratori, forse più di tutti gli altri, non hanno niente.
Solo noi e voi.
Seguono le dichiarazioni spontanee rese da Giuliano prima della condanna penale in Tribunale, che meglio di tutto esprimono il nostro pensiero.
Sara per Coordinamento Fermare Green Hill
Il 20 Aprile 2013 siamo entrati nello stabulario dell’Università Statale di Milano e lo abbiamo occupato per vari motivi:
1. Liberare gli individui prigionieri;
2. Mostrare l’ordinaria normalità della vita di uno stabulario;
3. Creare dibattito, in particolare in ambito universitario e nel mondo della ricerca;
4. Rilanciare la lotta alla vivisezione all’interno del cosiddetto movimento animalista.
Tutto questo per opporci a un sistema sociale e culturale che imprigiona, sfrutta e uccide chi viene considerato inferiore e che, proprio su queste tre cose, poggia le sue fondamenta e reprime ogni tentativo di ostacolarlo.
Quel giorno abbiamo fatto una sola richiesta all’Università. Uscire con tutti gli animali. Purtroppo riuscimmo a portarne via solo una parte perché, ingenuamente, ci fidammo dell’accordo, della trattativa e degli impegni presi da noi e da loro. Noi saremmo usciti e loro avrebbero liberato tutti. Ciò, come ben sappiamo, non è accaduto. L’Università e il Rettore Vago non rispettarono l’accordo, si rimangiarono la parola data e non mantennero la promessa. Noi, purtroppo, uscimmo con solo una parte degli animali, certi che nei giorni seguenti tutti avrebbero visto la libertà. Ci siamo fidati di chi ha sempre mentito: la professoressa Viani, la quale disse che, per il semplice fatto di essere entrati là dentro, gli animali non erano più utilizzabili; il Rettore Vago, che accettò l’accordo, rimangiandoselo un istante dopo e che in questo stesso Tribunale ha dichiarato il falso, affermando che non c’era stato alcun accordo; il Professor Zoratti, Direttore del CNR, anche lui firmatario della denuncia a nostro carico che non aveva, come tutti i suoi colleghi, la minima idea di quanti animali vi fossero all’interno e di quanti ne avessimo portati via. Ma, guarda caso, sono state solerti nel formulare una richiesta di risarcimento danni che loro stessi non hanno saputo motivare, sostenere e giustificare. Quel giorno non abbiamo distrutto quelle gabbie. Gli animali ci furono affidati quando l’Università si rese conto che non eravamo cinque scalmanati improvvisati, ma che stavamo documentando e, soprattutto, portando all’esterno le immagini di quella brutale e ordinaria normalità, lo squallore delle gabbie, la disperazione dei prigionieri, i dati sconvolgenti riportati sul registro di carico-scarico (ricordo con orrore quelli che indicavano come venissero buttati, ogni pochi giorni, circa 34kg/37kg di topi morti alla volta) ed i commenti sui libri consegna (in particolare il fascicolo “Destinazione Heaven”, in cui si chiedevano che fine avessero fatto gli animali spariti dallo stabulario e non trovati più nelle loro gabbie.
Abbiamo scelto quello stabulario non per fare un torto a chi ci lavora dentro, ma come simbolo di tutti gli stabulari e i luoghi di sfruttamento – e non solo quelli per la ricerca. Non stavamo cercando situazioni eclatanti di maltrattamento o eccezioni. Non ce n’era bisogno. Personalmente, mi bastava mostrare la normale, crudele quotidianità di uno stabulario e vedere ciò che subiscono ogni istante gli animali imprigionati. La vita in quelle gabbie. L’essere sempre esposti senza alcuna possibilità di nascondersi o di sottrarsi. Giorno dopo giorno. Ora dopo ora. In un luogo dove anche solo un minuto può essere lungo come una vita intera, in un luogo che, a sua volta, racconta la vita di migliaia, migliaia e migliaia di altri prigionieri in altre gabbie, concrete ma anche culturali. Gabbie costruite in modo da sembrare necessarie, che a volte possono persino sembrare belle e che proprio per questo svolgono egregiamente la loro funzione. Gabbie che possono essere minuscole, come quelle dei topi che abbiamo liberato, ma anche gigantesche, come le frontiere che respingono chi invece dovrebbe essere accolto, ascoltato ed aiutato.
Da quel momento la lotta alla vivisezione è cambiata, quasi sparita. Perché gli unici che hanno capito la vera importanza e la portata di quel gesto furono proprio, per ironia della sorte, quelli che difendono lo status quo e vivono del mondo della ricerca, difendendo la sperimentazione animale. Che la praticano. Piuttosto che dai nostri compagni di lotta. Prima eravamo noi che urlavamo davanti ad un palazzo, inascoltati da tutti. L’azione di Farmacologia è servita appunto ad abbattere quel muro di silenzio che ha sempre avvolto il mondo della ricerca che utilizza gli animali. Dopo l’occupazione, la controparte è stata costretta, si è sentita in dovere ed ha avvertito una necessità e un’urgenza, prima mai sperimentate, di difendere, giustificare e spiegare il proprio operato. Sono scesi in piazza, hanno scritto, partecipato a dibattiti e confronti, hanno dato vita ad una forte opposizione per rivendicare il primato della scienza, sempre e comunque, al di là di ogni etica. Noi, invece, abbiamo voluto rivendicare l’etica nella scienza e la necessità della partecipazione della società civile nelle questioni della scienza e della ricerca. Che devono rendere conto della giustizia di quello che fanno. Non dell’utilità. Non importa se una cosa è utile se sfrutti un altro essere vivente. Un altro essere vivente che normalmente, senza l’intervento dell’uomo, sarebbe in grado di creare relazioni con i suoi simili ed anche con altre specie. Che ha voglia di giocare, di essere riconosciuto come individuo. E questo nel mondo della ricerca e dello sfruttamento animale in generale manca assolutamente.
I nostri compagni e compagne non hanno saputo comprendere la profondità del nostro gesto. Il movimento, che non è altro ormai che un grande vortice che risucchia e risputa fuori solo rottami e resti di quella che invece potrebbe essere una grande forza rivoluzionaria, non ha saputo, o voluto, cavalcare, condividere e sostenere le nostre istanze. Non solo. Siamo stati lasciati soli dai nostri stessi compagni, incompresi da chi avrebbe dovuto sostenerci, attaccati e processati con pregiudizi, prima ancora che da questo Tribunale, da chi avrebbe dovuto fare parte della medesima lotta e cogliere la scintilla con cui ricostruire un’autentica azione dal basso, senza deleghe a partiti e associazioni e con l’azione diretta.
Quel giorno volevamo usare i nostri corpi sia come scudo per difendere quei prigionieri dai loro sfruttatori sia come strumento di lotta e liberazione per scardinare quelle gabbie fisiche e mentali che fanno pensare che tutto sia lecito. Un pensiero specista, così profondamente radicato in questa società, da far sembrare normale vedere ogni giorno camion pieni di esseri viventi condotti a morte, appesi nelle macellerie, confezionati e messi in bella mostra negli scaffali dei supermercati, pescati e lasciati morire lentamente, chiusi negli zoo e nei circhi, ammassati nei centri di identificazione ed espulsione o bloccati alle frontiere. Un sistema che fa sembrare normale e tollerabile il fascismo dilagante sempre più spavaldo e potente che porta anche chi pensa di lottare per la liberazione animale a sostenere chi è profondamente in antitesi con il vero significato di antispecismo. Quel giorno abbiamo fatto un’azione di disobbedienza civile non violenta. L’unica violenza l’abbiamo esercitata sui nostri corpi.
Abbiamo violato delle leggi profondamente ingiuste. Perché siamo riusciti ad intravvedere, oltre quelle gabbie, il muro di silenzio che avvolge tutto questo schifo. Il vero pericolo per questa società è chi continua a voler dividere questo mondo in razze, specie, generi, chi continua a voler discriminare chi considera diverso ed inferiore. Difeso da tribunali come questo. Quel giorno, violare quelle leggi ed andare contro questo sistema di cose è stata la cosa più giusta che potessi fare.
Pagina su Archive.org della collezione dei video: https://archive.org/details/dentrofarmacologia
Fotografia in apertura: fotogramma tratto da uno dei video dell’occupazione. Fonte: Coordinamento Fermare Green Hill
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Massima stima e solidarietà a compagni e compagne di lotta.