Tolstoj: Visita al macello di Tula


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Nel suo percorso morale che lo condurrà a rifiutare di cibarsi di carne in nome della giustizia e della compassione che dobbiamo agli Animali, Tolstoj racconta la sua visita al macello della città di Tula (avvenuta nel mese di giugno del 1891). Un resoconto straziante che descrive alla perfezione l’inferno di quel luogo, che va letto e fatto leggere.
Il testo proposto è la traduzione integrale dell’originale a cura del prof. Gino Ditadi che compare nella nuova edizione del libro Contro la caccia e il mangiar carne recentemente pubblicata.


Visita al macello di Tula

Recentemente ho visitato, nella città di Tula1, il macello. Si dice che siano costruiti secondo un nuovo modello perfezionato, come in tutte le grandi città, in modo che gli animali che vengono uccisi soffrano il meno possibile.
Già da tempo, leggendo l’eccellente libro Ethics of Diet,2 intendevo visitare i macelli, per constatare de visu l’essenza della questione di cui si parla quando si tratta di vegetarismo; ma sentivo sempre una specie di ripugnanza simile a quella che si prova quando si sa con certezza di dover assistere a una sofferenza che è impossibile impedire, così rinviavo la visita.
Poco tempo fa ho incontrato per strada un macellaio che andava a Tula. Era un operaio, ancora poco esperto; la sua mansione era quella di dare un colpo di pugnale. Io gli chiesi se avesse compassione dell’animale che si apprestava a colpire. “Perché aver pietà? – rispose – È necessario farlo”. Ma, quando gli dissi che non è per nulla necessario mangiare carne e che la carne è un alimento di lusso, egli convenne che, in effetti, è una cosa spiacevole. “Ma, cosa fare? Bisogna pur guadagnarsi da vivere. Prima mi faceva impressione uccidere; mio padre, in tutta la sua vita, non ha mai sgozzato neppure una gallina”.
In effetti, alla maggioranza dei Russi ripugna uccidere, sono compassionevoli ed esprimono questo sentimento con la parola ribrezzo. Anche a lui, inizialmente, faceva forte impressione, ma poi si abituò. Poi mi spiegò che il maggior lavoro da fare era il venerdì perché continua fino a sera.
Recentemente ho avuto una conversazione con un macellaio militare ed anche lui si stupì della mia osservazione, che uccidere è male; ed anch’egli prima, mi rispose che è un’abitudine necessaria, poi convenne che è un male aggiungendo: “Soprattutto quando la bestia è docile, addomesticata, e si avvicina, poveretta, tutta fiduciosa; sì, è una gran pena!”.
È orribile. Orribile non solo la sofferenza e la morte degli animali, ma il fatto che l’uomo, senza alcuna necessità, soffoca in lui l’alto sentimento di simpatia e di compassione riguardo a esseri viventi come lui e diventa crudele facendo violenza a sé stesso. Eppure, quanto è profondo nel cuore dell’uomo il divieto di uccidere!
Un giorno che tornavo da Mosca, dei carrettieri che andavano nella foresta a far legna, mi fecero salire sul loro carro. Era il giovedì Santo. Io ero seduto davanti, accanto a un carrettiere forte, sanguigno, rozzo; evidentemente un contadino a cui piaceva bere. Entrando in un villaggio scorgemmo un grosso maiale, tutto rosa, trascinato fuori da una casa, per essere abbattuto, che lanciava urla disperate che sembravano urla umane. Esattamente quando ci passammo davanti, cominciarono a colpirlo; un uomo gli conficcò nella gola il coltello e gli fece un lungo taglio; l’urlo del maiale divenne più forte ed acuto e l’animale riuscì a scappare via grondante di sangue. Io sono miope e non ho visto tutto in dettaglio. Vidi solo un corpo roseo come quello di un uomo e sentii delle urla disperate. Ma il carrettiere vide ogni cosa perché osservava la scena senza distogliere lo sguardo. Il maiale venne ripreso, rovesciato a terra e finito. Quando cessarono le sue urla, il carrettiere fece un sospiro profondo e disse: “Ma… dunque, non c’è un buon Dio?” Ciò rivela il disgusto che l’uccisione ispira all’uomo. Ma il continuo esempio, l’incoraggiamento all’ingordigia, l’affermare che ciò è ammesso da Dio3 e soprattutto l’abitudine conducono gli uomini al completo abbandono di un sentimento naturale.
Il venerdì andai dunque a Tula ed incontrando per la strada un uomo buono e sensibile, mio amico, lo pregai di accompagnarmi.

“Sì, ho sentito dire che è un macello organizzato benissimo e avrei voluto vederlo, ma se oggi macellano, non verrò”.
“E perché? è precisamente quello che voglio vedere; se si mangia della carne, bisogna anche vedere come sono squartati gli animali”.
“No, no, non posso”.

Da notare che quest’uomo è un cacciatore e che anche lui uccide.
Arrivammo. Già all’entrata si sentiva un fetore acre, ripugnante, di putrefazione, simile a quello della colla forte dei falegnami. Più entravamo, più il fetore cresceva. Il fabbricato è in mattoni rossi, grandissimo, con il tetto a volta con dei grandi camini. Entrammo da un portone. A destra, un cortile circondato da una staccionata, grande circa un quarto di ettaro; è il luogo dove, due giorni alla settimana, viene portato il bestiame venduto. All’estremità di quel cortile, si trovano due capannoni con porte ad arco; il pavimento è in asfalto steso in modo che si creino dei dossi dove scorre il sangue, poi vi sono delle strutture speciali per appendere l’animale ucciso.
Presso il capannone di destra erano seduti su di una panca sei macellai con i grembiuli sporchi di sangue; le maniche, anch’esse insanguinate, erano rimboccate sulle braccia muscolose. Il loro lavoro era terminato da una mezz’ora, così abbiamo potuto vedere solo il capannone vuoto. Malgrado la porta fosse spalancata da entrambi i lati, il pesante odore di sangue stringeva la gola e tra le fessure del pavimento vi era del sangue rappreso.
Uno dei macellai ci spiegò come avvengono le macellazioni e ci mostrò il posto dove gli animali sono uccisi. Io non compresi bene e mi feci un’idea falsa, ma terribile, delle uccisioni; pensai, come sovente accade, che la realtà avrebbe prodotto su di me una minore impressione, rispetto a quella della mia immaginazione, ma mi sbagliavo.
La seconda volta arrivai al macello in tempo; era una calda giornata di giugno, il venerdì prima della Pentecoste; l’odore di colla forte, di sangue, era ancora più intenso della mia prima visita, il lavoro era in pieno svolgimento; la corte polverosa era piena di animali ed altri ancora erano in vari recinti. In strada c’erano dei carri fermi ai quali erano legati buoi, vitelli e vacche. Altri carri che sopraggiungevano, trascinati da cavalli, pieni di vitellini vivi, con le teste legate, erano subito scaricati. Ed altri carri ancora, carichi di buoi abbattuti, con le gambe penzolanti che traballavano secondo i movimenti del carro, le teste inerti, i polmoni rosa e i fegati scuri scoperti, uscivano dal macello.
Presso la staccionata erano attaccati i cavalli da sella dei mercanti di bestiame. Questi mercanti, con i loro lunghi pastrani e con la frusta in mano, andavano avanti e indietro nel cortile apponendo il marchio sulle loro bestie, contrattando i prezzi e sorvegliando il trasporto delle bestie nei vari recinti, fino all’abbattimento.
Tutta quella gente era visibilmente assorbita da questioni di denaro e il pensiero se è bene o male uccidere quegli animali era così lontano da loro, quanto la composizione chimica del sangue che colava a terra. Nessun macellaio era nel cortile; erano tutti al lavoro. Quel giorno furono abbattuti circa cento buoi.
Quando entrai nella sala delle macellazioni, mi fermai presso la porta, sia perché all’interno si stava stretti, per la quantità di animali presenti, sia perché il sangue che gocciolava dall’alto schizzava dappertutto e, se fossi entrato, ne sarei uscito coperto. C’era una bestia che staccavano da un gancio, un’altra che la mettevano su rotaie; una terza, un bue appena ucciso, era per terra, le gambe bianche in aria e il macellaio era occupato a scuoiarlo. Contemporaneamente, attraverso la porta opposta a quella dove mi trovavo, due uomini trascinavano un grande bue rosso e grasso; appena superata la porta, uno dei macellai lo colpì sopra il collo. Il bue cadde pesantemente sul ventre, come se le sue quattro gambe fossero state tagliate, poi, subitaneamente, si girò sul fianco muovendo convulsamente gambe e reni. Allora, un macellaio si precipitò su di lui badando a non farsi colpire dagli zoccoli, lo afferrò per le corna e gli abbassò con forza la testa verso terra, mentre un altro macellaio gli tagliò la gola; dalla ferita uscì sangue rosso-scuro a fiotti, sembrava una fontana; quel sangue venne raccolto, in un grande catino, da un ragazzo imbrattato di sangue. In tutto quel tempo, il bue non aveva smesso di scrollare la testa e di agitare convulsamente le gambe. Il catino si riempiva rapidamente, ma il bue era ancora vivo, continuava a battere l’aria con gli zoccoli, in maniera così forte che i macellai se ne stavano in disparte. Quando il catino di metallo fu pieno, il ragazzo se lo caricò in testa e lo portò alla fabbrica d’albumina, mentre un altro ragazzo portò un altro catino per riempirlo; ma il bue continuava a scalciare disperatamente. Quando il sangue cessò di uscire, il macellaio sollevò la testa del bue e si mise a scuoiarlo, mentre l’animale si dibatteva ancora. La testa era messa a nudo, era diventata rossa con delle striature venose bianche. La pelle pendeva dai due lati e il bue si dibatteva ancora. Allora, un altro macellaio afferrò una gamba del bue, la spezzò e poi gliela tagliò; sul ventre e sulle altre gambe erano ancora visibili delle convulsioni; gli furono quindi tagliate le altre gambe, che furono gettate dov’erano quelle degli altri buoi dello stesso proprietario; infine, trascinato verso la carrucola, venne appeso. Solamente allora, la bestia non diede più segni di vita.4
Così io vidi, dalla porta dov’ero, ucciderne un secondo, un terzo, un quarto. Per tutti, il procedimento era lo stesso; in ciascuno degli ultimi trasalimenti, la testa tagliata mostrava la lingua perforata dai denti. C’era differenza quando il macellaio sbagliava il colpo, allora l’animale s’impennava, muggiva e, grondando sangue, tentava di fuggire; allora lo si trascinava sotto la trave dove si faceva lo scorticamento, lo si colpiva una seconda volta e quello cadeva.
Feci il giro e mi avvicinai alla porta opposta dalla quale entravano gli animali; qui vidi lo stesso procedimento, ma più da vicino, così potei osservare tutto più chiaramente. Vidi soprattutto quel che non avevo potuto osservare dall’altra porta: il mezzo con il quale si costringeva la vittima ad entrare. Ogni volta che prendevano un bue dal cortile e lo trascinavano con una corda legata alle corna, il bue, sentendo l’odore di sangue, muggiva, s’inarcava e indietreggiava; due uomini non avrebbero potuto trascinarlo a forza, pertanto, ogni volta, uno dei macellai si avvicinava, prendeva il bue per la coda e la torceva spezzando le cartilagini; a questo punto l’animale avanzava.
Quando ebbero finito di abbattere i buoi di un proprietario, ricominciarono con quelli di un altro. Il primo animale di questo nuovo gruppo era un toro bellissimo, muscoloso, nero con delle chiazze bianche, con le gambe tutte bianche, un animale giovane, pieno di energia. Tirarono la corda, l’animale abbassò la testa e s’impuntò con decisione; allora il macellaio che gli stava dietro, afferrò la coda del toro torcendola fino a frantumarne le cartilagini. Il toro balzò in avanti buttando a terra quelli che lo tenevano per la coda, poi si fermò nuovamente guardandosi intorno con i suoi occhi neri pieni di fuoco, ma di nuovo la coda scricchiolò. Il toro si gettò in avanti e questa volta si fermò sul punto giusto. L’abbattitore si avvicinò e vibrò un colpo mal riuscito. Il toro fece un balzo, agitò con forza la testa mugghiando e, tutto insanguinato, si divincolò e indietreggiò. Quelli che erano vicini alla porta si scansarono in fretta, ma i macellai, abituati a simili pericoli, afferrarono nuovamente le corde, torsero ancora la coda e il toro si trovò di nuovo nel posto dove fu trascinato con la testa fin sotto la trave dove non poteva avere più scampo. L’abbattitore individuò rapidamente il punto della testa dove il pelo si divide a stella, benché fosse coperto di sangue, e colpì; la bella bestia piena di vita stramazzò dibattendo la testa e le gambe mentre la dissanguavano e la scorticavano.
“Ah! quante storie per crepare! E non è neanche caduto dove doveva!” – borbottava il macellaio mentre scuoiava la pelle della testa. Cinque minuti dopo, la testa nera era rossa, senza pelle, con gli occhi vitrei, quegli stessi occhi che solo cinque minuti prima brillavano di un così bel colore.
Poi andai dove viene abbattuto il bestiame minuto; era uno stanzone con il pavimento asfaltato e con dei tavoli con spalliera, sui quali venivano sgozzate pecore e vitellini. Là, il lavoro era finito e, nello stanzone saturo dell’odore del sangue, c’erano due macellai. Uno soffiava nella gamba di un agnello ucciso e poi ne premeva con una mano il ventre gonfio d’aria; l’altro, un ragazzo col grembiule rosso di sangue, si fumava una sigaretta.
Dopo di me entrò un uomo, che sembrava un soldato a riposo, che portava un agnellino nero, con un segno sul collo; nato il giorno prima, aveva già le gambe legate; lo mise su uno dei tavoli come se lo coricasse in un lettino. Questo tale, evidentemente un abitudinario del posto, augurò il buon giorno e cominciò a discorrere a proposito di un permesso da chiedere al padrone. Il ragazzotto della sigaretta si avvicinò con il coltello in mano, l’affilò sull’angolo del tavolo rispondendo che davano vacanza tutti i giorni festivi. L’agnellino, vivo, restava sul tavolo come quello morto, con la differenza che agitava la piccola coda e, respirando sempre più affannosamente, sollevava i suoi fianchi. Il soldato appoggiò senz’alcuno sforzo contro il tavolo la testolina che la bestiola voleva sollevare; il giovane macellaio, continuando a discorrere, afferrò con la mano sinistra la piccola testa dell’agnellino e gli tagliò la gola. La povera bestiola si contorse, la piccola coda cessò ogni movimento. Mentre il sangue colava e l’agnellino sussultava ancora, il ragazzotto si riaccese la sigaretta. Intanto, la discussione continuava senza alcuna interruzione.
E le galline? E i polli, che a migliaia, ogni giorno, nelle cucine, con le teste tagliate, inondati di sangue, saltano, sbattono le ali con spaventosa comicità? E tuttavia, la donna dal cuore tenero mangia quei cadaveri di volatili, con la completa sicurezza di non far niente di male, sostenendo due tesi contraddittorie: la prima, che lei è così delicata, come le assicura il medico, che non potrebbe sopportare un’alimentazione esclusivamente vegetale, la seconda, che lei è così sensibile che è incapace non solo di far soffrire un animale, ma di vedere tale sofferenza. In realtà, quella povera donna è delicata precisamente perché l’hanno abituata a nutrirsi di alimenti contrari alla natura umana5 e non può non infliggere sofferenze agli animali, per il semplice fatto che se li mangia….

Da: Lev Nikolàevic Tolstòj
Contro la caccia e il mangiar carne
A cura di Gino Ditadi
AgireOra Edizioni, Torino 2023

Testo pubblicato su Veganzetta con il permesso del curatore.

Note:

  1. Queste pagine sono tratte da un saggio di Tolstòj, ultimato alla fine dell’agosto 1891, comparso a Mosca nel maggio 1892, con ampi tagli censori, sulla rivista Voprosy filosofii i psixologii (pp. 109-144) e poi, con tagli, variazioni e aggiunte, sulla Revue scientifique (n. 8, t. 50, 20 agosto 1892, pp. 225-236, con il titolo Notre alimentation), suscitando un dibattito al quale partecipò Charles Richet, direttore della rivista e presidente della Facoltà di medicina di Parigi. Pur dissociandosi da Tolstòj, Richet riconobbe il valore del vegetarismo: “Reste la question de savoir si l’alimentation animale est nécessaire. Sur ce point, Tolstoï a absolument raison. Non, mille fois non, cette alimentation n’est pas nécessaire. Tous les faits le prouvent et c’est l’abc de la physiologie”. (Revue scientifique, 24 septembre 1892, p. 390). Il saggio sarà poi inserito nel volume XIII delle Opere, Tipografija Voltschaninov, Moskva 1893. Tolstòj visitò il macello di Tula nel giugno 1891. Tula era una città ben conosciuta da Tolstòj a sole 15 verste da Jàsnaja Poljàna. Nella primavera del 1861 Tolstòj venne proposto come candidato alla carica di Mirovòj posrédnik (Plenipotenziario della nobiltà, per decidere le controversie tra contadini e proprietari, carica istituita dopo l’abolizione della servitù della gleba). P. M. Daragàn, Governatore di Tula, nominò Tolstòj Mirovòj posrédnik del IV Dipartimento del Distretto di Krapivi, ma la nobiltà del governatorato di Tula manifestò presto la sua contrarietà. Il 18 agosto 1861, alcuni esponenti della nobiltà di Krapivi inviarono una denuncia alle autorità nella quale sottolineavano di trovarsi in una spiacevole situazione “a causa delle azioni ingiuste ed arbitrarie del conte Tolstòj, il quale sostiene apertamente le rivendicazioni dei contadini contro i possidenti”. L’opposizione distrettuale fu tale che Tolstòj dovette dimettersi. In seguito alle continue pressioni dei nobili di Krapivi, il 3 gennaio 1862, la polizia politica segreta aprì un’inchiesta su Tolstòj; l’inchiesta trovò ulteriori giustificazioni persecutorie nel fatto che nelle diverse scuole di Jàsnaja Poljàna e di altri villaggi dipendenti da Tolstòj, insegnavano non pochi studenti cacciati dall’Università, per le loro idee politiche. Jules, Louis Montels (1843-1916, membro dell’Internationale, firmatario dell’Affiche rouge, combattente della Commune), dal 1878 al 1880, fu precettore, a Jàsnaja Poljàna, di due figli di Tolstòj, insegnando loro greco, latino e francese. Cfr. L. Descaves, Philémon. vieux de la vieille, Paris 19132, pag. 305.
  2. Si tratta del libro di H. Williams, The Ethics of Diet. A Catena of Authorities Deprecatory of the Practice of Flesh-Eating, London 1883.
  3. Cfr. Bibbia. Genesi 9, 2-3: “Iddio benedì Noè e i suoi figli e disse loro: Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra e incutete paura e terrore a tutti gli animali della terra e a tutti gli uccelli del cielo. Essi sono dati in vostro potere con tutto ciò che striscia sulla terra e con tutti i pesci del mare. Tutto ciò che si muove e che ha vita vi sarà di cibo”. Cfr. san Paolo, Prima Lettera ai Corinti, 10, 28; sant’Agostino, De civitate Dei, I, 20-21; san Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, II, cap. CXII, ecc.
  4. Sulle procedure di allevamento e di macellazione ai nostri giorni, si veda l’intenso documentario-verità Dominion (2018), di Chris Delforce ~ versione italiana a cura di AgireOra.
  5. Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine de l’inegalité, Amsterdam 1755, pp. 105; 202: “Fra i quadrupedi i due caratteri distintivi più generali delle specie carnivore sono offerti dalla forma dei denti e dalla conformazione degl’intestini. Gli animali che si nutrono esclusivamente di vegetali hanno sempre i denti piatti, come il cavallo, il bove, il montone, la lepre; i carnivori invece li hanno appuntiti: come il cane, il gatto, il lupo, la volpe.
    Quanto agli intestini, gli erbivori ne hanno qualche parte, come il colon, che nei carnivori manca. Parrebbe dunque che l’uomo, provvisto di denti e di intestini analoghi a quelli degli erbivori, si debba naturalmente collocare in questa classe, e tale opinione non solo è confermata dalle osservazioni anatomiche, ma trova largo appoggio nei monumenti dell’antichità. Scrive san Girolamo: “Dicearco, nei suoi libri sull’antichità greca, riferisce che
    sotto il regno di Saturno, quando la terra era ancora spontaneamente fertile, nessun uomo mangiava carne, vivendo tutti di frutti e legumi che crescevano naturalmente” (L. II, Adv. Jovinianum). [Si può trovare conferma a quest’opinione anche nelle relazioni di parecchi viaggiatori moderni: Francesco Coréal, tra gli altri, attesta che la maggior parte degli abitanti delle Lucaie che gli Spagnoli trasportarono alle isole di Cuba, Santo Domingo e altrove, morirono per aver mangiato carne (Voyages de François Coréal aux Indes Occidentales, t. I, parte I, cap. II, p. 40)]. Di qui si vede che tralascio molti elementi a favore che potrei far valere. Essendo infatti la preda quasi la sola causa di lotta fra i carnivori, e vivendo gli erbivori fra loro in una pace costante, se la specie umana fosse appartenuta a questo genere, evidentemente le sarebbe stato molto più facile sussistere nello stato di natura e il suo bisogno e le sue occasioni di uscirne sarebbero stati molto minori”. (In I filosofi e gli animali, AgireOra, Torino 2021, p. 314).

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Avviso legale: questo testo non può essere utilizzato in alcun modo per istruire l’Intelligenza Artificiale.

Un commento
  1. Paola Re ha scritto:

    Sono pagine strazianti. Consiglio la lettura del libro.

    5 Febbraio, 2024
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