Il nostro bene è quello degli altri?


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In un mio precedente articolo avevo fatto riferimento brevemente ai limiti di cui soffre un’impostazione dell’antispecismo in termini di filosofia morale. Su questo passo la redazione aveva espresso il suo dissenso. Proverò ora a sviluppare questo tema e motivare meglio quella affermazione.
Il centro del discorso è costituito dalla grossa differenza fra ciò che Marco Maurizi in un suo scritto di qualche anno fa chiamava antispecismo metafisico e l’antispecismo storico. L’antispecismo morale-metafisico, nel credere che l’evoluzione del pensiero determini i fatti della Storia, presuppone che l’Umano sia un Animale morale. Ma non è così: l’Umano al più è, come tutti gli Animali sociali, un Animale culturale, dove il suo essere tale si concretizza nel formulare modelli di cultura. Visioni del mondo che hanno lo scopo di giustificare a posteriori il suo agire. Lo specismo è il più evidente e attualmente generalizzato di questi modelli. Questa è la visione in cui si colloca l’antispecismo storico.
L’adesione al modello culturale del proprio gruppo da parte di un individuo è acritica e prescinde dal valore di ogni argomento contrario. Ecco perché i pur buoni, eccellenti argomenti dell’antispecismo morale sono inefficaci. Fanno appello alla ragione, non all’istinto di gruppo che è e rimane più forte perché legato al vero e unico scopo di ogni sua azione: la conservazione della propria struttura, a sua volta legata alla conservazione della struttura del gruppo. Ciò spiega fra l’altro certe apparenti assurdità  comportamentali di molti ambienti alternativi, fra cui quelli che si occupano della questione animale. Soffermiamoci un momento su di esse.
La prima cosa che si nota in ciascuno di tali gruppi è un certo insieme ben definito e immutabile di modalità  di comportamento: la manifestazione, le mail di protesta, la petizione, il presidio, la riunione e poco altro. Ogni azione inoltre è chiusa in sé, non relazionata alle altre da qualsiasi cosa che possa chiamarsi programmazione, piano a medio-lungo termine, metodo. Tutto appare guidato da un perenne agire a caso. Improvvisando, oggi qui, domani altrove, ripetendo sempre gli stessi schemi, indipendentemente dal fatto che ci siano risultati o siano meno efficaci. E’ facile cadere nell’errore di attribuire tutto ciò a una generalizzata ottusità ; è invece necessario mettersi alla ricerca del movente che spinge l’attivista a essere tale. Movente in cui, nonostante quanto egli crede in perfetta buona fede, il cosiddetto “Animale” ha un ruolo tutt’altro che centrale. Cose come presidi, manifestazioni, e incontri vari hanno la stessa valenza che il compositore John Cage attribuiva ai concerti: happening e nient’altro, in cui il fatto di ascoltare musica è un semplice pretesto. Se interpretiamo allo stesso modo le iniziative “animaliste” tutto quadra, compreso il fatto che costoro spesso diano all’esterno una pessima immagine di se stessi – e, cosa ben più grave, delle idee che propugnano -. Tale immagine, così come l’immancabile inefficacia dell’azione, è un dettaglio irrilevante. L’unica cosa che conta è esserci, e l’unica immagine che conta è quella che si dà  agli altri partecipanti all’happening. L’azione in altre parole è tutta rivolta all’interno del gruppo. Le modalità  di azione vengono ripetute ogni volta sempre uguali, indipendentemente dalla loro (in)efficacia, perché esse definiscono l’identità  del gruppo, che è l’unica cosa che conta. La persistente mancanza di risultati non lede il prestigio del capo di turno (c’è sempre un capo di turno) perché non è il gruppo a fare le spese della sconfitta cronica. Un punto determinante è infatti il fatto che l’antispecismo è un movimento di liberazione che non tende alla liberazione di se stesso ma di qualcun altro. Il suo scopo dichiarato è cioè esterno al gruppo e non correlato con lo scopo reale e fisiologico di ogni organismo, biologico o sociale. Il suo scopo è perdurare. L’antispecismo morale in altre parole presuppone l’esistenza di un qualcosa chiamato altruismo per il quale non esiste una sede biologica nel cervello di nessun essere senziente.
L’antispecismo storico, al contrario, nel cercare di individuare le leve su cui agire tiene conto delle dinamiche sociali che legano l’individuo al proprio gruppo e che determinano il comportamento di quest’ultimo. Questa idea di antispecismo in realtà  non parte dall’antispecismo bensì da un modello di società  umana compatibile con esso. Tale modello oggi lo troviamo nel movimento per la Decrescita e più esattamente nel concetto di società  del bene comune da esso sostenuto: l’unico modo che ho per agire a mio vantaggio è agire per il bene di tutti. Ma tutti chi? Le idee della Decrescita sono allo stato attuale racchiuse entro un orizzonte prevalentemente umano, tuttavia l’accentuata sensibilità  ecologista che la caratterizza crea un terreno fertile per innestarvi il concetto successivo: quello dell’interdipendenza di tutte le cose all’interno della biosfera. Se ogni cosa dipende da ogni altra non può essere posto un confine all’idea di bene comune ed ecco dunque formulata la necessità  di includere in essa le forme viventi non umane, senza bisogno di ricorrere a fantasiosi concetti “morali” come il cosiddetto altruismo, bensì ricorrendo semplicemente all’unica spinta che muove un organismo vivente, individuo o collettività  che sia: la conservazione della propria struttura.
In conclusione l’antispecista puro, cioè formato su basi esclusivamente etico-morali, è una semplice astrazione metafisica priva di consistenza storica. L’antispecismo come forza sociale prima e modello culturale generalizzato poi, può realizzarsi, ma solo se inserito nelle dinamiche reali di formazione e funzionamento di un gruppo umano. Solo tenendo conto di esse e “funzionando” con esse.

Filippo Schillaci

1) F. Schillaci, Decrescita e antispecismo: due compagni di strada, in Veganzetta,
https://www.veganzetta.org/?p=489 14 dicembre 2009
2) M. Maurizi, Nove Tesi su Antispecismo Storico e Antispecismo Metafisico, in Rinascita Animalista, http://www.liberazioni.org/ra/ra/officina035.html 20 marzo 2005


Sulla relatività  del concetto di impossibile

Partiamo col dire che le “nove tesi” esposte da Marco Maurizi avrebbero bisogno di una trattazione a sé, pertanto ci riserviamo in futuro di dedicare all’argomento uno spazio apposito, e per tale motivo ci vediamo costretti ad affrontare la questione solo parzialmente facendo riferimento diretto al solo testo di Schillaci.
Filippo scrive: L’antispecismo morale in altre parole presuppone l’esistenza di un qualcosa chiamato altruismo per il quale non esiste una sede biologica nel cervello di nessun essere senziente. Come per la questione Gilania e Kurgan ci appelliamo al beneficio del dubbio: siamo sicuri che tale sede non esista? E con ciò ci si addentra nel campo intricatissimo delle neuroscienze, stiamo parlando dell’organo umano che conosciamo meno in assoluto, pertanto anche qui ci riserviamo di attendere maggiori evidenze future per capire se realmente una zona del genere nel nostro cervello esista o meno, o possa svilupparsi – o attivarsi – in seguito ad esperienze di vita. Il discorso di Schillaci assomiglia un po’ a quello dell’antivivisezionismo scientifico. L’Animale non può essere preso a modello per le esigenze umane, pertanto la vivisezione è del tutto inutile oltreché crudele. E se in futuro l’ingegneria genetica “producesse” un Animale-chimera (ci stanno già  lavorando) in grado di rispondere perfettamente alle esigenze della sperimentazione che fine farebbe questa teoria? Quindi l’Antispecismo metafisico a nostro parere non è da scartare a priori. L’Umano può benissimo essere definito un Animale morale, dipende tutto da che morale viene presa in considerazione. Anche in questo caso il discorso è del tutto relativo dato che non esistono canoni universalmente condivisi sul concetto di morale: ciò che è morale per una persona potrebbe essere immorale per un’altra.
Ma torniamo al testo di Schillaci: l’unico modo che ho per agire a mio vantaggio è agire per il bene di tutti. In estrema sintesi questo sarebbe il concetto di Antispecismo Storico. Più che di antispecismo, però, si sta parlando di interesse di specie, di interesse di parte, di visione egoistica, di opportunismo, o nella migliore delle ipotesi, di utilitarismo. Ma questo non è tutto ciò contro cui l’antispecismo intende lottare? Se agiamo per la liberazione degli Animali perché così, indirettamente, anche noi ne traiamo dei vantaggi, non continuiamo ad avallare – e a perpetrare – la visione egoistica e specista che ci ha portato ad essere ciò che siamo oggi?

In conclusione (ma solo per ora): forse sarebbe opportuno valutare con un approccio diverso quali sono le questioni sollevate dall’Antispecismo Metafisico e Storico, magari per arrivare a capire che nessuno dei due concetti è completamente giusto o completamente errato.
Nulla forse è veramente impossibile.

Adriano Fragano


Articolo pubblicato originariamente nella rivista Veganzetta versione cartacea: Estate 2010 / n° 1 del 30 maggio 2010, p. 4


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