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La nostra attuale società ha fatto della classificazione uno degli strumenti principali nella riformulazione della realtà percepita. Molto spesso la finalità di tale organizzazione delle cose e dei concetti risponde alle necessità dell’industria, del mercato, della comunicazione o… dell’occultamento della realtà. Non che vi sia una volontaria cospirazione in questo senso, ma pare che vi sia una sorta di meccanismo, di collegamento, tra necessità pratiche e modificazione della percezione della realtà. Ad esempio il termine “bistecca” che per molti richiama visioni di succulenti banchetti, cela però la sua origine violenta, non corrisponde nell’immaginario popolare alla realtà , ma ne crea un’altra fittizia ed alternativa (solo di natura gastronomica), etimologicamente sarebbe più corretto dire: “fetta di carne di bove” come recita la radice etimologica beefsteak, o meglio “parte del cadavere di una Mucca sgozzata appositamente”.
E se tale realtà fosse esplicita allora questa parola avrebbe un effetto dirompente, negativo nella percezione comune. Una delle caratteristiche maggiori di tale processo relativamente alla questione animale (o alla cosiddetta “cultura del dominio” e della violenza) è quello di separare e di annullare l’altro, il diverso (in questo caso l’Animale), per far sì che cessi per così dire di esistere nel mondo percepito dagli Umani, divenendo al massimo solo una “cosa” o un “materiale” o un “processo” nell’immane ingranaggio della società. La psicologia a questo riguardo insegna come l’empatia (e quindi la possibilità della compassione) necessita dell’identificazione con altri soggetti o quantomeno un loro riconoscimento.
Venendo a mancare tale identificazione, ciò che non riusciamo ad individuare, a riconoscere, diventa “altro” nel senso più netto del termine: distaccato, scollegato, sconosciuto, separato, anzi in psicologia si parla di “referente assente”. E poiché “assente” è difficile che possa stimolare in noi sentimenti, emozioni, empatia, rispetto.
Allargando il campo d’analisi, anche il tentativo di allontanare, di separare nettamente le persone vegane dalle altre, risponde a tale meccanismo: se la persona vegana è “diversa” diviene una sorta di folle, d’alieno, la cui parola ed il cui stile di vita non merita di essere preso in considerazione o esaminato: è “un altro mondo” (paradossalmente, come l’indigeno cannibale che si mangia le persone…), anzi un mondo “assente”, che scompare dalla realtà percepita e condivisa. Dunque il passaggio dalla “diversità ” (nel senso di tutto ciò che come soggetti non si è) alla “assenza” genera quella desensibilizzazione che è una delle fondamenta dell’edificio culturale che permette di mangiare una “bistecca” senza sentire l’eco delle urla del Vitello che è stato ucciso per trarla dal suo cadavere, o di sapere che esistono persone che vivono normalmente ma senza far soffrire o morire gli Animali e non vederle…
La Redazione
Articolo pubblicato originariamente nella rivista Veganzetta versione cartacea: Anno I / n° 2 del 30 settembre 2007, p. 1
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