Coltiviamo l’antispecismo, non la carne


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Un interessante e utile articolo di Rita Ciatti per Veganzetta, sempre sulla questione recentemente affrontata della “carne artificiale” o “coltivata“. Buona lettura.


La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta
Theodor W. Adorno

Nel dibattito sulla carne coltivata sembrano esserci solo due possibili risposte: favorevoli o contrari. Ogni narrazione alternativa, come quella proposta da Adriano Fragano in questo articolo viene presa come atto di lesa maestà, accompagnato dal ricatto morale: non ci pensi a tutte le vite che potresti salvare?
Eppure trattandosi di un’innovazione importante il discorso merita di essere approfondito sotto tantissimi aspetti, in particolare quello antispecista perché in quanto persone umane attiviste per la liberazione animale dovremmo innanzitutto avere non solo sempre presente l’obiettivo che ci prefiggiamo, ma anche essere in grado analizzare ogni campagna, progetto o invenzione alla luce di quest’ultimo.

In questo articolo vorrei provare a fare un discorso ampio in cui la carne coltivata non è tanto l’oggetto principale, semmai il pretesto.
L’antispecismo (analogamente all’anarchismo), non è una teoria finalizzata a riformare l’esistente – la nostra società, la politica, l’economia, il sistema culturale, simbolico e materiale, entro cui viviamo e di cui assorbiamo e interiorizziamo schemi di pensiero, di valori e morale –, ma a cambiarlo radicalmente.
Uno dei capisaldi del nostro attuale sistema è il dominio: sulla Natura in senso ampio, ossia i territori, le foreste, i fiumi, i mari, le montagne, ecc., le mappe geopolitiche (che vengono ridefinite continuamente in base a interessi economici o di controllo delle risorse) e su tutti i viventi del pianeta, in particolare le minoranze, i più fragili e soprattutto sugli altri Animali. Per giustificare questo dominio la nostra specie nel corso dei secoli ha elaborato ideologie diverse usando di volta in volta le narrazioni più efficaci in base al contesto: razzismo, specismo, sessismo, motivazioni economiche, equilibri politici, per citarne alcune.
Lo specismo, che è quello che ci interessa in questa trattazione, è appunto un’ideologia finalizzata a giustificare, normalizzare e naturalizzare il trattamento di assoluto dominio che riserviamo agli Animali di altre specie; la loro esclusione morale da cui ne consegue la definizione di un sistema di valori del vivente, gerarchico e autoreferenziale, o meglio, autoriferito. Dentro questo sistema specista prendono vita alcune vie di fuga che risultano però illusorie. E lo sono, non tanto perché non vanno dritte al punto, ma perché da questo punto ideale, che nel nostro caso è la liberazione animale (materiale e simbolica) deviano in maniera pericolosa; il problema infatti, metaforicamente parlando, non è il passo intermedio o la deviazione in sé, ma il tipo di deviazione o di strategia attuate.

Immaginare una società antispecista significa immaginare una società come finora non è mai stata realizzata ed è in tal senso che, seppur tra mille difficoltà, impedimenti, ostacoli – anche proprio nella definizione di un orizzonte ideale – dovremmo muoverci. L’antispecismo, l’abbiamo sempre detto, è una teoria e una prassi in costruzione, non una soluzione immediata che si può pensare di raggiungere con qualche innovazione tecnologica, ma lasciando intatto il concetto di dominio; sarebbe come pensare che l’invenzione della lavatrice e della lavastoviglie abbiano potuto liberare le donne dal patriarcato. Indubbiamente sono state invenzioni utili che hanno di parecchio migliorato e alleggerito il lavoro delle donne, ma non sono servite a scardinare i ruoli di genere associati ai sessi che tutt’oggi perdurano (secondo i quali sono le donne a dover lavare i panni e i piatti), tanto meno la violenza di cui le donne sono ancora vittime. Allo stesso modo non può bastare un’innovazione come la carne coltivata a scardinare il ruolo entro cui da sempre releghiamo gli altri Animali.
Ciò che facciamo, compreso ciò che mangiamo e le nostre scelte in generale, definiscono anche il nostro cervello, nel senso proprio di modificazione materiale, in quanto il cervello è un organo plastico. Gli atti, ciò che apprendiamo per imitazione, plasmano il pensiero. Ed è per questo che si continua a restare affezionati al mito della carne, anche se sappiamo bene che non abbiamo bisogno di mangiare Animali per stare in salute.
Mangiare carne di Animali significa mangiare corpi di Animali, quindi considerarli alla stregua di prodotto, non di soggetti senzienti paritari, e questo a prescindere da come tale carne sia ottenuta.
Le persone umane speciste chiedono la carne e noi gli diamo la carne, anziché proporgli alternative.
Possiamo davvero parlare di innovazione?

Ancora: l’antispecismo non contempla semplicemente la fine della sofferenza degli Animali, ma la fine del nostro dominio sugli Animali e in generale l’affrancamento dal concetto di dominio stesso, compreso quello intraspecie. In questo senso l’antispecismo implica una ridefinizione anche dell’Umano e di quella rete di significati e significanti che chiamiamo lingua, atti, politica, etica, morale, quindi cultura in senso ampio, intesa come tutto ciò che la nostra specie produce, sia di materiale, che di intellettuale; senza questa rete di significanti e significati non esisterebbe la ben nota opposizione tra umanità ed animalità ed è proprio dal tentativo di conciliare e sanare questa cesura che l’antispecismo dovrebbe partire. Ridefinire questo universo entro cui ci muoviamo e agiamo è un compito arduo ed è compito dell’antispecismo perché la liberazione animale non può che esigere un cambiamento radicale di pensiero e di atti. Gli Animal Studies oggi sono materia di ricerca, approfondimento e studio, non solo passatempo di gente annoiata che ama gli Animali.
Se questo dominio da cui dobbiamo affrancarci sia solo socio-culturale o anche biologico è ancora da appurare. Sono fermamente convinta che tutto ciò che l’Animale umano pensi possa prima o poi essere realizzato, per il solo fatto che l’abbia pensato. Finora la Storia ci ha dimostrato che tutti i sogni tecnologici dei decenni passati sono o stanno per essere realizzati, purtroppo non in maniera orizzontale e includente per tutti i viventi. La tecnologia infatti ha migliorato le sorti di una percentuale minima di popolazione umana (anzi, il gap tra soggetti ricchi e poveri negli ultimi decenni sta aumentando) e di certo ha peggiorato quella degli Animali. Allevamenti intensivi, mattatoi automatizzati gestiti da robot (se ne parla ormai da un po’), allevamenti-grattacielo, Animali modificati geneticamente così da avere carni più magre o ridurre l’impatto ecologico delle loro deiezioni, tanto per fare qualche esempio. L’ultima trovata ingegneristica è la carne coltivata.

Premetto subito che nei confronti della carne coltivata mantengo comunque un atteggiamento non del tutto negativo (anche se come idea in sé la trovo abbastanza aberrante), anzi, ne vedo almeno un utilizzo positivo (che dirò tra poco), ma assolutamente non la considero un passo avanti nella realizzazione di una società antispecista, né argomento che dovrebbe essere incluso negli Animal studies o nell’attivismo, dal momento che non mette in discussione il concetto del nostro dominio sugli altri Animali, né l’opposizione umanità vs animalità, né ci dice nulla di nuovo sugli Animali (che continuano a essere considerati risorse rinnovabili).
La carne coltivata, esattamente come il neowelfarismo, rientra infatti nel campo delle riforme del reale all’interno di un paradigma di pensiero ancora specista, in cui il nostro rapporto con gli Animali non solo non viene minimamente intaccato (figuriamoci radicalmente), ma addirittura ne riconferma l’impronta al dominio.
La premessa errata di chi obietta dicendo che intanto risparmieremmo molte vite animali, a parte il ricatto morale, è che ci si continua a muovere nel campo del reale così com’è, abbandonando ogni proposito di cambiamento radicale. Il fine di chi per motivi etici appoggia la carne coltivata infatti non è evidentemente l’antispecismo, né il cambiamento del nostro rapporto con gli Animali, bensì il riduzionismo, ossia la riduzione della sofferenza e del numero degli Animali ammazzati. Provvedimento questo assai analogo a quello delle riforme sul benessere animale, che difatti mirano a ridurre un poco la sofferenza degli Animali allevati e a migliorare le pratiche di uccisione; analogo anche alle campagna, sempre riduzioniste, questa volta del consumo di carne, che fanno uso degli argomenti indiretti e che invitano a ridurre il consumo di carne perché è cancerogena, è causa di malattie cardiovascolari, o perché gli allevamenti inquinano, o ancora perché (come in una abbastanza recente campagna della LAV uscita durante la pandemia da Covid-19), gli allevamenti possono portare al verificarsi di zoonosi.
Il concetto di lotta all’ingiustizia nell’obiettivo del riduzionismo è totalmente espunto. Come se un’ingiustizia dovesse sparire nella misura in cui ne diminuiscono i soggetti oppressi. Quindi per un mero motivo di calcolo, quantitativo. Da notare che nessuna lotta contro altre ingiustizie propone una riduzione della violenza, bensì la sua abolizione. Nessuno direbbe mai che dovremmo ridurre la violenza sulle donne o i crimini omofobici. Che poi di fatto non sarà mai possibile abolire in toto la violenza umana, non significa che non dovremmo combattere quella che ha motivazioni ideologiche specifiche (patriarcato, eteronormatività, specismo, razzismo, ecc.).
La carne coltivata ridurrà l’uccisione di un gran numero di Animali? Sì. Ma ridurrà ciò che è alla base del nostro dominio sugli Animali? No. L’ingiustizia dell’uccisione del numero restante, anche se piccolo, e di quelli allevati e trattati come mero magazzino di materia organica su cui fare biopsie sparirà? No. Come non spariscono le ingiustizie delle minoranze etniche o delle comunità in cui le donne sono totalmente sottomesse, anche se nel resto del mondo stiamo messe meglio di decenni fa (almeno sulla carta).
Non si può inoltre fare a meno di notare l’incongruenza di chi lamenta l’orrore della realtà così com’è, della società in cui si vive, salvo poi appellarsi a questo reale ogni qual volta sembra troppo faticoso, anche solo mentalmente, provare a cambiarlo. Se il reale non ci piace, dovremmo provare a cambiarlo. Siamo diventati antispecisti proprio perché non ci piaceva la realtà dello sfruttamento animale ora vorremmo fare spallucce affermando che il reale è quello che è, la gente vuole mangiare carne? La carne coltivata anche se ne riduce la sofferenza e il numero degli individui uccisi, non va evidentemente nella direzione della liberazione animale.

L’obiezione che viene mossa più di frequente a chi si sforza di immaginare soluzioni che possano realmente andare in direzione della costruzione di un mondo nuovo (non quello distopico immaginato da Aldous Huxley ne Il Mondo Nuovo, ma uno antispecista, anarchico, non gerarchico, dove tutti i viventi hanno pari accesso alle risorse e cooperano per una felicità condivisa) è che si tratterebbe di utopia perché “Il mondo è quello che è e non diventerà mai vegano”. Questa frase mi è stata detta, negli anni e in ordine sparso, da attiviste a attivisti di Greenpeace che fanno propaganda di pesca sostenibile mentre vogliono salvare le Balene, da allevatori a favore del benessere animale, quindi con ovvi interessi economici, da persone umane ovviamente speciste che tarano la loro morale non sull’idea di giusto e sbagliato (inteso nell’accezione laica di beneficio o danno a qualcuno), ma su ciò che viene considerato normale dalla maggioranza, da persone umane che, come diceva Adorno, non hanno capito che la libertà, a volte, non è scegliere tra due posizioni offerte dal sistema (conservativo e conservatore), ma saper immaginare una via di fuga totalmente estranea all’agire corrente.
Partire dalla premessa che il mondo è quello che è e non cambierà mai significa non provare nemmeno a cambiarlo, significa tirare i remi in barca e al massimo muovere la manina per far oscillare appena la barchetta su cui ci troviamo, senza spostarci di un millimetro verso l’orizzonte di una terra diversa, nuova, ancora da scoprire e dove, chissà, davvero potrebbe essere possibile un vivere più armonioso tra tutti i viventi; allora l’unica scelta sensata potrebbe essere proprio quella di scendere da quella barchetta e imparare a nuotare. Senz’altro più faticosa, ma l’antispecismo e l’attivismo non sono un hobby per passare il tempo.
Ci si aggrappa a tutte quelle riforme illusorie come l’abolizione delle gabbie (End the Cage Age, sottoscritta da allevatori e associazioni animaliste insieme), la riduzione del consumo di carne (flexitarismo, che è un modo diverso per dire onnivorismo, ossia mangiare anche corpi di Animali) promossa sempre anche da associazioni animaliste, battaglie giuridiche per decidere se uccidere un’Orsa sottratta ai suoi boschi e ai suoi figli o spostarla in un’altra prigione, solo un po’ più grande; e ora la carne coltivata.
Partire dall’assunto che il mondo non diventerà mai vegano (tradotto: non si smetterà mai di mangiare Animali) significa sostenere e rafforzare proprio il consumo dei corpi Animali; significa propinare agli interlocutori di una società malata lo stesso veleno che l’ha fatta ammalare, solo ottenuto in modo diverso. Quel veleno è il dominio, corredato o meno da violenza fisica (e se non fisica, psicologica).
“Il mondo non cambierà mai” è l’aforisma dei poveri di immaginazione.
L’antispecismo invece è una teoria seria, rivoluzionaria, una teoria che si sposa per passione, per volontà, per desiderio di giustizia; non un termine da tradire continuamente nella pratica e nei pensieri.

Per quanto detto sopra, a mio avviso la carne coltivata non è argomento di cui si dovrebbe occupare l’antispecismo, nel senso della sua promozione e divulgazione, esattamente come le associazioni animaliste non dovrebbero aderire a riforme sul benessere animale: non dovrebbero spendere denaro ed energie in campagne che da una parte dichiarano di voler migliorare le sorti degli Animali, dall’altra non ne rinnovano nemmeno lo status apparente, figuriamoci quello ontologico, continuando persino a chiamarli “carne”, “prodotti alimentari”, solo più salubri dal punto di vista della salute umana. Ci pensa già il sistema a proporre e portare avanti – e con mezzi e risorse economiche ben più ingenti delle nostre –, a diffondere e promuovere queste campagne o innovazioni tecnologiche, nate in seno di una società specista.
La carne coltivata è carne del corpo di individui senzienti che continueranno a essere visti, pensati, immaginati, usati e mangiati in quanto cibo. La differenza è certamente nel modo di far arrivare sul piatto questa carne e certamente non è una differenza da poco, eppure poco cambia in un’ottica antispecista perché non contempla nessun cambiamento, né simbolico, né reale, del nostro rapporto con gli Animali. Gli Animali continueranno a essere allevati, anche se in misura minore, per essere sottoposti a biopsie. E, dato che rimarranno Animali, il loro corpo verrà usato SENZA IL LORO CONSENSO. Continueranno a essere i consumati e noi i consumatori: si potranno uccidere quando non serviranno più o comunque usare in tutti gli altri modi possibili che conosciamo.

Se una pratica è ingiusta questa va abolita alla radice, non riformata in alcuni suoi aspetti. L’antispecismo, come già affermato, non mira a eliminare la sofferenza, ma a cambiare il nostro rapporto con i viventi di altre specie e anche l’idea stessa di Umano e di umanità.
Un’umanità e animalità senza sofferenza è già stata immaginata e descritta tante volte in letteratura e nel cinema: basta assopire le emozioni, le sensazioni, anche tramite l’assunzione di droghe o panacee: del resto è quello che il sistema ci propone da sempre, stordimenti vari che siano alcol, sostanze stupefacenti, televisione, mito del lavoro e della produzione (sei felice se produci e consumi), religioni, ecc. (suggerisco la visione di un bellissimo film degli anni Settanta, Rollerball).
L’antispecismo invece non è assopimento o eliminazione del dolore, giacché non prevede l’eliminazione della sofferenza, ma delle ingiustizie e soprusi a danno di altri esseri senzienti.
Il dolore e la sofferenza, quando non provocati intenzionalmente a causa di soprusi e ingiustizie, fanno parte della vita.

Detto ciò, la carne coltivata potrebbe avere indubbiamente almeno un enorme lato positivo: nutrire tutti quegli Animali carnivori obbligati che per qualche ragione hanno bisogno del nostro aiuto, magari perché feriti e quindi in momentanea cattività in un rifugio o CRAS o anche in condizione di cattività a lungo termine poiché impossibilitati a essere reimmessi in Natura (gravemente disabili, bisognosi di cure continue, ecc.). Da persona vegana e antispecista, nonché anche gattara, ho sempre vissuto con molto dolore la contraddizione di dover dare carne ai Gatti che vivono con me e a quelli di cui in passato mi sono occupata in colonie urbane; inoltre talvolta mi è capitato di dover soccorrere e accudire per qualche giorno o anche solo una notte Uccelli carnivori. Ora, premettendo che sulla questione “Gatti come Animali domestici” ci sarebbe da fare un discorso a parte, rimane aperta la questione “come aiutare un carnivoro senza per questo dover causare la morte di altri Animali?”. La carne coltivata potrebbe essere la risposta. Pensiamo anche alle cliniche veterinarie che hanno necessità di tenere a disposizione grossi quantitativi di carne per nutrire i loro pazienti.
Ovviamente da persone umane antispeciste è giusto che includiamo nella nostra considerazione morale tutti gli Animali bisognosi di aiuto, carnivori compresi, ma non è giusto che per aiutarli si contribuisca allo sfruttamento e uccisione di altri Animali. La carne coltivata ovvierebbe a questo enorme dilemma morale.
Questa per me è l’unica propaganda che dovremmo fare noi antispecisti riguardo la carne coltivata: cibo per gli Animali carnivori.

Chi ha a cuore la vita degli Animali prigionieri degli allevamenti, invece di appoggiare la carne coltivata, potrebbe agire in favore dell’abolizione dei sussidi europei agli allevamenti. Certo, nemmeno questa è una richiesta antispecista, ma perlomeno va nella direzione giusta perché mira a creare danni economici alla filiera della zootecnia (persino nel manifesto dell’Animal Liberation Front c’è come obiettivo quello di danneggiare e sabotare le strutture che sfruttano e uccidono gli Animali).
La liberazione animale non è un processo che si possa ottenere nell’immediato ed è evidente che necessiti di passi intermedi, ma questi passi devono essere compiuti nella direzione giusta (quella di un cambiamento radicale) e si devono avvalere di strumenti adeguati, che non siano le, seppur invitanti, innovazioni tecnologiche proposte da un sistema che comunque non ha nessuna intenzione di rinunciare al dominio sui viventi.

Rita Ciatti


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13 Commenti
  1. Andrea Argenton ha scritto:

    Benché l’articolo sia assolutamente in larghissima parte condivisibile, io continuo ad avere molti dubbi (cioè a non avere certezze) sul tema della sofferenza, e in particolare ho delle perplessità sulla portata dell’affermazione “Il dolore e la sofferenza, quando non provocati intenzionalmente a causa di soprusi e ingiustizie, fanno parte della vita”.

    E’ vero, dolore e sofferenza fanno parte della vita, cioè sono eventi naturali, ma non tutto ciò che è naturale è buono e giusto, tutt’altro. L’antispecismo stesso è una posizione assolutamente innaturale, la natura è essenzialmente una storia di sopraffazioni del più forte sul più debole; gli umani hanno elevato all’ennesima potenza questa capacità di sopraffazione, a cui noi cerchiamo di opporci sulla base di una nostra etica umana, non naturale.

    Dolore e sofferenza, specialmente se acuti, sono per noi indubbiamente esperienze soggettivamente negative che cerchiamo in tutti i modi di evitare per quanto a noi possibile. Non esisterebbe la medicina se accettassimo senza obiezioni sofferenza e dolore. La gazzella straziata ed uccisa dal leone certamente non si pone quesiti su cosa è giusto o no, ma altrettanto certamente soffre indicibilmente mentre le sue carni vengono lacerate. Se possiamo evitare questa sofferenza siamo sicuri di poterla ignorare?

    Certo, dall’altro piatto della bilancia c’è una storia di interventismo umano nei confronti della natura (tutta, animali, vegetali e minerali) che quasi sempre ha compiuto disastri, e ne sta compiendo sempre di più e con crescita esponenziale, e questo indubbiamente rende poco plausibile l’idea che siamo in grado di migliorare qualcosa, sembra anzi che l’uomo abbia il tocco di re Mida al contrario.

    Poi certamente c’è da considerare anche l’aspetto della visione presuntuosa e paternalistica secondo cui noi saremmo titolati a decidere come dovrebbero vivere tutti gli altri viventi, e anche questo spinge contro l’idea di intervenire.

    Scusate se ho esposto queste idee in modo un bel po’ confuso ma è perché su questo tema non faccio fatica ad ammettere appunto di essere confuso e di non avere ancora maturato una chiarezza di idee.

    15 Luglio, 2023
    Rispondi
    • Veganzetta ha scritto:

      Grazie per il tuo commento stimolante e articolato.

      Non essendo l’autore dell’articolo, non posso esserne certo, ma credo che Rita Ciatti con quella sua frase non intendesse affermare che il dolore sia una cosa buona e giusta solo perché è naturale, ma solo che fa parte della Natura, così come ne fa parte la morte e non ci si può fare molto: il dolore, la sofferenza si possono mitigare, a volte evitare, ma sono elementi che contraddistinguono tutti gli Animali e sono fisiologicamente coerenti con le nostra caratteristiche di viventi senzienti. Provare dolore è ad esempio un elemento importante per noi Animali: ci aiuta a fuggire da un danno fisico, ci avvisa di una ferita, di una malattia, ci permette di prendere provvedimenti per farlo cessare. In questo senso il dolore ha una sua valenza ben precisa ed è “positivo” per la nostra sopravvivenza, c’è poi un altro tipo di dolore che non ci è di alcuna utilità e che ci provoca sofferenze a volte enormi e del tutto inutili.
      Dunque Rita evidentemente con quella frase faceva riferimento a quella parte di dolore, di sofferenza che in quanto Animali possiamo provare ma che non è stata provocata intenzionalmente a causa di soprusi e ingiustizie, che fa invece parte di quel dolore che in qualità di Umani possiamo eliminare, o meglio, non causare.
      Non sono convinto che l’antispecismo sia una posizione “assolutamente innaturale” come affermi: ci sono comportamenti nel mondo animale che variano a seconda del fatto che i soggetti interessati siano della stessa specie o meno, ma in generale è anche vero che nessun Animali manifesta i comportamenti tipici di noi Umani nei confronti degli altri viventi: un Leone sazio, può stare pacificamente sdraiato a poche decine di metri da un branco di Gazzelle senza curarsene affatto, perché le sue esigenze primarie sono state già soddisfatte e non ha alcun motivo per danneggiare altri viventi, ciò di sicuro non accadrebbe se al suo posto ci fosse un Umano. Forse sarebbe meglio limitarsi ad affermare che l’antispecismo è la risposta ad un atteggiamento umano ideologico ma anche patologico che prende il nome di specismo, se poi il primo e il secondo siano assolutamente artificiali, lo siano parzialmente o per nulla, è tutto ancora da capire.

      La Natura non è solo “essenzialmente una storia di sopraffazioni del più forte sul più debole”, questo è ciò che la biologia, la zoologia e l’etologia speciste vogliono farci credere perché si possa giungere a vedere il comportamento degli altri Animali solo attraverso una narrazione utile a giustificare i nostri comportamenti. La Natura è anche condivisione, collaborazione, tolleranza a rispetto tra individui della stessa specie e anche di specie diverse. Ma di questo non se ne parla mai.
      Nella sua enorme complessità la Natura racchiude cose terribili e bellissime allo stesso tempo. Sta a noi comprenderla al meglio.

      Ciò che dici sul dolore è certamente vero ed è una posizione condivisibile.
      Come giustamente affermi esiste la medicina in ambito umano per combattere la sofferenza e allo stesso modo la scienza potrebbe di sicuro giungere in futuro a escogitare soluzioni tali per cui gli Animali da noi sfruttati soffrirebbero meno o non soffrirebbero affatto, ma questo eliminerebbe l’ingiustizia del loro sfruttamento?
      Dunque non possiamo in alcun modo ignorare la sofferenza degli Animali e non possiamo ugualmente ignorare l’ingiustizia che compiamo nei loro confronti, ma sono due elementi diversi da considerare e trattare. L’antispecismo a ha che fare con l’ingiustizia.
      La Gazzella straziata da Leone soffre terribilmente, ma se il Leone non la uccide per cibarsene morirebbe di fame (come possiamo impedire tutto ciò senza ricadere nel paternalismo a cui facevi riferimento?), se noi Umani smettessimo di sfruttare gli altri Animali, di sicuro dovremmo affrontare dei cambiamenti enormi nelle nostre esistenze, ma non saremmo costretti a perire come il Leone che non ha altra scelta che cacciare. Noi abbiamo la possibilità di scegliere. La differenza credo sia sostanziale.

      16 Luglio, 2023
      Rispondi
    • Rita ha scritto:

      Ti ringrazio per questo commento articolato. Come ha scritto Adriano, non intendevo certo affermare che non si debba fare il possibile per mitigare il dolore e la sofferenza; anzi, da una prospettiva antispecista, così come cerchiamo di risparmiarcelo per noi umani, allo stesso modo dovremmo cercare di aiutare gli animali fin dove possiamo. Se trovo un animale ferito o malato, non passo certo oltre. Volevo dire che il vivere in sé comporta anche esperienze spiacevoli e dolorose, anche da un punto di vista psicologico, su cui possiamo fare poco: penso ai lutti, alle malattie. Riguardo la predazione non credo che possiamo fare granché. L’antispecismo non è innaturale, lo è semmai lo specismo in quanto ideologia che discrimina i viventi in base alla specie e che stabilisce delle gerarchie ontologiche. Sì, forse la propensione al dominio – che è cosa diversa dalla predazione perché quest’ultima è necessaria alla sopravvivenza di alcune specie – è in parte biologica o forse talmente incancrenita nella nostra specie da non capire più dove sia il confine, ma se alcuni di noi, seppur minoranza, la rifiutano, vuol dire che non è una condanna deterministica. Penso che l’empatia si possa allenare.

      16 Agosto, 2023
      Rispondi
  2. Tiziana Antico ha scritto:

    Condivido appieno l ‘articolo di Rita Ciatti. L’antispecismo è una strada, connotata da quanto l’umano, percettivo di sé nel mondo, è in grado di mutare. Sé stesso, la propria visione del mondo, atavica, intrisa di violenza, di autoaffermazione e di una legittimazione pretestuosa, densa di retorica e ipocrisia, del proprio potere, esplicitato come dominio e asservimento dell”indifeso, del cannbalizzabile, del parassitabile. L’uomo è predone, indiscusso despota privo di equilibrio, perduto come fu tradita la sua “animalita’ e perduta irrimediabilmente. L’antispecismo è una filosofia, come lo è il veganesimo, è la visione spirituale di una realtà complessa che abbiamo ridotto a mero consumo ed ora consumismo. La sua radicalità è scevra dal compromesso cui si adeguano i ” benpensanti” che tu hai sviscerato e citato. Le scelte dettate dall equivocita’ non cambiano niente. Intossicano, dividono. post pongono L unica questione, irrisolvibile, quella morale diventa irrisolvibile perché affrontarla significa demolire il sistema umano e accettarne il fallimento. Il che prevede una consapevolezza profonda e irrevocabile. Grazie per la bellissima analisi, per qualcuno, scomoda. Grazie anche per il commento precedente. Tiziana Antico

    16 Luglio, 2023
    Rispondi
    • Veganzetta ha scritto:

      Grazie a te Tiziana per il tuo bel commento certamente condivisibile.

      17 Luglio, 2023
      Rispondi
    • Rita ha scritto:

      Grazie Tiziana! Condivido quanto da te scritto.

      16 Agosto, 2023
      Rispondi
  3. Panagiotis Tsiamuras ha scritto:

    Ottima analisi del concetto del dominio! Veramente un bell’articolo, con tanti spunti per ulteriori approfondimenti.
    Continuate cosi’.

    14 Agosto, 2023
    Rispondi
    • Veganzetta ha scritto:

      Grazie Panagiotis per il tuo commento di incoraggiamento e per i complimenti che verranno riferiti all’autrice dell’articolo.

      14 Agosto, 2023
      Rispondi
    • Rita ha scritto:

      Grazie di cuore! Fa piacere un po’ di incoraggiamento.

      16 Agosto, 2023
      Rispondi
  4. Matteo ha scritto:

    Articolo molto esplicativo e interessante. Solo un piccolo dettaglio fuoritema: credo che nutrire i “propri animali domestici” con altri animali sia una contraddizione. Ormai da anni ci sono prodotto alimentari vegani anche per cani e gatti. Costano di più, ma fa parte del sacrificio e della lotta. Io ho deciso di non avere animali domestici poiché non voglio costringere nessuno a vivere con me.

    14 Agosto, 2023
    Rispondi
    • Veganzetta ha scritto:

      Ciao Matteo,

      In generale dal punto di vista antispecista non dovrebbero esistere Animali “domestici” o qualsiasi altro Animale al quale noi affibbiamo una ben precisa caratteristica o funzione, nel caso specifico però si può parlare di Animali che vivono con noi perché sono stati salvati da situazioni di estremo disagio, sofferenza o da un pericolo di morte. Il concetto di Animale che vive con noi Umani è del tutto contingente e legato al fatto che viviamo in una società umana specista.
      E’ vero che esistono cibo 100% vegetali per Cani e Gatti, ma le specie animali sono moltissime e potrebbe essere che abbiamo la necessità di nutrire un Animale in difficoltà prettamente carnivoro come per esempio un Serpente.
      In generale la soluzione della carne artificiale per gli Animali è senza alcun dubbio utile per centri di recupero per Animali, cliniche veterinarie, rifugi, santuari e altri luoghi simili dove c’è un gran numero di Animali carnivori di specie diverse che devono essere curati, accuditi e nutriti.
      Per quanto riguarda il resto, chiaramente hai ragione.

      16 Agosto, 2023
      Rispondi
    • Rita ha scritto:

      Ciao Matteo,
      in teoria concordo con te. In pratica io adesso convivo con sei gatte che in passato ho trovato ferite, malate, abbandonate e, poiché erano cucciole, dopo averle soccorse e curate non me la sono sentita di rimetterle in strada, abitando peraltro, all’epoca, a Roma, in una zona molto trafficata. Il cibo vegan per gatti, diversi veterinari me lo hanno sconsigliato, comunque ho provato a dargli i croccantini vegetali, ma non li mangiavano. Poi, sempre quando stavo a Roma, mi occupavo anche di alcune colonie e a quei gatti era proprio impossibile fargli mangiare cibo vegan, per tutta una serie di motivi, tra cui sì, anche i costi. E non è questione di non voler fare sacrifici, è che proprio sarebbe stato impossibile. In una società antispecista futura gli animali domestici dovrebbero non esistere: non dovrebbero esistere gli allevamenti, di nessun tipo, le selezioni di razze, quindi zero abbandoni. Però penso che noi animali umani e gli animali di altre specie, o almeno alcune, ci incontreremo sempre, solo che saranno incontri e relazioni liberi, non più viziati da rapporti di dominio unilaterali. Cioè, non sarà un mondo dove noi staremo da una parte e gli animali dall’altra, ma dove vivremo rispettando gli spazi dei selvatici e di quegli individui che sono semiselvatici, tipo i piccioni, cioè che abitano gli spazi urbani insieme a noi.

      16 Agosto, 2023
      Rispondi
  5. Matteo ha scritto:

    Lo so di andare fuoritema, ma è per rispondere al tuo commento. Mi viene in mente un filosofo moderno, il Prof. Steve Sapontzis:

    Secondo il principio che abbiamo il dovere di ridurre la sofferenza animale evitabile, se possiamo prevenire la predazione senza causare una sofferenza pari o superiore a quella che vorremmo prevenire, abbiamo il dovere di farlo. Se non possiamo impedire la predazione, o non possiamo farlo senza che essa causi una sofferenza pari o superiore a quella che vorremmo evitare, allora, secondo questo principio, non abbiamo il dovere di cercare di impedire la predazione.
    ”””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””

    La morale generale è che, sebbene non ci siano dubbi sull’importanza di tenere in considerazione l’aspetto pratico, il suo ruolo non è affatto chiaro e c’è ancora bisogno di una riflessione e di un chiarimento più precisi. Questo chiarimento potrebbe includere una distinzione precisa del funzionamento dei diversi elementi delle nostre teorie morali, come la distinzione tra ideali morali irraggiungibili e obiettivi morali raggiungibili.

    16 Agosto, 2023
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