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Il libro dalle piccole dimensioni, ma con contenuti di vastissima portata. Grossman, da maestro della scrittura quale era, evidenzia con grande efficacia l’infinita superiorità animale di fronte alla grettezza umana. Da leggere.
Di seguito un’ottima recensione del testo a cura di Franco Marcoaldi.
http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3739413
Gli animali protagonisti dei racconti di Grossman
Stando al racconto della sua vicina di casa, il poeta Sandro Penna sosteneva che i cani disporrebbero di un posto di riguardo in Paradiso. Lo scrittore russo Vasilij Grossman si spinge oltre, paragonando il comportamento della cagnetta Pestruska a quello del Cristo, «che rispondeva al male con il bene». Pestruska è una piccola randagia, dalle zampe storte e un’intelligenza sopraffina. La sua infanzia è stata talmente felice, che spesso e volentieri la nostra si dimenticava addirittura i morsi della fame. Poi, crescendo, ha cominciato a prendere le misure al mondo. A riconoscere i mille pericoli da cui è insidiata l’esistenza: perché per una mano che offre un tozzo di pane, ce n’è sempre un’altra che tenta di accalappiarti con una rete.
Nulla però può, Pestruska, quando la catturano nel sonno e la trasportano in un misterioso Istituto, dove sottopongono il suo corpo a mille esami, alle prove di sforzo più perverse e terribili. È deciso: sarà lei il primo essere vivente a vedere “il cosmo profondo”. L’avventura a cui è destinata non ha paragone con quella della “cuginetta” Lajka, perché la navicella spaziale, stavolta, lascerà l’orbita circolare.
Aleksej Georgievic, lo scienziato nelle cui mani è finita la povera bestiola, si infiamma. La scienza sta superando se stessa. La tecnica non si è spinta mai così avanti. Ma c’è di mezzo lei, Pestruska. Che inspiegabilmente si affida al suo carnefice. Lo attende ogni sera con fiducia e speranza, lo guarda di continuo con occhi amorevoli e devoti. E come il Cristo, risponde al male con il bene, regala amore a chi le sta procurando sofferenze. La “ragione pratica” di Pestruska, appresa in tanti anni di vita randagia, si sta rivelando impotente. Ma anche il delirio faustiano dello scienziato mostra definitivamente la corda. Le apparecchiature registreranno l’agghiacciante ululato della cagnetta catapultata in solitaria nel cosmo e quando finalmente la capsula tornerà a terra, per molto tempo Aleksej non riuscirà a guardare quegli occhi animali, indifesi, che «avevano accolto in sé l’universo».
Lo struggente racconto di Grossman, che compare nel trittico La cagnetta ( Adelphi, per le ottime cure di Mario Alessandro Curletto) ripropone il tema per eccellenza dello scrittore russo: la battaglia tra bene e male. «Non ci credo, io, nel bene. Io credo nella bontà», dice Ikonnikov, dietro la cui maschera si nasconde lo stesso Grossman, nel suo libro più grande e famoso, Vita e destino. Il bene, “scissione dopo scissione”, ha perso la sua universalità. Si è trasformato nel bene di una setta, una razza, una religione, una classe e una nazione; finendo così per rivelarsi un flagello peggiore del male. No, l’unica cosa che conta è la bontà. O meglio ancora, “la bontà illogica”. Quella cieca, stupida, spicciola, fortuita, istintiva. Ma eterna. «Che si estende a tutto quanto è vivo, a un topo o a un ramo che un passante si ferma a sistemare perché possa attecchire meglio al tronco».
Grossman, che ha vissuto in prima persona gli orrori del doppio totalitarismo nazista e stalinista, a quella bontà si affida. Ce l’ha raccontata tante volte, in modo mirabile. È la bontà della madre e del figlio della Madonna Sistina di Raffaello, che raddoppiano lo sguardo delle madri e dei figli di Treblinka. È la bontà del mulo Giu (incontrato nella stessa raccolta Il bene sia con voi!) che, dopo una vita di angherie e umiliazioni, ha finalmente modo di conoscere «una piccola fenditura, una piccola crepa» nel mare di indifferenza che lo circonda, grazie al calore offertole da una scheletrica cavalla.
A donare queste schegge di bontà senza ritorno sono quasi sempre figure marginali: bambini, vecchi, idioti, uomini poveri, semplici. E animali, molti animali. Come l’alce femmina che campeggia nel secondo racconto del trittico appena pubblicato. Dmitrij, l’uomo che tanti anni addietro l’aveva cacciata in una mattina brumosa, si ritrova di fronte alla sua gigantesca testa imbalsamata, appesa sulla parete e piena di tarme, nell’esatto momento in cui, abbandonato da tutto e da tutti, sta a sua volta lasciando la vita. Così l’essere umano morente incrocia quello stesso sguardo in cui si erano riflessi gli occhi del cucciolo d’alce, mentre la madre moriva.
È innanzitutto negli occhi, nello sguardo – dolce e mansueto – che si manifesta la «bontà senza voce e senza senso» di cui parlava Ikonnikov. La sua forza sta nella sua debolezza: «questo è il segreto della sua immortalità». Solo quel gratuito granello di sabbia che si libra all’improvviso nell’aria è capace di inceppare il feroce e onnipresente meccanismo del male. Scatenando una piccola tempesta benigna davanti alla quale lo stesso male deve, per una volta, abbassare lo sguardo.
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Mi hai fatto piangere. Molto piangere. Quanto male fa osservare impotenti. Alcuni di noi riescono ad essere operativi di fronte all’orrore, altri ne sono devastati e se sopravvivono solo morti viventi. Spero che il dolore sia salvifico. Lo spero con tutta me stessa, egoisticamente.
Vorrei abbracciarli tutti, Petruska, l’alce, Giu… Li amo tutti anche se non sono mai esistiti con questi nomi, ma senza nome sì, ne sono esistiti e ne esistono a miliardi e io li amo disperatamente e inutilmente.