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La recente cronaca nera si è arricchita dell’ennesimo stupro che ha visto vittima una ragazza a Palermo. Le reazioni della società sono sempre immancabilmente le stesse e generano sentimenti contrastanti di rabbia, sconforto, dolore, solidarietà, quest’ultima anche nei confronti degli stupratori, in nome del mantra ossessivo “se l’è cercata”.
Uno degli stupratori, nel confessare il reato, ha pronunciato la frase «la carne è carne» che ha suscitato ancora più sdegno, al punto che Fab! e il magazine F hanno lanciato l’hashtag #iononsonocarne: «Noi di Fab! insieme al magazine F e al direttore @sonolucadini ci ribelliamo a chi riduce la preda a un pezzo di carne da stuprare e il predatore a un altro pezzo di carne schiavo dei suoi istinti. Facciamo sentire la nostra voce».
Tantissime sono state le adesioni, anche di personaggi famosi che trainano l’iniziativa, indubbiamente meritevole, ma è doveroso darne una lettura guardandola da un’altra prospettiva.
Il Vocabolario Treccani definisce così il femminicidio: «Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna e del suo ruolo sociale. […]». Contrariamente a ciò che suggerisce il suffisso “–cidio”, non si tratta di arrivare all’estremo, cioè uccidere una donna, ma di esercitare violenza su di lei allo scopo di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, secondo un perverso modello comportamentale in cui pare legittimo un esercizio di potere dell’uomo sulla donna.
Lo stesso Vocabolario definisce così la femmina: «[lat. femîna, della stessa radice di fecundus, quindi propr. «fruttifera»]. – 1. Dal punto di vista biologico si definisce femmina, e si indica col simbolo l’individuo che produce solo gameti femminili (o macrogameti o uova o ovocellule); negli organismi unicellulari, quello che si trasforma in un macrogamete. […] Nell’uso ant. si distingueva tra f. e donna, indicandosi col primo termine genericam. il sesso, col secondo la donna di alta condizione (corrispondente all’odierno signora); donde l’accostamento o la contrapposizione delle due parole: […]
Il Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Francesco Bonomi sottolinea l’origine animale della parola latina “femina” «[…] L’animale di sesso opposto a quello del maschio destinato a custodire nel suo seno e a partorire il feto o a mandar fuori le uova […]».
Se il termine “femminicidio” si richiama al termine “femmina”, è necessario aprire lo sguardo anche sulle femmine delle altre specie animali che in tutta evidenza lo subiscono continuamente.
Le scrofe sono tra le più disgraziate.
Negli allevanti intensivi, sono chiuse in gabbie singole: non hanno spazio per muoversi e possono solo rimanere distese. La pavimentazione costituita da grate di ferro o plastica, funzionale all’allevatore per ripulire le gabbie più velocemente, per i maialini è una trappola crudele perché frequentemente restano incastrati nelle fessure con le zampe che rischiano di fratturarsi nel tentativo di liberarsi oppure restano schiacciati dal corpo delle madri. Trasferiti dopo poche settimane nel reparto ingrasso, per le madri ricomincia il ciclo riproduttivo. La durata della vita di una scrofa dipende dalle sue prestazioni: viene uccisa se ha problemi di parto, se si ammala, se non partorisce abbastanza maialini.
Nell’industria del latte, le mucche sono macchine produttrici.
I vitelli sono uno strumento seriale finalizzato a produrre latte. Appena partoriti, vengono allontanati dalle madri; la separazione è traumatica e si manifesta con muggiti disperati. Chi non è allontanato è frustrato dall’impossibilità di essere allattato, impedito da un dispositivo, comunemente utilizzato in zootecnia, fissato al naso dei vitelli in modo che qualsiasi tentativo di succhiare il latte venga meccanicamente impedito: è la cavezza antisucchio, una tortura legalizzata che una madre non vorrebbe mai vedere applicata al naso del lattante. Se maschi, quindi incapaci di produrre latte, diventeranno carne, dato che nessun allevatore potrebbe permettersi di mantenere Animali improduttivi. Se femmine, andranno a sostituire le madri, appena queste cominceranno a produrre meno latte, sfinite da un ciclo di gravidanze, mungiture e sofferenze fisiche e psicologiche. Anche le mucche “da latte” diventano carne: dopo 5-6 anni, vengono portate al mattatoio, ridotte ormai in condizioni così estreme per lo sfruttamento da non potersi più reggere in piedi da sole. Sono tristemente note come le “mucche a terra”.
Lo stesso accade negli allevamenti che producono latte di Pecora, Capra e Bufala. La vita delle femmine animali produttrici di latte è questa: ingravidate tutta la vita a ritmo incessante tramite il braccio del veterinario o le sonde da inseminazione; ridotte a rubinetti da cui scende latte tirato da mungitrici meccaniche; private del diritto della maternità; private del diritto all’allattamento perché il loro latte è destinato agli Umani
Le galline (ossia le femmine dei Polli), usate per carne e uova, sono il risultato di un’invasiva manipolazione genetica; quelle allevate per la carne sono selezionate in modo da crescere velocemente ed essere macellate dopo una cinquantina di giorni. Considerato che una gallina potrebbe vivere anche fino a dieci anni, si tratta di Animali giovanissimi. Il loro scheletro non riesce a stare al passo con un corpo che ingrassa così rapidamente pertanto sono vittime di paralisi che le porta anche alla morte. Le gabbie in cui vivono le galline non consentono l’espletamento di funzioni etologiche come ricercare il foraggio, covare le uova nei nidi, beccare sul terreno, distendere le ali e ciò determina frustrazione, stress, sofferenza fisica e psicologica. Negli allevamenti, le gabbie possono essere impilate in altezza, all’interno di enormi capannoni in cui è necessaria la ventilazione forzata, data l’altissima concentrazione di ammoniaca prodotta dalle deiezioni degli Animali. Le galline sono esposte di continuo alla luce artificiale che altera il loro naturale ciclo giorno-notte, evitando la riduzione del bioritmo dell’Animale, al solo scopo di aumentare la produzione. Il pavimento in rete metallica delle gabbie provoca lesioni e deformazioni a piedi e unghie che in natura si consumano durante la ricerca di cibo mentre nelle gabbie crescono a dismisura fino a ritorcersi e spezzarsi. Fragilità delle ossa, con conseguenti fratture e diffuse forme di osteoporosi sono situazioni normali in queste innaturali e insostenibili condizioni di allevamento. A causa della frustrazione e del sovraffollamento, le galline spesso si beccano e aggrediscono vicendevolmente, fino ad arrivare al cannibalismo. Nel tentativo di diminuire le lesioni fisiche causate da questo comportamento, le galline vengono “sbeccate”, rimuovendo loro un terzo del becco: anziché curare la causa, si cura l’effetto praticando una vera e propria mutilazione. Le galline hanno bisogno di distendere le ali, curare il piumaggio, fare bagni di terra, camminare alla ricerca di cibo, vivere in piccoli gruppi, cercare luoghi dove creare i nidi per le uova e per appollaiarsi. Tutto ciò è loro negato.
Le femmine animali aspettano di essere liberate da tanta violenza necessaria per ridurle a semplice carne.
Il paradosso di questa situazione è che neppure le femmine umane sfruttate, picchiate, violentate, schiavizzate, vendute, deturpate, emarginate, umiliate, discriminate, mercificate, uccise, riescono a comprendere le aberranti condizioni delle femmine non umane e continuano a nutrirsi dei loro corpi in nome di un’economia sanguinaria che calpesta anche la solidarietà femminile.
Ribellandosi «a chi riduce la preda a un pezzo di carne da stuprare e il predatore a un altro pezzo di carne schiavo dei suoi istinti», si aziona il meccanismo della gerarchia delle oppressioni, per cui una crudeltà risulta più o meno accettabile di altre. Usare l’oppressione esercitata sugli Animali come termine di paragone per denunciare il trattamento degli esseri umani, equivale a legittimare – accettare – questa oppressione: è come dire che non è permesso trattare gli Umani in un certo modo, ma gli Animali sì.
Chi si batte affinché nessun Umano sia ridotto a carne, dovrebbe rifiutare a priori il concetto stesso di carne in quanto fondato sulla violenza che è legata indissolubilmente alle attività di allevamento e macellazione. Basta pensare ai mezzi mortiferi con cui tali attività vengono praticate: recinti, gabbie, corde, catene, bastoni, museruole, cavezze antisucchio, ganci, mannaie, coltelli, seghe, pistole, scosse elettriche… e via elencando. Nessun essere senziente (Umano e non) dovrebbe essere ridotto a un pezzo carne.
Non si deve restare in silenzio davanti allo stupro di Palermo, né davanti ai sistematici stupri di Animali finalizzati alla produzione di carne.
Lo scandalo sta nel non dire l’intera verità perché le falsità più pericolose sono le verità distorte moderatamente.
Paola Re
Fonti:
Stupro Palermo: #iononsonocarne, centinaia di adesioni alla campagna social, Corriere.it
Illustrazione in apertura: #nemmenoiosonocarne. Autore: Antonio Capone per A4Animals
Il titolo dell’articolo: #nemmenoiosonocarne è tratto da un’iniziativa del gruppo A4Animals
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Chiaro netto “crudo”. Grazie di questo articolo che tocca una piaga aperta, nascosta, putrida e dolorosa con razionalità e sensibilità. Condivido ogni singola parola.
Una piaga aperta e nemmeno tanto nascosta, un altro esempio è la polemica innescata in TV e poi proseguita sui social network in cui si parla delle donne vittime di violenza che cadono vittime dei “lupi”: https://www.repubblica.it/politica/2023/08/30/news/chiara_ferragni_giambruno_violenza_donne-412743493/?ref=RHLM-BG-I387773630-P3-S3-T1
Ancora una volta non si riesce nemmeno a considerare il problema per quello che è e si ricorre agli Animali come comodo paravento per descrivere comportamenti deviati, violenti e derivanti da una cultura del disprezzo che appartengono solamente alla nostra specie.
Non esistono Lupi che violentano qualcuno per puro divertimento, esistono Umani che lo fanno e che per questo nulla hanno a che spartire con loro.
Questa è un’altra chicca da giornalismo di livello infimo al pari dell’analfabetismo funzionale. Davanti a questi gravi ritardi culturali bisogna fare una sola cosa: studiare. Non si pretende che queste persone manifestino empatia, ma almeno che studino i comportamenti di certi animali, prima di nominarli. Meno social. Più studio.
Grazie Costanza. Sui giornali “normali”, ci fosse stato un articolo in polemica con questa espressione linguistica… Non ci arrivano? Ci arrivano, ma chiudono occhi e orecchie?
L’unico articolo che ho letto degno di riflessione è quello di Federica Timeto su il manifesto che però è a pagamento. Per chi fosse abbonato, eccolo: “Carne, quando lo stupro parla la lingua dello specismo” https://ilmanifesto.it/carne-quando-lo-stupro-parla-la-lingua-dello-specismo
Cara Paola,
Grazie per l’interessante segnalazione.