Febo Cane metafisico


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Malaparte, Febo e un bambino. Isola di Lipari, 1933.

Una struggente storia di amicizia, di amore e di rispetto tra Curzio Malaparte e il Cane Febo (amico, fratello, giudice e custode della dignità di Malaparte); una delle più terribili denunce contro la vivisezione che siano mai state pubblicate da uno scrittore. Tratto da Curzio Malaparte, La pelle, Adelphi, 2015.


Febo cane metafisico

Avevo riconosciuto quel silenzio. Nell’inverno del 1940, per fuggire la guerra e gli uomini, per guarirmi di quello schifoso male che la guerra fa nascere nel cuore degli uomini, m’ero rifugiato a Pisa, in una casa morta, in fondo a una delle strade più belle e più morte di quella bellissima e morta città. Avevo con me Febo, il mio cane Febo che avevo raccolto morente di fame sulla spiaggia di Marina Corta, nell’isola di Lipari, che avevo curato, allevato, cresciuto, nella mia morta casa di Lipari, e m’era stato unico compagno durante i miei deserti anni d’esilio in quella triste isola , così cara al mio cuore.
Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un fratello, a un amico, quanto a Febo. Era un cane come me. Per lui ho scritto le pagine affettuose di Un cane come me. Era un essere nobile, la più nobile creatura che io abbia mai incontrato nella vita. Era di quella famiglia di levrieri, rari ormai e delicati, venuti in antico dalle rive dell’Asia con le prime migrazioni joniche, che i pastori di Lipari chiamano cerneghi. Sono i cani che gli scultori greci scolpivano nei bassorilievi tombali. “Cacciano la morte”, dicono i pastori di Lipari.

Aveva il manto del color della luna, roseo e dorato, del color della luna sul mare, del color della luna sulle scure foglie dei limoni e degli aranci, sulle scaglie di quei pesci morti che il mare, dopo le tempeste, lasciava sulla riva davanti alla porta della mia casa. Aveva il colore della luna sul mare greco di Lipari, della luna nel verso dell’Odissea, della luna su quel selvaggio mare di Lipari che Ulisse navigò per giungere alla solitaria riva di Eolo, il re dei venti. Del colore della luna morta, poco prima dell’alba. Lo chiamavo Caneluna.

Non si allontanava mai di un sol passo da me. Mi seguiva come un cane. Dico che mi seguiva come un cane. La sua presenza, nella mia povera casa di Lipari, flagellata senza riposo dal vento e dal mare, era una presenza meravigliosa. La notte, egli illuminava la mia nuda stanza col chiaro tepore dei suoi occhi lunari. Aveva gli occhi di un azzurro pallido, del colore del mare quando la luna tramonta. Sentivo la sua presenza come quella di un’ombra, della mia ombra. Egli era come il riflesso del mio spirito. M’aiutava, con la sua sola presenza, a ritrovare quel disprezzo degli uomini, che è la prima condizione della serenità e della saggezza nella vita umana. Sentivo che mi assomigliava, che altro non era se non l’immagine della mia coscienza, della mia vita segreta. Il ritratto di me stesso, di tutto ciò che v’è di più profondo, di più intimo, di più proprio in me: il mio subcosciente e, per così dire, il mio spettro. Da lui, assai più che dagli uomini, dalla loro cultura, dalla loro vanità, ho appreso che la morale è gratuita, che è fine a se stessa, che non si propose neppure di salvare il mondo (neppure di salvare il mondo!), ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al suo disinteresse, al suo libero gioco. L’incontro di un uomo e di un cane è sempre l’incontro di due liberi spiriti, di due forme di dignità, di due morali gratuite. Il più gratuito, e il più romantico, degli incontri. Di quelli che la morte illumina del suo pallido splendore, simile al color di una luna morta sul mare, nel cielo verde dell’alba.

Riconoscevo in lui i miei moti più misteriosi, i miei istinti segreti, i miei dubbi, i miei spaventi, le mie speranze. Mia era la sua dignità di fronte agli uomini, miei il suo coraggio e il suo orgoglio di fronte alla vita, mio il suo disprezzo per i facili sentimenti dell’uomo. Ma più di me egli era sensibile agli oscuri presagi della natura, alla invisibile presenza della morte, che sempre si aggira tacita e sospettosa intorno agli uomini. Egli sentiva venir di lontano per l’aria notturna le tristi larve dei sogni, simili a quegli insetti morti che il vento porta non si sa di dove… E in certe notti, accucciato ai miei piedi nella mia nuda stanza di Lipari, egli seguiva intorno a me, con gli occhi, una parvenza invisibile, che si avvicinava, si allontanava, restava lunghe ore a spiarmi da dietro il vetro della finestra. Ogni tanto, se la misteriosa presenza mi si avvicinava fino a sfiorarmi la fronte, Febo ringhiava minaccioso, il pelo irto sul dorso: e io udivo un grido lamentoso allontanarsi nella notte, morire a poco a poco.

Era il più caro dei miei fratelli, il mio vero fratello, colui che non tradisce, che non umilia. Il fratello che ama, che aiuta, che capisce, che perdona. Soltanto chi ha sofferto lunghi anni d’esilio in un’isola selvaggia, e tornando fra gli uomini si vede schivar e fuggir come un lebbroso da tutti coloro che un giorno, morto il tiranno, faran gli eroi della libertà, soltanto costui sa cosa può essere un cane per un essere umano. Febo mi fissava spesso con un rimprovero nobile e triste nel suo sguardo affettuoso. Provavo allora una strana vergogna, quasi un rimorso, della mia tristezza, una specie di pudore davanti a lui. Sentivo che, in quei momenti, Febo mi disprezzava: con dolore, con un tenero affetto, ma certamente v’era, nel suo sguardo un’ombra di pietà e, insieme, disprezzo. Era non solo il mio fratello, ma il mio giudice. Era il custode della mia dignità, e al tempo stesso, dirò con antica voce greca, il mio doruforema.

Era un cane triste, dagli occhi gravi. Tutte le sere passavamo lunghe ore sull’alta soglia ventosa della mia casa, guardando il mare. Oh il greco mare di Sicilia, là, di fronte a Cariddi, e la vetta nevosa dell’Aspromonte, e la spalla candida dell’Etna, Olimpo di Sicilia. Veramente non v’è al mondo, come canta Teocrito, nulla di più bello che il contemplare dall’alto di una riva il mare di Sicilia. Si accendevano sui monti i fuochi dei pastori, uscivano le barche verso l’alto incontro alla luna, e il grido lamentoso delle conche marine, con le quali i pescatori si chiamano sul mare, si allontanava nell’argentea caligine lunare. La luna sorgeva sulla rupe di Scilla, e lo Stromboli, l’alto, inaccessibile vulcano in mezzo al mare, divampava come un rogo solitario dentro la profonda foresta turchina della notte. Noi guardavamo il mare, aspirando l’odore amaro del sale, e l’odore forte e inebriante degli aranceti, e l’odore del latte di capra, dei rami di ginepro accesi nei focolari, e quell’odore caldo e profondo di donna che è l’odore della notte siciliana, quando le prime stelle si levano pallide in fondo all’orizzonte.

Poi, un giorno, fui condotto con i ferri ai polsi, da Lipari a un’altra isola, e di lì, dopo lunghi mesi, in Toscana. Febo mi seguì da lontano, nascondendosi fra le botti di alici e i rotoli di cordame sul ponte del Santa Marina, il piccolo piroscafo che ogni tanto va da Lipari a Napoli, e tra le ceste di pesci e di pomodori sulla barca a motore che fa servizio fra Napoli, Ischia e Ponza. Così quel coraggio che è proprio dei vigliacchi, ed è l’unico merito che abbiano i servi per avere anch’essi diritto alla libertà, la gente si fermava a guardarmi con occhi pieni di rimprovero e di disprezzo insultandomi fra i denti. Soltanto i “lazzaroni”, distesi al sole sul banchine del porto a Napoli, mi sorridevano di nascosto sputando in terra tra le scarpe dei carabinieri. Io mi voltavo indietro ogni tanto a guardar se Febo mi seguiva e lo vedevo camminare con la coda fra le gambe lungo i muri, per le strade di Napoli, dall’Immacolatella al Molo Beverello, con una meravigliosa tristezza negli occhi chiari.

A Napoli, mentre camminavo ammanettato fra i carabinieri in via Partenope, due signore mi si avvicinarono sorridendo : erano la moglie di Benedetto Croce, e Minnie Casella, la moglie del mio caro Gaspare Casella. Mi salutarono con la gentilezza materna delle donne italiane, mi infilarono dei fiori tra le manette e i polsi, e la signora Croce pregò i carabinieri che mi conducessero a bere, a rifocillarmi. Erano due giorni che non mangiavo. – Fatelo almeno camminare all’ombra – disse la signora Croce. Era il mese di giugno, e il sole batteva in testa come un martello. “Grazie, non ho bisogno di nulla” dissi “vi pregherei soltanto di dar da bere al mio cane”.

Febo si era fermato a pochi passi da noi, e guardava in viso la signora Croce con un’intensità quasi dolorosa era quella la prima volta che vedeva il viso della bontà umana, della pietà e della cortesia femminili. Fissò a lungo l’acqua, prima di bere. Quando, alcuni mesi dopo, venni trasferito a Lucca, fui chiuso in quella prigione, dove rimasi a lungo. E quando uscii in mezzo alle guardie per essere condotto al mio nuovo luogo di deportazione, Febo mi aspettava davanti alla porta del carcere, magro e infangato. I suoi occhi splendevano chiari, pieni di un’orribile dolcezza.
Altri due anni durò il mio esilio, e per due anni vivemmo nella piccola casa in fondo al bosco, dove in una stanza abitavamo Febo ed io, e nell’altra i carabinieri di guardia. Finalmente riebbi la mia libertà, quel che in quei tempi era la libertà, e per me fu come uscir da una stanza senza finestre per entrare in una stanza senza mura. Andammo a star di casa a Roma: e Febo era triste, pareva che lo spettacolo della mia libertà lo umiliasse. Egli sapeva che la libertà non è un fatto umano, che gli uomini non possono, e forse non sanno, esser liberi, che la libertà in Italia, in Europa, puzza quanto la schiavitù.

Per tutto il tempo che passammo a Pisa, rimanevamo quasi tutto il giorno chiusi in casa, e solo verso mezzogiorno uscivamo a spasso lungo il fiume, lungo il bel fiume pisano, l’Arno dal colore d’argento, sui bei Lungarni chiari e freddi: poi andavamo nella Piazza dei Miracoli, dove sorge la torre pendente che fa Pisa famosa nel mondo. Salivamo sulla torre, e da lassù miravamo la pianura pisana fino a Livorno, fino a Massa, e le pinete, e il mare laggiù, la palpebra lucente del mare, e le Alpi Apuane bianche di neve e di marmi. Quello era il mio paese, quello era il mio paese toscano, quelle erano le mie selve e quello il mio mare, quelli erano i miei monti, quelle le mie terre, quelli i miei fiumi.

Verso sera andavamo a sederci sul parapetto dell’Arno (quello stesso parapetto di pietra sul quale Lord Byron, durante i suoi giorni di esilio a Pisa, galoppava ogni mattina in sella al suo bell’alesano, fra le grida di spavento dei quieti cittadini), e guardavamo il fiume scorrere trascinando nella chiara corrente foglie bruciate dall’inverno e le nuvole d’argento dell’antico cielo di Pisa.

Febo passava lunghe ore accucciato ai miei piedi, e ogni tanto si alzava, si avvicinava alla porta, si voltava a guardarmi. Io andavo ad aprirgli la porta: e Febo usciva, tornava dopo un’ora, dopo due ore, ansante, il pelo levigato dal vento, gli occhi schiariti dal freddo sole di inverno. La notte, egli levava il capo ad ascoltare la voce del fiume, la voce della pioggia sul fiume. Ed io, talvolta svegliandomi, sentivo in me il suo sguardo tiepido e lieve, quella sua presenza viva e affettuosa nella stanza buia, e quella sua tristezza, quel suo deserto presentimento della morte.

Un giorno Febo uscì, e non tornò più. Lo aspettai fino a sera, e scesa la notte corsi per le strade, chiamandolo per nome. Tornai a casa a notte alta, mi buttai sul letto, col viso verso la porta socchiusa. Ogni tanto mi affacciavo alla finestra, e lo chiamavo a lungo, gridando. All’alba corsi nuovamente per le strade deserte, fra le mute facciate delle case che, sotto il cielo livido, parevano di carta sporca. Non appena si fece giorno, corsi alla prigione municipale dei cani. Entrai in una stanza grigia, dove, chiusi in fetide gabbie, gemevano cani dalla gola ancora segnata dalla stretta del laccio del chiappino. II guardiano mi disse che forse il mio cane era rimasto sotto una macchina o era stato rubato, o buttato a fiume da qualche banda di giovinastri. Mi consigliò di fare il giro dei canai, chi sa che Febo non si trovasse nella bottega di qualche canaio?

Tutta la mattina corsi di canaio in canaio, e finalmente un tosacani, in una botteguccia di Piazza dei Cavalieri, mi domandò se ero stato alla Clinica Veterinaria dell’Università, alla quale i ladri di cani vendono per pochi soldi gli animali destinati alle esperienze cliniche. Corsi all’Università, ma era già passato mezzogiorno, la Clinica Veterinaria era chiusa. Tornai a casa, mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro.
Nel pomeriggio tornai all’Università, entrai nella Clinica Veterinaria. Il cuore mi batteva, non potevo quasi camminare, tanto ero debole e oppresso dall’ansia. Chiesi del medico di guardia, gli dissi il mio nome. II medico, un giovane biondo, miope, dal sorriso stanco, mi accolse cortesemente e mi fissò a lungo prima di rispondermi che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarmi.

Apri una porta, entrammo in una grande stanza nitida, lucida, dal pavimento di linoleum azzurro. Lungo le pareti erano allineate l’una a fianco dell’altra, come i letti di una clinica per bambini, strane culle in forma di violoncello: in ognuna di quelle culle era disteso sul dorso un cane dal ventre aperto, o dal cranio spaccato, o dal petto spalancato.

Sottili fili di acciaio, avvolti intorno a quella stessa sorta di viti di legno che negli strumenti musicali servono a tender le corde, tenevano aperte le labbra di quelle orrende ferite: si vedeva il cuore nudo pulsare, i polmoni dalle venature dei bronchi simili a rami d’albero, gonfiarsi proprio come fa la chioma di un albero nel respiro del vento, il rosso, lucido fegato contrarsi adagio adagio, lievi fremiti correre sulla polpa bianca e rosea del cervello come in uno specchio appannato, il groviglio degli intestini districarsi pigro come un nodo di serpi all’uscir dal letargo. E non un gemito usciva dalle bocche socchiuse dei cani crocifissi.
Al nostro entrare tutti i cani avevano rivolto gli occhi verso di noi, fissandoci con uno sguardo implorante, e al tempo stesso pieno di un atroce sospetto: seguivano con gli occhi ogni nostro gesto, ci spiavano le labbra tremando. Immobile in mezzo alla stanza, mi sentivo un sangue gelido salir su per le membra: a poco a poco diventavo di pietra. Non potevo schiuder le labbra, non potevo muovere un passo. Il medico mi appoggiò la mano sul braccio, mi disse: “coraggio”. Quella parola mi sciolse il gelo delle ossa, lentamente mi mossi, mi curvai sulla prima culla. E di mano in mano che progredivo di culla in culla, il sangue mi tornava al viso, il cuore mi si apriva alla speranza. A un tratto, vidi Febo.

Era disteso sul dorso, il ventre aperto, una sonda immersa nel fegato. Mi guardava fisso, e gli occhi aveva pieno di lacrime. Aveva nello sguardo una meravigliosa dolcezza. Non mandava un gemito, respirava lievemente, con la bocca socchiusa, scosso da un tremito orribile. Mi guardava fisso, e un dolore atroce mi scavava il petto. “Febo” dissi a voce bassa. E Febo mi guardava con una meravigliosa dolcezza negli occhi.
Io vidi Cristo in lui, vidi Cristo in lui crocifisso, vidi Cristo che mi guardava con gli occhi pieni di una dolcezza meravigliosa. “Febo” dissi a voce bassa, curvandomi su di lui, accarezzandogli la fronte. Febo mi baciò la mano, e non emise un gemito.

Il medico mi si avvicinò, mi toccò il braccio: “Non potrei interrompere l’esperienza”, disse, “è proibito. Ma per voi… Gli farò una puntura. Non soffrirà”.
Io presi la mano del medico fra le mie mani, e dissi, mentre le lacrime mi rigavano il viso: “Giuratemi che non soffrirà”.
“Si addormenterà per sempre”, disse il medico, “vorrei che la mia morte fosse dolce come la sua”.
Io dissi: “Chiuderò gli occhi. Non voglio vederlo soffrire. Ma fate presto, fate presto!”.
“Un attimo solo” disse il medico, e si allontanò senza rumore, scivolando sul molle tappeto di linoleum.
Andò in fondo alla stanza, apri un armadio.
Io rimasi in piedi davanti a Febo, tremavo orribilmente, le lacrime mi solcavano il viso. Febo mi guardava fisso, e non il più lieve gemito usciva dalla sua bocca, mi guardava fisso con una meravigliosa dolcezza negli occhi. Anche gli altri cani, distesi sul dorso nelle loro culle, mi guardavano fisso, tutti avevano negli occhi una dolcezza meravigliosa, e non il più lieve gemito usciva delle loro bocche.
A un tratto un grido di spavento mi ruppe il petto: “Perché questo silenzio?”, gridai, “che è questo silenzio?”.

Era un silenzio orribile. Un silenzio immenso, gelido, morto, un silenzio di neve.
Il medico mi si avvicinò con una siringa in mano: “Prima di operarli”, disse, “gli tagliamo le corde vocali”.

Curzio Malaparte


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2 Commenti
  1. Dóra Zambó ha scritto:

    Questa storia è straziante e mi fa rivivere i giorni terribili in cui piangevamo la scomparsa del nostro Toni, Cane Puli Ungherese svanito nel nulla con il sospetto di rapimento. All´epoca non pensai agli esperimenti e tanto meno alle nefandezze che l´Umano possa compiere pur di guadagnare quattro spiccioli e quando ho acquisito conoscenza su cosa significa la vivisezione, per Toni era già troppo tardi. Il suo smarrimento è rimasto avvolto nel mistero e a me piace immaginarlo felice in un mondo migliore divertendosi con altri Animali e giocando con il pallone.

    7 Settembre, 2015
    Rispondi
  2. Veganzetta ha scritto:

    “C’è nei cani un modo di fare, un tenersi, uno scrollar del capo, un seguire con gli occhi ogni tuo moto, ogni tuo accento, che fa pensare non già soltanto ad una loro vita interiore, alla loro intelligenza, alla loro memoria, ma ad una loro intima comprensione dei pensieri e dei sentimenti dell’uomo. O che la vita comune con l’uomo, quel vivere insieme, quel seguire le stesse abitudini, la comunanza di vita, insomma, gli diano, in un certo senso, un che di umano, lo liberino dalla schiavitù in cui lo mantiene il suo stato animale, o che l’uomo gli si avvicini, gli vada incontro, fatto sia che il cane acquista, dal contatto con l’uomo, quasi un grado superiore dell’intelligenza. L’uomo pensa, il cane sente.”

    Queste le parole che lo scrittore Curzio Malaparte (1898-1957) scrisse nel suo racconto “Febo, cane metafisico – 1934”

    Febo era considerato dallo scrittore come una persona di famiglia. Non si chiamava semplicemente Febo, ma “Febo Malaparte”. Gli amici di Malaparte sapevano bene quanto amasse i Cani, li amava più delle persone umane e più delle donne con cui aveva avuto una relazione. Cercava perfino a comunicare con loro abbaiando.
    Quando lo scrittore viaggiava, spediva cartoline a Febo rimasto a casa aventi come destinatario “Febo Malaparte – Capri”.
    Lo scrittore ebbe altri Cani oltre Febo nella sua vita. Innanzitutto Febo I, un Barbone; poi due meticci: Pelledo e Leone; nel dopoguerra tre Bassotti: Pucci, Cecco e Zita. Malaparte cercava e chiamava i Cani anche quando girava per il mondo, abbaiando dalle finestre degli alberghi, nel caso ci fosse qualche Cane “in zona” e potesse sentirlo e rispondergli.

    «Se io non fossi un uomo, e non quell’uomo che io sono, vorrei essere un cane per assomigliare a Febo. Non ho mai voluto tanto bene a una donna, a un fratello, a un amico, quanto a Febo. Era un cane come me. Era un essere nobile, la più nobile creatura che io abbia mai incontrato nella vita. Non v’è momento nella mia vita di cui serbi un ricordo altrettanto vivo e puro quanto del mio primo incontro con Febo».

    (da “Febo, cane come me”)

    14 Dicembre, 2015
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