Si legge in circa: 7 minuti
Qualche anno fa mi colpì un articolo pubblicato su una rivista di moda e costume in cui si intervistava una nota modella di una nota marca di intimo che asseriva di amare gli Animali, ma anche le pellicce e di non ritenersi affatto incoerente adducendo una serie di giustificazioni, ovviamente fallaci e speciste, da cui il titolo “Sono animalista, posso indossare le pellicce?”.
Sappiamo che il termine “animalista” si presta infatti alle più svariate interpretazioni e che può significare tanto un atteggiamento protezionista verso alcune specie (Cani, Gatti in primis), quanto una visione più ampia che non di rado si avvicina molto all’antispecismo, ma il tutto a discrezione di chi lo pronuncia, per cui è molto comune trovare persone umane che si dichiarano animaliste e che allo stesso tempo continuano a essere speciste e complici del sistema che sfrutta e uccide gli esseri senzienti di altre specie.
L’animalismo spesso coincide anche con il protezionismo incentrato sul benessere animale, ma sempre all’interno della visione specista che legittima e normalizza l’uso degli Animali, tipica di alcune associazioni.
Lo scopo di questo scritto è denunciare la superficialità con cui spesso anche i termini “veganismo” e “antispecismo” vengono utilizzati, venendo svuotati del loro significato e rivendicati in modo approssimativo se non completamente errato da chi evidentemente non ha le idee chiare, conosce poco la storia del veganismo, le sue origini e il suo significato e manifesta un attaccamento allo specismo ancora molto radicato e interiorizzato.
Chiariamo subito un punto: non esiste il manuale del vegano perfetto o del “vegano duro e puro” (come viene sarcasticamente appellato chi argomenta per evidenziare contraddizioni mastodontiche), perché in una società umana specista è difficile vivere con la sicurezza di non arrecare mai danno agli altri Animali e, senza fare discorsi di etica al ribasso, sappiamo che ci sono delle situazioni in cui semplicemente la coerenza è nella pratica impossibile, per esempio se dobbiamo assumere farmaci o se dobbiamo prendere un aereo (per allontanare gli Uccelli che potrebbero danneggiare i motori del veicolo – finendovi dentro e morendo – si usano Falchi addestrati, per non parlare dell’inquinamento del carburante e di tutto ciò che ne consegue); esiste però l’aderenza a un sistema di valori e di idee antispeciste che una persona umana vegana dovrebbe aver fatto propri.
Se si riconosce che tutti gli Animali, a prescindere dalla specie a cui appartengono, meritano rispetto e hanno il diritto a non essere sfruttati, usati, uccisi per i nostri scopi e interessi, quali essi siano (profitto, divertimento, tradizione, gusto, ecc.) e che bisogna respingere l’ideologia dominante secondo cui il valore dei viventi è stabilito dall’uso e importanza che siamo disposti a dare loro in base sempre ai nostri interessi, allora non serve alcun manuale, ma solo buon senso, coerenza e serietà.
Ci sono domande oziose che quindi vengono poste senza soluzione di continuità, perché semplicemente si è ancora specisti e si continua a considerare gli Animali come poco più di risorse rinnovabili sempre sacrificabili rispetto ai nostri interessi, anche quelli voluttuari; oppure perché si fa erroneamente coincidere il veganismo e addirittura l’antispecismo (il cui significato dovrebbe essere chiaro già dal termine) con altri concetti, ad esempio l’ambientalismo o la riduzione del consumismo.
Di recente mi sono trovata coinvolta in una discussione generata da un post su un social network in cui una persona umana, che fino a quel momento si era dichiarata vegana, raccontava di aver comprato una pelliccia (vera) usata, motivando la sua scelta con una serie di asserzioni in cui gli Animali in quanto individui – Animali allevati per essere uccisi – sono diventati all’interno del discorso dei referenti assenti, ossia sono scomparsi per lasciare spazio ad argomentazioni di altro genere, tra cui il fatto positivo di acquistare un indumento usato anziché uno nuovo, magari realizzato con materiali sintetici, ma inquinanti, evitando così di incentivare il consumismo, che è l’arma vincente del capitalismo (tutti discorsi peraltro oziosi, in quanto in commercio si trovano ottimi indumenti sintetici o in materiali vegetali – anche usati – realizzati prestando attenzione all’ambiente).
Se è vero che in generale è certamente preferibile, laddove possibile, acquistare indumenti usati ancora in buone condizioni o comunque ridurre gli acquisti e i consumi, è altrettanto vero che una persona vegana dovrebbe aver acquisito la semplice cognizione che gli Animali non sono prodotti, non sono risorse e che le loro pelli, il loro vello, le loro carni, i loro organi, il loro latte e le loro uova non sono indumenti, cibo, cappotti, scarpe, accessori, bevande.
Una persona umana vegana non compra indumenti di origine animale perché non vuole finanziare le industrie che traggono profitto dallo sfruttamento animale, ma anche perché sa che quell’indumento è stato il corpo di un individuo senziente che ha subito violenza e che non è mai stato rispettato in quanto tale; un individuo che è stato allevato e ucciso per diventare un cappotto o una borsetta. Indossare quel cappotto e quella borsetta, anche se di seconda mano, significa continuare a ribadire la riduzione di quegli individui senzienti a oggetti.
Comprare una pelliccia usata significa aver effettuato per due volte una transazione economica per la pelle (e sulla pelle) di un individuo, cioè averlo considerato per due volte un oggetto e aver quindi valutato la sua vita solo in termini di utilità per la soddisfazione di un nostro interesse.
C’è poi un altro punto importante: indossare una pelliccia – che venga acquistata nel mercatino dell’usato, ereditata dalla nonna o appartenente a un periodo precedente della propria vita in cui ancora non si era delle persone umane vegane – significa mandare un messaggio molto eloquente anche alla collettività e cioè che gli Animali in fondo si possono sacrificare, indossare, che i nostri interessi contano più della loro vita; che sono oggetti, prodotti, accessori. La consuetudine porta alla normalizzazione sociale, in questo caso specifico si compie un gesto, reiterato, in cui si fa tutto l’opposto di quello che una persona umana vegana dovrebbe fare, ossia un gesto che conferma, giustifica e rafforza lo specismo.
Ciò che in questa discussione mi ha sorpresa ulteriormente è che anche altre persone umane che si definiscono vegane hanno giustificato l’acquisto di una pelliccia usata scagliandosi contro le critiche dei cosiddetti “vegani duri e puri”. È triste quando avviene un fatto del genere perché ci si sposta dai soggetti del discorso, gli Animali, per focalizzarsi sulle persone umane vegane. È chiaro che queste ultime cercano di fare del proprio meglio in una società specista, come affermato all’inizio, ma è anche chiaro che andare ad acquistare una pelliccia usata è quanto di più lontano possa esistere dal fare del proprio meglio. La pratica vegana non è una pratica approssimativa in cui ognuno sposta l’asticella in base alla propria convenienza, altrimenti adducendo le stesse motivazioni si potrebbe giustificare il consumo delle uova regalate dal vicino di casa o della carne che sta scadendo al supermercato e che sarebbe uno spreco buttare.
La pratica vegana è una pratica che si mette in atto oggi, ma anche guardando al futuro. Le persone umane vegane sono dei testimoni importanti: mostrano che si può vivere senza sfruttare, mangiare e consumare Animali e che è possibile avere, in quanto specie, un ruolo diverso sul pianeta, in solidarietà con le altre specie e non in un rapporto di dominio. Rispettare gli Animali significa vederli come individui e, in quanto persone umane vegane, dare l’esempio con la nostra quotidianità e coerenza. Il veganismo non è una dieta o uno stile di vita da cui ogni tanto ci si può prendere una pausa per motivi personali e non è nemmeno un’indicazione approssimativa per ridurre l’impatto ecologico dei nostri acquisti. Il veganismo è una filosofia di vita che ci cambia nel profondo, perché cambia la nostra cognizione sugli Animali svelando l’impianto ideologico dello specismo che fino a quel momento ci era parso normale, anzi, che fino a poco prima non avevamo nemmeno mai notato. Per comprendere il veganismo bisogna fare lo sforzo, concettuale ed empatico, di diventare noi quel Visone allevato per diventare uno scampolo di pelliccia (ce ne vogliono tanti per confezionare un intero cappotto), di diventare noi quel Maiale che sta andando al macello o quella Mucca che dopo aver partorito ed aver assistito impotente all’allontanamento del proprio Vitello, diventa una macchina da latte, manipolata, spremuta, sfruttata fino, letteralmente, allo sfinimento.
Nella cultura umana tutto è comunicazione, non soltanto il linguaggio verbale.
Ci sono gesti che sono molto più eloquenti di qualsiasi dichiarazione a parola e ci sono comportamenti, scelte, pratiche che schiudono prospettive inedite dello stare al mondo perché mostrano una cognizione diversa del nostro ruolo sul pianeta. Il veganismo è molto di più del semplice mangiare vegetale e del rifiutarsi di considerare gli Animali in quanto oggetti; è una rivoluzione cognitiva che coinvolge anche noi persone umane in quanto appartenenti a una specie finora dominante; il veganismo ridefinisce i significati culturali dei termini umanità e animalità con il fine di decostruire e abbattere le differenze ontologiche e ideologiche che consentono la gerarchia di valore del vivente per legittimare lo sfruttamento e oppressione di intere categorie di persone umane e di specie. Significa riposizionarsi nel mondo, riconsiderare la posizione eretta solo in quanto caratteristica tra le tante (non più importante di altre), e così il linguaggio verbale o determinate nostre peculiarità: caratteristiche che non possono più essere considerate parametri per giudicare tutte le altre al fine di poter giustificare l’oppressione di chi non ci assomiglia, ma solo differenze biologiche ed etologiche che in nessun modo devono diventare qualità morali e quindi essere strumentalizzate per decidere chi merita o meno considerazione morale.
Indossare una pelliccia (ma anche maglie di lana, accessori in pelle, in seta) significa: tu, Visone, Volpe, Zibellino, Coniglio o altro Animale che sei, conti talmente poco che rivendico il mio diritto di acquistarti e usarti semplicemente perché posso farlo. Per lo stesso motivo rivendico anche il mio diritto di manipolare il significato di animalismo, antispecismo e veganismo a seconda della mia convenienza.
Diciamolo una volta per tutte: l’antispecismo, il veganismo e la pratica quotidiana che ne consegue sono testimonianza di una società possibile, è il punto di vista degli altri Animali, sono l’idea, bellissima e prodigiosa, che anche gli altri animali sono soggetti della loro vita, hanno un valore intrinseco che va riconosciuto e rispettato.
Rifiutare di acquistare una pelliccia, anche se usata, è molto di più di un gesto: è la testimonianza di un atto costitutivo dello stare al mondo in cui la specie umana non conta più delle altre e perché non c’è alcuna ragione biologica o scientifica per cui dovrebbe farlo, ma solo ideologica, cioè specista.
Rita Ciatti
Se hai letto fin qui vuol dire che questo testo potrebbe esserti piaciuto.
Dunque per favore divulgalo citando la fonte.
Se vuoi Aiuta Veganzetta a continuare con il suo lavoro. Grazie.
Avviso legale: questo testo non può essere utilizzato in alcun modo per istruire l’Intelligenza Artificiale.
Gent.ma Rita Ciatti
prima di tutto grazie per l’articolo molto interessante. Io personalmente sono vegana e attivista per un’associazione antispecista che si batte per i diritti degli animali e contro lo sfruttamento e da tanti anni non compro più oggetti/vestiti/saponi/ecc che abbiano alle spalle utilizzo animale. L’anno scorso, era tanto che non vivevo nel nord d’Italia, ho avuto freddo come non mi succedeva da tempo. Non ero assolutamente attrezzata, avevo solo giacchette da mezze stagione. Dato che stavo con mia nonna, ho chiesto a lei di darmi qualcosa e lei mi ha dato una sua vecchia pelliccia a due strati, uno esterno con il pelo visibile, e uno con il pelo rivolto verso il corpo e fuori coperto da velluto. Quando ho visto la pelliccia ho avuto diversi sentimenti: ingiustizia, disgusto, tristezza; allo stesso tempo all’idea che venisse buttata ho provato altrettanta ingiustizia e la sensazione che questi animali fossero stati sacrificati veramente per nulla, che la loro sofferenza non si trasformasse in nient’altro. Quindi ho fatto questa scelta: ho ridato la parte esterna a mia nonna, e ho iniziato ad indossare quella interna con sopra, affinchè la nascondesse, la mia giacca mezza stagione. Mi è sembrato un buon compromesso per non buttarla, ma allo stesso tempo senza promuovere l’utilizzo della pelliccia. Infatti non se n’è mai accorto nessuno. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate.
Cordiali Saluti
Cristina
Ciao Cristina,
ti ringrazio per il commento.
Prima di entrare nello specifico della tua situazione particolare, vorrei rispondere in generale a due punti.
Uno, il discorso del freddo: oggi ci sono ottimi materiali sintetici in grado di tenere caldo anche alle temperature più basse, comprese quelle che si trovano in alta quota. Capisco che determinati indumenti tecnici possono avere un costo elevato che magari non si può affrontare, però ci sono anche negozi in cui si trovano giacche tecniche a poco prezzo.
Due, il discorso dello spreco e dell’ingiustizia: anche il numero di animali macellati è superiore a quello della carne effettivamente venduta, però, da persone vegane, non adottiamo lo stesso ragionamento. Non credo che per non sprecare la carne di un individuo che è stato ucciso e ha sofferto decidiamo di mangiarla perché “così almeno non è morto invano”.
Quindi la mia premessa è che il freddo e lo spreco non sono due argomenti che possono giustificare l’uso di una pelliccia.
Il tuo caso personale lo comprendo e comprendo il tuo ragionamento, ma si tratta di un caso particolare ed eccezionale che non fa testo e che, a mio avviso, non ha senso elaborare.
Personalmente avrei messo magari una maglia in più sotto alla giacca da mezza stagione o avrei cercato una giacca sintetica a costi per me accessibili. Insomma, io non l’avrei indossata perché avere addosso il pelo di un individuo torturato e ucciso non mi avrebbe fatta star bene e questo a prescindere dal fatto che all’esterno si vedesse o meno.
Prova a farti questa domanda: se fosse stata pelle di una persona umana l’avresti indossata? Io non penso.
Lo specismo consiste proprio in questo: nell’adottare un doppio standard morale in base alla specie.
Il tuo impegno per gli animali in quanto attivista è ammirevole, ma dobbiamo tutte e tutti, me compresa, tenere presente che l’antispecismo è un processo cognitivo e pratico continuo che non si esaurisce nel mangiare vegetale e a volte nemmeno nel fare attivismo. Tutti cerchiamo di fare del nostro meglio, magari tra qualche anno non riuscirai più a indossare una pelliccia.
L’importante è avere sempre presente che stiamo parlando di individui e non di materiali o oggetti.
Grazie per la tua risposta. Penso tu abbia ragione e credo sia importante ragionare sul mondo complesso dello specismo e antispecismo, e dei suoi facili inganni cognitivi. Anch’io mi sono interrogata se l’avrei usata se fosse stata fatta di pelle umana e ammetto che probabilmente no… peró ho anche riflettuto che non l’avrei fatto perchè essendo che io interagisco prevalentemente con animali umani la mia immaginazione avrebbe creato moltissime immagini di sofferenza che non sarei riuscita a mettere da parte per usarla. Invece nel caso di questa pelliccia, io ho provato sofferenza e anche disgusto come ti dicevo, ma sono riuscita ad accantonarle perchè non vedendo mai i visoni la mia mente, per come è fatta (ovvero ho una pessima memoria evocativa, nel senso che per esempio non potrei descrivere il viso di mia madre senza avercelo davanti) non mi tormentava con immagini di sofferenza e tortura. Mi chiedo se, facendo un’ipotesi assurda, io passassi tutto il mio tempo in compagnia con visoni e mai con umani, le due cose si invertirebbero.
Hai toccato un punto fondamentale, la dimenticanza, o meglio rimozione, che la nostra società effettua nei confronti della sofferenza che infliggiamo agli animali e anche proprio riguardo il loro status ontologico di essere individui senzienti. Questa rimozione è in parte sociale (dispositivi sia materiali, che linguistici e narrativi in senso ampio che fanno sì che gli animali siano dei referenti assenti tanto nei discorsi, pubblicità ecc., quanto nella produzione materiale perché trasformati in altro), e in parte individuale perché ricordarci della sofferenza animale è fonte di sofferenza anche per noi. Poi ovviamente una volta che un individuo è stato lavorato e reso irriconoscibile, è più difficile ricordarci chi era, a meno che, come giustamente noti tu, non si abbia familiarità con la sua specie, che poi è il motivo per cui ci farebbe orrore mangiare cani o gatti.
Siamo circondati da prodotti animali e questo significa anche abituati, per cui talvolta dobbiamo fare lo sforzo mentale di ricordarci che erano individui.
Se tu passassi del tempo con i visoni ti diventerebbe molto difficile indossarli, anche se ciò dipenderebbe pure dal tipo di relazione che avresti con loro. Gli allevatori o i vivisettori, ma anche i circensi e in generale chiunque allevi e sfrutti gli animali, passano molto tempo con loro, eppure non si fanno problemi a continuare a usarli o ucciderli e questo perché probabilmente ricorrono a tutta una serie di giustificazioni morali che poi è l’impianto dell’ideologia specista. È come se li vedessero attraverso un filtro cognitivo che ha azzerato o ridotto l’empatia. L’empatia è una forma di intelligenza che ci appartiene, ma che va anche allenata. L’abitudine a uccidere o a considerare gli animali come prodotti, di sicuro porta alla desensibilizzazione. In generale nella nostra cultura il valore della vita degli animali è ritenuto inferiore al nostro e poi ci sono molti pregiudizi e credenze che alleggeriscono il peso morale delle nostre azioni.
Difendersi dal meccanismo di difesa ‘rimozione’ e riappropriarci di una sensibilità etica, spesso puó essere doloroso come cercare di rivitalizzare un arto a lungo immobilizzato. Ora che ci rifletto e che mi sto addentrando nella mia scelta di indossare la peliccia, penso che ció da cui mi stavo proteggendo e che stavo cercando di tenere lontani nella mia testa era la mia idea di nonna e il sangue e le torture sui visoni. Perchè lei quella pelliccia l’ha comprata. Quindi riappropriandomi della mia sensibilità etica su questa pelliccia nello specifico, sono costretta ad allargare la sofferenza e a vedere l’insensibilità di mia nonna. Non facile.
Sì, è probabile che tu abbia sperimentato una sorta di dissonanza cognitiva estesa, cioè applicata a tua nonna; in sostanza, ti risultava difficile far collimare i valori che hai sempre attribuito a tua nonna e relativi sentimenti di affetto con la sua scelta di aver acquistato una pelliccia. Però tieni presente che tua nonna appartiene a una generazione in cui c’era poca informazione e ancora meno sensibilità riguardo gli animali. Anche mia madre aveva un paio di pellicce, eppure era una persona gentile. La normalizzazione dello specismo fa sì che venga giustificato e minimizzato lo sfruttamento degli animali. E purtroppo dobbiamo fare i conti con il fatto che persone a cui vogliamo bene continuano a essere speciste e finanziano industrie mortifere. Cerchiamo, nel nostro piccolo, di fargli comprendere che si possono fare scelte diverse.
Buongiorno, volevo tornare sulla questione del commercio di indumenti usati, non sull’acquisto ma viceversa su una loro eventuale cessione.
Posto che concordo in pieno e da sempre con quanto è stato già scritto, mi chiedo cosa sia invece meglio fare con gli indumenti che ci si trova a non usare più dopo la presa di coscienza raggiunta.
Da un lato si potrebbero semplicemente distruggere per non dare seguito al risultato di uno sfruttamento. In questo caso ci si potrebbe interrogare sullo spreco.
Forse si potrebbero invece vendere a chi comunque ne comprerebbe in alternativa uno nuovo, ottenendo così di continuare lo sfruttamento commerciale dell’Animale ma sperando di limitare un po’ la domanda di un capo nuovo. L’acquirente però vedrebbe solo un risparmio e non la questione dello sfruttamento.
Un’ulteriore alternativa potrebbe essere donarlo a qualche associazione, verrebbe meno l’aspetto commerciale ma comunque si continuerebbe a tramandare il concetto che è giusto utilizzare gli Animali per i propri scopi.
Un’ultima alternativa che mi viene in mente è quella di accantonare i capi che già si posseggono e non usarli più, però così il problema si sposterebbe nel futuro.
Io ormai da tanti anni non ho più indumenti di origine animale, ho subito smesso di usarli anche quando ero solo vegetariano e li ho regalati nel tempo a parenti e amici specificando il motivo, ma mi chiedevo quale sarebbe un consiglio da dare a chi dovesse averne ancora.
Penso che oggi li butterei e basta, ma volevo conoscere anche altre opinioni. Grazie.
Ciao Paolo, ti ringrazio per il commento e per la questione che poni. Se sono maglie, giacche, cappotti o coperte di lana magari si potrebbe continuare a usarli in casa fino a usura, evitando di andarci in giro. Io quando sono diventata vegana convivevo già con con dei gatti e un cane, quindi le vecchie maglie di lana le ho messe nelle loro cucce, mentre scarpe e accessori in pelle alla fine ho preferito buttarli. Non penso sia giusto rivenderli perché altrimenti andremmo a validare il loro uso in quanto materiali, oggetti. Anche regalarli ne valida l’uso, è un po’ lo stesso discorso del cibo, cioè sembrerebbe che noi ne facciamo a meno, ma che non c’è problema se altre persone non vegane fanno uso di prodotti animali. In fondo basta entrare nell’ottica che non sono materiali, ma resti di animali uccisi.
L’idea di riutilizzare oggetti prodotti mediante lo sfruttamento animale per aiutare altri Animali potrebbe in molti casi essere una soluzione. Come già evidenziato indumenti o coperte di lana potrebbero servire per scaldare Cani o Gatti, meglio ancora se in difficoltà o se si trovano in un rifugio. Certamente si può utilizzare la fantasia facendo sempre attenzione a non scegliere utilizzi che in qualche modo veicolino l’idea che sia giusto o tollerabile sfruttare gli Animali.
Sì, bella idea, grazie. È un po’ come restituire simbolicamente loro qualcosa che gli è stato tolto con la forza.
Possiamo anche considerare la questione in questi termini, anche se per quanto riguarda lo sfruttamento degli Animali non esiste una vera e propria giustizia riparativa: chi ha perso la vita per diventare un capo di abbigliamento in pelle o altro di similare, ha smesso di esistere e nulla potrà più realmente riparare al danno che ha subito. Detto ciò è senza dubbio molto meglio riutilizzare questi oggetti per aiutare gli Animali in difficoltà piuttosto che venderli.