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Storie di Umani e Animali. “La cerbiatta” di Grazia Deledda, premio Nobel nel 1927, ci porta dritti al cuore del rapporto che spesso costruiamo con gli altri Animali per salvarci dalla disperazione. In questo racconto un vecchio proprietario terriero cerca, nell’amicizia con una cerbiatta, una via di fuga al dolore. Un dolore che sembra placarsi soltanto davanti allo sguardo dell’Animale che gli ricorda quello dell’amata figlia scomparsa. Crediamo che “La cerbiata” sia, oltre che un bel racconto, anche un ottimo spunto di riflessione su come a volte ci poniamo nei confronti degli altri esseri viventi. Spesso, nel momento in cui ci avviciniamo a loro guardandoli per quello che sono e non per quello che siamo abituati a credere che siano, essi sono in grado non solo di cambiare il nostro modo di pensare ma anche, a volte, di salvarci la vita.
Francesco Cortonesi
La cerbiatta
– Una volta – raccontava Malafazza, il servo di Baldassarre Mulas, al mercante di bestiame recatosi nell’ovile Mulas per acquistare certi giovenchi – il mio padrone era, si può dire, un signore.
Abitava quella casa alta col balcone di ferro che è a fianco della chiesa di San Baldassarre, e sua moglie e sua figlia avevano la gonna di panno e lo scialle ricamato come le dame. La ragazza doveva appunto sposare un nobile, un riccone così timorato di Dio che non parlava per non peccare.
Ma il giorno prima delle nozze la moglie del padrone, una bella donna ancora giovane, fu vista a baciarsi dietro la chiesa con un ragazzetto di vent’anni, un militare in permesso. Ohi, che scandalo!
Non s’era mai sentito l’eguale. La figlia fu piantata e morì di crepacuore. Allora il mio padrone cominciò a passare settimane e mesi e stagioni intere nell’ovile, senza mai tornare in paese. Non parla quasi mai, ma è buono, persino stupido, a dir la verità! I cani, il gatto, le bestie sono i suoi amici! Persino coi cervi se la intende! Adesso s’è fatta amica appunto una cerbiatta, alla quale son stati forse rubati i figli appena nati, e che per la disperazione, nel cercarli, arrivò fin qui. Il mio padrone è così tranquillo che la bestia s’avvicinò a lui; quando vede me, invece, scappa come il vento: ha ragione, del resto; se posso la prendo viva e la vendo a qualche cacciatore. Ma ecco il mio padrone…
Baldassarre Mulas si avanzava attraverso la radura verde, col cappuccio in testa e una gran barba bianca, piccolo come un nano dei boschi. Al suo richiamo le belle vacche grasse e i giovenchi rossi ancora selvatici s’avvicinavano mansueti, lasciandosi palpare i fianchi e aprire la bocca, e il cane terribile scodinzolava come se nel mercante riconoscesse un amico.
Il contratto però non si poté concludere. Sebbene Malafazza il servo, un ragazzaccio sporco e nero come un beduino, avesse dipinto il suo padrone come uno stupido, questi dimostrò di saper fare i propri affari non smuovendosi dai prezzi alti dapprima domandati; e il mercante dovette andarsene a mani vuote.
Il servo, che tornava come ogni sera in paese, lo accompagnò per un tratto e da lontano il padrone li vide a gesticolare ed a ridere: forse si beffavano di lui; ma a lui oramai non importava più nulla dei giudizî del prossimo. Rimasto solo ritornò verso la capanna, depose una ciotola di latte fra l’erba della radura, e seduto su una pietra si mise a ritagliare una pelle di martora.
Tutt’intorno per la vasta radura verde della nuova erba di autunno era una pace biblica: il sole cadeva roseo sopra la linea violetta dell’altipiano del Goceano, la luna saliva rosea dai boschi violetti della terra di Nuoro. L’armento pascolava tranquillo, e il pelo delle giovenche luceva al tramonto come tinto di rosso; il silenzio era tale che se qualche voce lontana vibrava pareva uscisse di sotterra. Un uomo dall’aspetto nobile, vestito di fustagno, ma con la berretta sarda, passò davanti alla capanna guidando due buoi rossicci che trainavano l’antico aratro dal vomero argenteo rivolto in su. Era un nobile povero che non sdegnava di arare e seminare la terra. Senza fermarsi salutò il vecchio Baldassarre.
– Ebbé, l’hai veduta oggi la tua innamorata?
– Ancora è presto: se non ha fame non s’avvicina, quella diavoletta.
– Che fai con quella pelle?
– Un legaccio per le scarpe. Ho scoperto che la pelle di martora è più resistente di quella del cane.
– Prende più pioggia, guarda un po’! Be’, statti con Dio.
– E tu va con Maria.
Sparito l’uomo col suo aratro lucente come una croce d’argento, tutto fu di nuovo silenzio; ma a misura che il sole calava, il vecchio guardava un po’ inquieto verso la linea di macchie in fondo alla radura, e infine smise la sua faccenda e rimase immobile. Le vacche si ritiravano nelle mandrie, volgendosi prima come a guardare il sole sospeso sulla linea dell’orizzonte: vapori rossi e azzurri salivano, e tutte le cose, leggermente velate, avevano come un palpito di tristezza: i fili d’erba che si movevan pur senza vento davan l’idea di palpebre che si sbattono su occhi pronti a piangere.
Il vecchio guardava sempre le macchie di aliterno in fondo alla radura. Era verso quell’ora che la cerbiatta s’avvicinava alla capanna. Il primo giorno egli l’aveva veduta balzar fuori dalle macchie spaventata, come inseguita dal cacciatore: s’era fermata un attimo a guardarsi intorno coi grandi occhi dolci e castanei come quelli di una fanciulla, poi era sparita di nuovo, rapida e silenziosa, attraversando come di volo la radura. Era bionda, con le zampe che parevan di legno levigato, le corna grigie, delicate come ramicelli di asfodelo secco.
Il secondo giorno la sosta fu appena più lunga. La cerbiatta vide il vecchio, lo guardò e fuggì. Quello sguardo, che aveva qualcosa di umano, supplichevole, tenero e diffidente nello stesso tempo, egli non lo dimenticò mai. Di notte sognava la cerbiatta che fuggiva attraverso la radura: egli la inseguiva, riusciva a prenderla per le zampe posteriori e la teneva palpitante e timida, fra le sue braccia. Neppure l’agnellino malato, neppure il vitellino condannato al macello, mai la martora ferita o la lepre di nido gli avevan dato quella tenerezza struggente. Il palpito della bestiuola si comunicava al suo cuore; egli tornava con lei alla capanna solitaria e gli pareva di non esser più solo al mondo, sbeffeggiato e irriso persino dal suo servo.
Ma nella realtà purtroppo non avveniva così: la cerbiatta si avvicinava un po’ più ogni giorno, ma se appena vedeva il servo o qualche altro estraneo, o se il vecchio accennava a muoversi, si slanciava lontana come un uccello dal basso volo, lasciando appena un solco argenteo fra i giunchi al di là della radura. Quando invece il vecchio era solo immobile sul suo sgabello di pietra, ella si attardava, diffidente pur sempre, brucando l’erba ma sollevando ogni tanto la bella testina delicata; ad ogni rumore trasaliva, si volgeva rapida di qua e di là, saltava in mezzo alle macchie: poi tornava, s’avanzava, guardava il vecchio.
Quegli occhi struggevano di tenerezza il pastore. Egli le sorrideva silenzioso, come il dio Pan doveva sorridere alle cerbiatte delle foreste mitologiche: e come affascinata anch’essa da quel sorriso la bestiuola continuava ad avanzarsi lieve e graziosa sulle esili zampe, abbassando di tanto in tanto il muso come per odorare il terreno infido.
Il latte e i pezzi di pane che il vecchio deponeva a una certa distanza la attiravano. Un giorno prese un pezzetto di ricotta e fuggì; un altro si avanzò fino alla ciotola, ma appena ebbe sfiorato il latte con la lingua trasalì, balzò sulle quattro zampe come se il terreno le scottasse e fuggì. Subito dopo tornò. Allora furono corse e ritorni più frequenti, meno timidi, quasi civettuoli. Balzava in alto, s’aggirava intorno a se stessa come cercando di acchiapparsi la coda coi denti; si grattava l’orecchio con la zampa, guardava il vecchio ed egli aveva l’impressione che anch’essa fosse meno triste e spaurita e che gli sorridesse.
Un giorno egli mise la ciotola a pochi passi di distanza dalla sua pietra, quasi sull’apertura della capanna, scacciando lontano il gatto che pretendeva di profittar lui del latte. Poco dopo la cerbiatta s’avanzò tranquilla, sorbì il latte, guardò dentro con curiosità: egli spiava immobile, ma quando la vide così vicina, lucida, palpitante, fu vinto dal desiderio di toccarla e allungò la mano.
Ella balzò sulle sue quattro zampette, col muso stillante latte e fuggì: ma tornò, ed egli non tentò oltre di prenderla.
Ma oramai la conosceva ed era certo che ella avrebbe finito col rimanersene spontaneamente con lui: nessuna bestia è più dolce e socievole della cerbiatta. Da bambino egli ne aveva avuta una che lo seguiva per ogni dove e alla notte dormiva accanto a lui.
Per attirar meglio la sua nuova amica e tenerla tutto il giorno con sé senza usarle violenza pensò di andar in cerca di qualche nido di cerbiatti, prenderne uno e legarlo entro la capanna: così l’altra, vedendo un compagno, si sarebbe addomesticata meglio. Ma, per quanto girasse, la cosa non riusciva facile: bisognava andar verso le montagne, alle falde di Gonare, per trovare i cerbiatti; ed egli non era abituato alla caccia. Solo trovò una cornacchia ferita ad un’ala che agitava penosamente l’altra tentando invano di spiccare il volo. La prese e la curò, tenendosela sul petto; ma quando la cerbiatta lo vide con l’uccellaccio fuggì senza avvicinarsi. Era gelosa. Allora il vecchio nascose la cornacchia dietro le mandrie: la trovò il servo e la portò in paese a certi ragazzi suoi amici, e poiché il padrone si lamentava gli disse:
– Se non state zitto, getto il laccio anche alla cerbiatta e la vendo a qualche cacciatore di poca fortuna.
– Se tu la tocchi ti rompo le costole, com’è vera la vera croce!
– Voi? A che siete buono, voi? – disse ridendo il ragazzaccio. – A mangiare pane e miele!
Ma quel giorno, dopo la partenza del mercante e del servo, il vecchio attese invano la cerbiatta. Cadevano l’ombre e neppure lo stormire del vento interruppe il silenzio della sera vaporosa. Il vecchio diventò triste. Neppure un istante dubitò che il servo avesse preso al laccio la bestia per portarsela in paese.
– Vedi, se ti lasciavi prendere? Vedi, se tu restavi con me? – brontolava, seduto davanti al fuoco nella sua capanna, mentre il gatto impassibile al dolore del suo padrone leccava il latte della ciotola. – Adesso ti avranno legata, ti avranno squartata. Questo era anche il tuo destino…
E tutti i suoi ricordi più amari tornavano a lui; tornavano, orribili e deformi, come cadaveri rimandati dal mare.
Il giorno dopo e nei seguenti cominciò a litigare col servo, costringendolo a licenziarsi.
– Va, che tu possa romperti le gambe come le avrai rotte alla povera cerbiatta.
Malafazza sghignazzava.
– Sì, gliele ho rotte! L’ho presa al laccio, le troncai i garretti e la portai così a un cacciatore.
Ho preso tre franchi e nove reali: li vedete?
– Se non te ne vai ti sparo.
– Voi? Come avete sparato contro l’amico di vostra moglie! Come avete sparato contro il traditore di vostra figlia!
Il vecchio, col viso più nero del suo cappuccio, gli occhi verdi e rossi di collera e di sangue, staccò l’archibugio e sparò. Attraverso il fumo violetto dell’archibugiata vide il servo dare un balzo come la cerbiatta e fuggire urlando.
Allora si rimise a sedere davanti alla capanna, con l’arma sulle ginocchia, pronto a difendersi se quello tornava, senza pentirsi della sua azione. Ma le ore passavano e nessuno appariva. Cadeva una sera tetra e calma: la nebbia fasciava di un nastro grigio l’orizzonte e le vacche e le giovenche si attardavano col muso fra l’erba, immobili come addormentate.
Un fruscio fra le macchie fece trasalire il vecchio: ma invece del suo nemico egli vide balzar fuori la cerbiatta che si avvicinò fino a sfiorar col muso il calcio dell’archibugio. Egli credeva di sognare. Non si mosse, e la bestia, non vedendo il latte, sporse la testa dentro la capanna. Scontenta fece una giravolta e tornò rapida laggiù. Per un momento tutto fu di nuovo silenzio.
Il gatto che dormiva accanto al fuoco si svegliò, si alzò, s’aggirò intorno a se stesso e ricadde come un cercine di velluto nero.
Di nuovo un fremito scompigliò la linea delle macchie; di nuovo la cerbiatta sbucò, saltò nella radura: subito dietro di lei sbucò e saltò un cervo (il vecchio riconobbe il maschio dal pelo più scuro e dalle corna ramose) inseguendola fino a raggiungerla. Si saltarono allegramente l’uno addosso all’altra, caddero insieme, si rialzarono, ripresero la corsa, l’inseguimento, l’assalto. Tutto il paesaggio antico, pallido nella sera d’autunno, parve rallegrarsi del loro amore.
Poco dopo passò il contadino nobile, col suo aratro coperto di terra nerastra. Questa volta si fermò.
– Baldassà, che hai fatto? – disse con voce grave ma anche un tantino ironica. – La giustizia ti cerca per arrestarti.
– Son qui! – rispose il vecchio, di nuovo sereno.
– Ma perché hai ferito il tuo servo? – insisteva l’altro, e voleva a tutti i costi sapere la causa del dissidio.
– Lasciami in pace – disse infine il vecchio. – Ebbé, lo vuoi sapere? È stato per quella bestiuola, che ha gli occhi come quelli della mia povera figlia Sarra.
Grazia Deledda, Chiaroscuro, Treves, Milano, 1912
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