Hambach: un racconto e un documentario


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9 minuti


Leonora Pigliucci racconta per Veganzetta la sua esperienza personale vissuta nella foresta occupata di Hambach in Germania, durante le fasi di ripresa del documentario che lei e Claudio Marziali hanno girato, e che è stato presentato il 19 aprile a Roma: Hambachers.
Di seguito il racconto, una galleria fotografica, il trailer e la sinossi del documentario ed alcuni link utili. Buona lettura.


Il racconto

Con Claudio ci conosciamo ad uno di quegli incontri per videomaker in cerca di idee e sinergie, di quelli che finiscono in genere in tante chiacchiere, ci si scambia la mail, il contatto social e finisce là. Stavolta invece capita che frequentiamo gli stessi posti ed è così ci rincontriamo e al secondo giro, fuori contesto, complice l’alcool sempre d’ispirazione in questi casi, pensiamo per davvero a qualche idea bella e pazza da provare a realizzare. Tra una IPA ed un gin tonic ragioniamo di servizi cotti e mangiati da vendere a testate web, sfruttando le sue abilità tecniche e la mia esperienza giornalistica quando alcuni amici attivisti fanno il nome Hambach. La foresta occupata, la comunità anarchica, antispecista ed antisessista di cui avevamo tutti una visione romantica, in contrasto con l’immobilismo dell’attivismo italiano che dopo Green Hill, specialmente sull’azione diretta, giace inspiegabilmente con le ali tarpate.

Un’occhiata ai voli e il giorno dopo nell’email un biglietto prenotato per Colonia. Partiamo virtualmente dalla pagina social della protesta, chiediamo indicazioni su come arrivare. La foresta non sembra facile da raggiungere, c’è un treno per Buir, qualche km da HambiCamp, il campo base. Pare non siano molti gli occupanti che parlano inglese, non hanno smartphone ma vecchi telefoni che non si connettono ad internet e prendono poco. In qualche maniera capisco che arrivando lì troveremo un passaggio, e decidiamo che ci basta. Come sarà il clima nel nord ovest della Germania ad ottobre? Andranno bene le nostre tende? Compriamo sacchi a pelo invernali, prepariamo l’attrezzatura e partiamo, affidandoci alla buona stella che dovrebbe assistere gli audaci.

Atterrati a Colonia troviamo senza difficoltà il treno che porta a Biur, al binario una suora olandese ci avvicina e ci lascia due santini. Dai finestrini scorre una città non bella, architettura mitteleuropea che cede il passo ad una sterminata periferia industriale. In lontananza ciuffi di conifere tra gli scheletri di vetro e ferro e il cielo plumbeo. Dopo 40 minuti Buir.
Di fronte ai binari si staglia un immenso palazzo rettangolare, un maltificio. Siamo in un’area dominata dall’industria pesante e qualche produzione agricola. Le pareti della stazione sono ricoperte di graffiti antispecisti e libertari: parlano di giustizia climatica e criticano l’economia estrattivista, il modello di sviluppo basato sul carbone. Non facciamo a tempo ad interrogarci sul nostro destino che ci raccoglie un compagno che con un furgoncino e la musica popolare tedesca alla radio fa la spola con HambiCamp. Chiediamo dove possiamo comprare provviste, intorno non vediamo negozi aperti, ci dicono di non preoccuparci ma non capiamo bene, per cui non ci sentiamo particolarmente rassicurati. Sul furgone iniziamo a sentirci a nostro agio, nonostante il nostro ed il loro inglese stentato ci si capisce e si respira subito un senso di comunanza. HambiCamp è sul limitare della foresta, passando vediamo dai finestrini i paesini abbandonati ed in parte già demoliti: sono quelli comprati dalla multinazionale energetica RWE, che sta trasformando la foresta millenaria in miniera. Ci spiegano che la compagnia si affretta a rendere inagibili gli edifici e a dissodare i terreni, per impedire che vengano occupati o che nascano nuovi accampamenti.
Quando arriviamo scopriamo un clima che somiglia a quelli degli incontri di liberazione animale o ai campeggi No Tav, ma è tutto molto più strutturato ed organizzato, come ci si aspetterebbe in Germania. C’è un grande tendone bianco per l’accoglienza, dove si dà il turno chi vive là in pianta stabile per dare il benvenuto e spiegare ai nuovi arrivati come funziona il campo e fornire un kit specifico ai giornalisti. Ci sono anche le prese elettriche per caricare i telefoni, le torce e le attrezzature fotografiche. Altre tende fanno da cucina, mensa, sala riunioni, infermeria, “free market” dove si possono prendere gratuitamente vestiti o coperte. C’è anche qualche tenda a pianta tonda, simile a quelle da circo, dove vive qualche famiglia, bambini e cani. Più oltre una distesa di tende e roulotte, che si alternano a striscioni, due o tre bracieri circondati da panchine intorno a cui ci si raduna la sera, per scaldarsi e suonare. Il tutto è molto spartano ed efficiente, e l’aria profuma di cibo caldo del nord. Tutto vegan. Tutto autorganizzato. Non ci sono gerarchie o ruoli e tutti fanno tutto senza obblighi di sorta. Subito dopo aver montato le tende e bevuto un té d’erbe preso da una delle grandi taniche sparse per il campo e sempre rabboccate, chiediamo una prima intervista ma ci propongono in alternativa di lavare i piatti insieme e fare due chiacchiere. Si parla di disobbedienza civile, intersezione delle lotte e subito ci colpisce la fermezza serena con cui tutte e tutti ripetono che i villaggi nel bosco che la polizia sta abbattendo verranno presto ricostruiti, si troverà un modo.

E’ vietato fare riprese nel campo purtroppo, altrimenti ne avremmo portate a casa di bellissime, quasi nessuno vuol essere fotografato a viso scoperto, temono tutti la repressione e le ritorsioni della RWE ma soprattutto disdegnano apertamente ogni forma di protagonismo.
Ci spiegano come si costruiscono le case sugli alberi, con le corde e legno, e metodi che non danneggiano la vegetazione. La resistenza contro l’avanzare del Moloc, l’enorme macchinario che sta divorando la foresta trasformandola in un deserto, è iniziata 5 anni fa e da allora la comunità nata intorno alla protesta si è strutturata. Qui si ritrovano attivisti ed attiviste da ogni parte della Germania e da altri paesi nord europei, soprattutto dalla vicina Olanda e dal Belgio. Molti ragazzi indossano gonne ed hanno lo smalto sulle unghie, per esplicitare la loro non aderenza agli stereotipi di genere. Ci sono vecchi ambientalisti reduci dalle lotte contro il nucleare in Germania, di quelli che bloccavano i treni carichi di scorie, altre persone stanche della vita cittadina e del “produci consuma crepa” e dai ritmi frenetici della società capitalista, qualcuno fugge anche dagli attacchi di panico e dalla claustrofobia che quella vita suscitava in loro. Meglio stare all’ombra degli alberi di Hambach, coi cinghialetti che si avvicinano all’alba. Qui si incrociano lotte vecchie e nuove e l’intersezione è una pratica quotidiana e non solo una teoria accademica. La consapevolezza antispecista è data per scontata.

Dopo la prima notte, facciamo colazione nella tenda-mensa, ci sono secchi di muesli di avena, latte di soia, burro di arachidi ed altre cose che non riusciamo esattamente a definire, tutto buonissimo e tutto frutto delle donazioni di chi sostiene la protesta da fuori ma anche aziende di prodotti vegani o biologici. La comunità ha un sostegno diffuso che le permette di sopravvivere senza soldi. La musica techno si alterna ai ritmi popolari e scandisce i momenti della giornata. Ci uniamo ad un gruppo che si incammina verso i villaggi sugli alberi: oggi bisogna essere lì a fare interposizione fisica e costruire barricate, sappiamo che la polizia arriverà insieme alla sicurezza privata della RWE ed alle ruspe per abbattere un accampamento storico. Nel campo si terranno invece dei corsi di resistenza passiva non violenta, scalata degli alberi, laboratori sui nodi per assicurare le imbracature per salire sulle case.

Noi ci avviamo tra i campi e dopo poco siamo nella foresta. Non c’è molto sottobosco, ma quasi tutti alberi ad alto fusto. La camminata si fa a passo serratissimo, in silenzio. Il bosco è interrotto di tanto in tanto da “strade” aperte dalle ruspe per far passare i macchinari, ferite profonde nel manto verde. Le case sono in alto, vicino alle cime. Sono opere ingegneristiche stupefacenti, qualche volta a più piani, costruite con i tronchi degli alberi abbattuti e collegate tra loro da ponti di corda, gli occupanti risalgono i tronchi con sapienza e con grande velocità, ai piedi degli alberi spesso ci sono altre cucine da campo e l’immancabile té caldo. Riusciamo a registrare qualche intervista, ma i più rifiutano. Il clima è ospitale ma contemporaneamente diffidente, c’è tensione anche perché la polizia è in arrivo. Anzi eccola, è ai lati del bosco: chi vuole fronteggiarla incrocia le braccia dei compagni per formare un cordone compatto. Molte persone umane hanno la colla sui polpastrelli per non poter essere identificati in caso di fermo e i numeri degli avvocati scritti sulle braccia.

Ci raccomandano di filmare il più possibile, per scongiurare una repressione violenta.
I poliziotti sono tanti, donne e uomini, in pesante tenuta antisommossa. Con loro anche un bulldozer. Iniziano i canti, c’è chi suona la chitarra o il flauto, i volti sono tutti coperti o pitturati. Una folla variegata per età si para con determinazione innanzi al bulldozer, noi corriamo da una parte all’altra per fare le riprese, indisturbati dalla polizia che dà un’idea di rassegnazione. La resistenza per ora ha la meglio il bulldozer, che è costretto a retrocedere. Qualche operaio abbatte con le seghe elettriche le strutture costruite a terra, alcuni poliziotti riescono a salire per distruggere alcune delle case grazie ad un automezzo con una piattaforma montata su un braccio meccanico, di quelli che si usano per i traslochi. Qualcuno viene identificato. Un ragazzo resiste da solo, scivolando sulle corde da un albero all’altro e schivando la gru della polizia, incoraggiato dai canti dei compagni che lo seguono da giù. Senza farlo apposta, abbiamo scelto i giorni in cui la polizia è intervenuta con maggior forza per sgomberare i villaggi e scene simili si ripeteranno nei giorni successivi in varie aree della foresta. HambiCamp è l’oasi a cui torniamo la sera ed in cui si vengono a riposare gli attivisti e le attiviste che hanno visto le loro case sugli alberi distrutte e che sono scampati all’arresto. Da qui passa il coordinamento della resistenza e si pianifica la ricostruzione, dove tirar su le nuove barricate. Scopriamo che sull’altro lato del bosco c’è un altro villaggio, meno di passaggio, costruito con materiali di recupero e pareti costruite con terra e bottiglie. Ci raccontano dello stress degli Animali che vivono da queste parti, ridotti in una striscia che è appena il 10% di quel che era la foresta. La multinazionale ha infatti risposto alle proteste per la distruzione dell’habitat di tanti Animali, incluse alcune specie protette che si trovavano solo in questa millenaria foresta, proponendo inverosimili piani di spostamento della fauna. In realtà la compagnia ha anche agito concretamente per cacciare gli abitanti della foresta, mettendo reti e strati di plastica sui buchi degli alberi usati per nidificare dagli Uccelli o dai Pipistrelli. Per questo da HambiCamp partono squadre specializzate nel liberare le tane. Ci raccontano di aver trovato spesso i Pipistrelli morti soffocati e i segni delle loro unghiette sulla plastica, nel disperato tentativo di liberarsi.

Giorno dopo giorno io e Claudio esploriamo fisicamente i villaggi nella foresta e mentalmente tutti i vari aspetti della resistenza. Gli esempi concreti di una quotidianità fatte di pratiche di lotta, di coesistenza ed integrazione tra lotte e sensibilità, di confronto, fratellanza e sorellanza prendono il posto concreto delle immagini mitiche che avevo in testa prima di partire. Squarci di un modo di vivere utopico ma possibile, concreto, davanti ai nostri occhi.
A Claudio, che proviene da esperienze molto lontane dall’attivismo, sembra di essere atterrato su un pianeta sconosciuto, che apre nuovi orizzonti su cui riflettere e che offre tante storie piccole e grandi da raccontare, da riprendere, ma è grande la frustrazione di non poter accendere la telecamera in ogni momento, ma il rispetto per la sicurezza e per le regole è fondamentale in una comunità che si autoregola: l’anarchia nella pratica si traduce in regole che si accettano e cui ci si attiene spontaneamente, non di mancanza di regole, e forse è per questo che simili esperienze sembrano aver successo nel nord Europa, dove forse il senso di comunità familistico è più rarefatto, ma il senso civico è più interiorizzato di quanto non sia qui da noi in Italia. Nella foresta nessuno sembra sottrarsi dai lavori necessari, dal tagliare le patate al trasportare tronchi,con grande consapevolezza e la dignità di chi non è né superiore né inferiore a nessun altro, ma solo compagno. Volano dieci giorni molto intensi, l’immensa stanchezza, dopo il crollo della tensione, e le gambe mai così muscolose sono le prime sensazioni fisiche che proviamo sull’aereo del ritorno. Abbiamo dormito e ci siamo alzati ai ritmi del sole, camminando ogni giorno per infiniti chilometri.

Partiamo e già progettiamo di tornare a breve, quando l’annuale protesta contro il cambiamento climatico, Ende Gelände, porterà migliaia di attivisti da tutta la Germania a riversarsi ad Hambach, che è la prima linea del fronte nella lotta contro il cambiamento climatico e contro il modello di produzione estrattivista imposto dall’economia capitalista. La sua eco è così forte, il suo respiro così europeo, le sue ragioni così convincenti che l’ondata di disobbedienza civile per liberare gli Animali e la Terra dalla morsa capitalista non potrà risparmiare l’Italia ancora per molto.

Leonora Pigliucci


Galleria fotografica fornita da Leonora Pigliucci:


Il documentario

Trailer:



Sinossi:

Hambach, foresta millenaria nel cuore d’Europa, è lo scenario di un esperimento unico di resistenza ecologista che dall’alto delle case e dei villaggi sospesi sugli alberi, si oppone alle ruspe di RWE, la multinazionale che vorrebbe ridurre il bosco all’ennesimo bacino estrattivo per il carbone.
Nasce così, spontaneamente, nel 2012, dall’incontro di attiviste e attivisti accorsi da tutta la Germania e l’Europa, la comunità della foresta, tutt’oggi vivace spazio di convivenza e laboratorio quotidiano di politica libertaria.

Una dimensione un po’ astratta e apparentemente senza tempo, fondata su una scelta di assoluta uguaglianza e amicizia anche con gli abitanti non umani del bosco, nascosta nel folto di un’ecosistema che scompare. Un’esperienza radicale, ormai elevata a simbolo dai movimenti ecologisti di mezza Europa.
Il film è il viaggio emozionale per immagini e suoni alla scoperta di un modello di vita spartano e ricco allo stesso tempo, dell’utopia romantica di militanti che da anni tengono sotto scacco una gigantesca multinazionale, la seconda società elettrica del mondo, frapponendo i propri corpi tra gli alberi e le ruspe e l’immenso mostro meccanico che trasforma la foresta nell’oscura terra del Mordor del Signore degli Anelli, come là chiamano la parte di bosco già ridotta a deserto brullo.
Una lotta, quella degli Hambachers, dal sapore antitecnologico, ma in realtà modernissima: j’accuse contro l’irresponsabilità dei colossi energetici mondiali e del loro predatorio modello di sviluppo, che nulla, salvo forse una consapevolezza diffusa che si faccia pratica di disobbedienza civile, sembra poter indurre a cambiare rotta.


È attiva una campagna di raccolta fondi per finanziare la partecipazione del film ai festival cinematografici e in parte sostenere l’occupazione della foresta: https://it.ulule.com/hambachers-film/


Link:

Pagina Facebook: https://www.facebook.com/hambachers/
Sito ufficiale campagna: hambachforest.org


Contatti:

Leonora Pigliucci +393356850184


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Un commento
  1. Paola Re ha scritto:

    Non ci sono parole per ringraziare queste persone resistenti. E’ tutto così commovente che il minimo da fare è raccontare la loro storia sperando che scuota le coscienze quindi grazie a chi la racconta.

    21 Aprile, 2019
    Rispondi

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