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Questo articolo inaugura su Veganzetta una serie di riflessioni critiche sul cosiddetto “movimento antispecista” come lo conosciamo attualmente e su alcune sue recenti tendenze, elaborazioni e proposte. In questo primo testo si propongono delle considerazioni di Aldo Sottofattori (storico esponente dell’antispecismo italiano, nonché autore in passato di numerosi articoli pubblicati su Veganzetta) sul rapporto tra intersezionalità e antispecismo, nel tentativo di comprendere – onestamente, serenamente e senza preconcetto alcuno – se la via dell’intersezionalità così come è stata intrapresa in ambito antispecista, abbia prospettive e una possibilità di sviluppo.
In coda al testo di Sottofattori, alcune considerazioni su quanto in esso proposto.
Ci si augura che sia gli argomenti affrontati da Sottofattori, sia le considerazioni sul suo articolo, possano essere di stimolo per l’avvio di un dibattito serio e propositivo sull’argomento.
Teoria intersezionale e antispecismo: una critica
Esiste un dato di fatto: quelli che per semplicità possiamo chiamare “movimenti di emancipazione umana” – gruppi talvolta eccezionalmente estesi, con finalità e obiettivi di riforma più o meno radicale dello stato di cose esistente – non mostrano alcuna disponibilità ad accogliere le tesi e le condotte proposte dall’antispecismo. Questo non significa che non sia possibile cogliere proprio in quegli ambiti nuova linfa per il movimento di liberazione animale: tuttavia è possibile conquistare soltanto singoli soggetti dotati di sensibilità particolare. La tendenza all’ascolto dei movimenti, quando si manifesta, è soltanto di circostanza in onore al politically correct, ma non si traduce in altro se non in benevolenza di facciata.
A prima vista tale resistenza potrebbe essere interpretata come effetto di quell’inerzia culturale dovuta ad abitudini di lunga tradizione che richiede tempi adeguati per essere rimossa. Purtroppo, essa non si manifesta come semplice rifiuto, ma si accompagna a un complesso di argomentazioni e principi in antitesi alle tesi antispeciste.
Il movimento antispecista – o meglio, parte di esso – dimostra una ammirevole resistenza nel compiere un’azione di stalking verso gli altri movimenti per farsi integrare nelle azioni di cambiamento dell’esistente, ma più che ricevere rifiuti, riceve indifferenza. In altri termini questa componente dell’antispecismo si ostina a immaginarsi parte di un fronte più ampio, un po’ come l’amante respinto che non vuole accettare la dura realtà. Essa non riesce a prendere atto che quando nello spazio pubblico si criticano il mondo neoliberista e i suoi valori il discorso risulta rigorosamente circoscritto alla condizione degli esseri umani.
È importante capire il significato di queste parole: non si vogliono sottovalutare passioni e ragioni da condividere con altri attivisti ogni volta che si presenta un’occasione di lotta per l’affermazione di diritti; passioni e ragioni sono parte del bagaglio dell’attivista antispecista che si rinnova ogni volta che ci si relaziona nel corpo sociale. Il problema nasce quando a tale argomentazione si attribuiscono potenzialità strategiche tali da aprire spazi che non esistono, se non in una speranza meramente immaginativa. Pretendere che la percezione situata della propria posizione di oppresso generi una presa di coscienza capace di rispecchiarsi in altre condizioni è già problematica quando le diverse identità sono proprie degli esseri umani, ma di fronte alla barriera di specie si va a cozzare quasi regolarmente contro la barriera specista.
Preso atto del fenomeno, è possibile tentare di sviluppare una linea di ricerca in grado di andare oltre il rilievo empirico e spiegare sia le resistenze degli specisti, sia le pretese dell’antispecismo. È possibile che la spiegazione sia nascosta in un errore che paradossalmente si è formato proprio con lo sviluppo teorico di quest’ultimo.
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La teoria intersezionale, accettata pienamente dall’ultimo antispecismo, indica nell’uomo bianco, benestante, eterosessuale, in salute il soggetto che ha generato le classificazioni binarie con l’intento di stabilire un alto e un basso; in definitiva, la strutturazione gerarchica che ha instaurato il complesso delle oppressioni. Definito in questo modo, l’“Uomo” assomiglia molto al tipo la cui nascita viene posta da molti interpreti nel XVIII secolo, guarda caso il secolo di quell’Illuminismo così spesso maltrattato negli odierni ambienti progressisti e soggetto anch’esso a radicale decostruzione. Dalla critica all’Illuminismo, si passa poi al luogo della sua formazione, l’Occidente, che di fatto rappresenta il luogo in cui si è costituito (costruito) l’Uomo bianco con tutti i suoi attributi. L’Occidente diventa così il luogo di tutti i mali del mondo, tesi su cui, come vedremo, occorrerebbe riflettere attentamente.
A questo punto, l’antispecismo cerca una soluzione. Costruisce una sorta di confine umano mobile per mezzo del quale vengono “animalizzate” le categorie umane subalterne. La contemporanea tesi della fluidità del concetto di specie – se non addirittura la sua decostruzione – introduce il concetto di indistinzione dei soggetti oppressi. In fin dei conti sia gli umani subalterni, sia gli altri animali sono organismi desideranti che vogliono sottrarsi dalle forme oppressive. Il cerchio è chiuso: la violenza sugli (altri) animali, pur avendo caratteristiche proprie, è soggetta agli stessi meccanismi di oppressione subiti da altre identità; pertanto – considerato l’asse dominatori-dominati – gli animali possono essere inquadrati nel secondo termine e, a questo punto, la teoria intersezionale diventa lo strumento appropriato per stabilire alleanze1.
Ora, la tesi dell’“uomo” nato nel XVIII secolo sembra francamente insostenibile. Certamente in quel secolo è nato uno specifico tipo d’uomo. Ma l’Uomo esiste da quando è precipitato nella falsa percezione di sé come ente separato dalla natura. Quando ciò sia accaduto non è dato di sapere. Di certo la cultura giudaico-cristiana (che rispetto alle sue origini difficilmente potrebbe considerarsi occidentale) ha certificato questo distacco in termini piuttosto evidenti con il complesso e la propagazione di miti talmente conosciuti da non richiedere qui alcuna puntualizzazione. Oltre a ciò, ha determinato un’altra spettacolosa rivoluzione che rientra prepotentemente nella nostra discussione: ha linearizzato il tempo che fino a quel momento era ritenuto circolare, periodico e ripetitivo. Da quel momento, tra la creazione e la fine dei tempi, ci sarebbe stata una evoluzione continua degli eventi e la Storia si sarebbe messa in marcia. In particolare, è il ramo cristiano di tale tradizione che, conquistando e impregnando l’occidente geografico e trasformandolo via via nell’Occidente, determina enormi e imprevedibili sviluppi.
L’autopoiesi del “sistema Occidente” che ha preso il via dall’incidente cristiano ha creato nella Storia due binari che sono proceduti di pari passo, incrociandosi con continuità e agendo in perenne conflitto: il binario del potere che raggruppa tutte le forme di autorità manifestatesi nel tempo (ecclesiastiche, signorili, politiche o economiche ecc.) protese a esercitare un dominio – in senso generale e secondo mille forme – contro la natura e contro la specie degli umani; e il binario dei valori, costituito dall’ideale staffetta per mezzo della quale tutti i processi di emancipazione e di liberazione sono apparsi prima in Europa e poi in tutto il globo. Accettando questa tesi, ne conseguirebbe la profonda ambivalenza dell’Occidente che dovrebbe essere interpretato come un campo di tensione tra due forme evolutive, una negativa e l’altra positiva.
Le idee di emancipazione non si reggono da sole. Queste sono state sempre accompagnate e, anzi generate, da stati di profonda sofferenza o dalla percezione di subire gravi ingiustizie. Questo filone di idee ha costantemente aspirato a espungere dalla sua condizione, e in modo sistematico, tormenti, povertà, oppressioni e discriminazioni in qualunque modo si presentassero. Questo processo di liberazione, caratterizzato da movimenti collettivi e supportato da idee sempre più avanzate, si è sviluppato in Occidente, appartiene all’Occidente e, insieme con il criminale lato oscuro dell’espansione commerciale, è tracimato nel resto del mondo. Cosicché si può dire che, con l’esplosione dell’iperattività sistemica della società umana avvenuta nel XX secolo, si sono liberate tutte quelle condizioni che, potenzialmente, potrebbero fondersi in un processo di definitiva liberazione da qualsiasi forma di oppressione (umana).
Ora, si confrontano due modi di vedere il mondo: da una parte l’ormai famoso uomo bianco con le sue attribuzioni; dall’altra il magma caotico e multiforme del mondo a venire, insomma il complesso dei movimenti portatori di istanze di emancipazione (dal dominio, dal patriarcato, dal capitale ecc.). In mezzo ai due poli una composita entità: la grande massa dell’umanità compresa tra le sirene della cultura dominante, e i banditori, a vario titolo, del mondo a venire. Il gioco rappresenta la battaglia definitiva e stabilirà o il collasso del pianeta sotto l’azione antropogenica, o una qualche rinascita di (in) un futuro di cui non possiamo ancora definire i contorni.
La portata della guerra tra il mondo attuale e il mondo a venire non lascia alcuno spazio all’antispecismo, il quale, aspirando alla liberazione dell’animale (cioè degli enti che gli umani riassumono con tale termine) non può trovare nessuna possibilità ragionevole di ascolto in una condizione di conflitto totale (non credo che sia esagerato parlare di conflitto totale dato lo storico punto di svolta in cui si giocano i destini della specie umana che ancora non può chiamarsi “umanità”). Ma a ben vedere il problema dei liberazionisti non è quel soggetto sul quale si è a lungo appuntata l’attenzione dell’antispecismo e individuato nell’uomo, bianco, etero, benestante, sano ecc. Il signore in questione altro non è che il rappresentante di quel continuum storico che dalle prime manifestazioni neolitiche si ripresenta nella società moderna in una nuova relazione con i suoi simili caratterizzata da rapporti di sfruttamento inediti e particolari. È il cavernicolo che di moderno ha soltanto i panni. È il prolungamento del vecchio in forma nuova dentro l’epoca dei Lumi; è il problema dentro la comunità umana la quale sta maturando faticosamente potenzialità e percorsi di liberazione di (e da) se stessa. In fin dei conti, come è possibile definire specista chi “animalizza altri gruppi umani”? Perciò l’antropocentrismo, l’umanismo, l’universalismo specista, la fissazione della specificità di specie non vanno ricercati in questo antico troglodita che si ripresenta con vesti moderne, bensì nelle forme evolute dell’umanità che sono state costruite a partire dalla fondazione del ramo oscuro della cultura giudaico-cristiana. Ora, forse, possiamo vedere la radice del problema. Gli antispecisti devono deviare lo sguardo spostandolo dal punto sbagliato per individuare altrove il nodo, e cioè proprio in quei movimenti che vengono corteggiati in quanto ritenuti dei potenziali alleati.
E il soggetto che esprime il dominio? Quell’Uomo bianco con tutti i suoi attributi? Quel soggetto è semplicemente estraneo alla questione, ma non è nemmeno specista o viziato dall’antropocentrismo. È un soggetto che non ha linguaggio. O meglio, è il soggetto arcaico che, in parte addomesticato dalla cultura, impiega il linguaggio per nascondere i suoi fini. Non occorre il decostruzionismo per capire che quando parla di guerre umanitarie o benessere della popolazione attraverso l’economia di mercato o altre spettacolose architetture linguistiche con fini altruistici, si ponga in realtà fini esattamente opposti a quelli dichiarati. Il personaggio in questione è semplicemente avulso dal nostro problema. L’“uomo bianco” con tutte le sue stucchevoli attribuzioni – insomma, il modello continuamente reiterato – non si confronta con niente, né con nessuno essendo ancora dominato, egli stesso, dal controllo del tronco encefalico. Se esistesse solo lui, non potrebbe esserci mediazione linguistica e la relazione sarebbe basata esclusivamente sull’atto della guerra di tutti contro tutti.
Invece l’antispecismo ha come specchio lo specismo, cioè la teorizzazione della superiorità umana di fronte alla quale ogni ente risulta cosa, la teorizzazione che contiene al suo interno la speranza di una elevazione rispetto alla quale, ogni paragone con l’animalità è grave offesa. Che sia pregiudizio o ideologia di sfruttamento o entrambi, lo specismo si incarna nella speranza di liberazione dai limiti della natura perché all’origine, e a seguito delle evoluzioni storiche, si è nutrito di questa speranza. Nel popolo umano che aspira alla liberazione il linguaggio è autentico, specista, umanista e antropocentrico, ed esprime l’ansia della conquista di un’umanità finalmente compiuta, anche se si dibatte nella confusione sulla via da percorrere.
Insomma, l’antispecismo può sussistere in compresenza con lo specismo sia pure, attualmente, senza alcuna speranza di autentico ascolto. Antispecismo e specismo (a differenza dell’uomo arcaico) possiedono entrambi lo stesso linguaggio ma quando si confrontano si pongono su piani diversi e non si possono comprendere. È con la parte evoluta di questa specie sorprendente che è possibile potenzialmente confrontarsi, ma la condizione immatura non consente di giungere ad accordi o a stabilire piattaforme e ragionamenti comuni. Pertanto l’antispecismo deve accettare di essere corpo estraneo anche, e soprattutto, presso la parte migliore dell’umano. Deve combattere la sua battaglia sapendo di vivere un’ineliminabile solitudine. Questo significa lasciar cadere ogni speranza di trovare collettivi accoglienti e proseguire in una prospettiva tutta propria e semplificata rispetto alle pretese ambiziose degli ultimi tempi. L’antispecismo non necessita di alcun sviluppo teorico ulteriore, perché quello che ha alle spalle è sufficiente, persino ridondante. E, soprattutto, deve abbandonare in questo momento storico pretese intersezionali limitando il suo interesse agli animali non umani che, a seguito di troppe distrazioni, rischiano di essere dimenticati. Ciò non significa che gli attivisti per la liberazione animale non possano supportare le cause degli immigrati, del femminismo, del pacifismo, dell’ecologismo o di altri movimenti a carattere emancipazionista. È vero il contrario, è bene che sostengano quelle lotte se hanno modi, occasioni e risorse per poterlo fare. In primis perché sono lotte per obiettivi giusti. Poi perché solo in una società finalmente umanizzata, una società universale in cui la parola “umanità” acquista il suo significato autentico e in cui gli umani si liberano delle contraddizioni interne, si può intravvedere la possibilità di aprire spazi di dialogo e di nuove realizzazioni. Ma oggi la scelta di aderire a quelle lotte non potrebbe essere condotta in quanto antispecisti, ma da sostenitori del movimento al quale di volta in volta si partecipa.
Tutto ciò può sembrare in contraddizione con quanto detto finora. Se l’emancipazione umana è indubitabilmente antropocentrica come potrebbe, una volta realizzatasi, prestare ascolto all’antispecismo e acconsentire alla liberazione animale se non l’ha fatto prima? Credo che ciò accadrebbe perché l’antropocentrismo si dissolverebbe una volta che fosse conquistata la meta, in quanto rappresenta il mezzo, non il fine; il viaggio, non il traguardo; il viatico, non il ristoro finale. Perciò è probabile che una società umanizzata, liberata dalle angosce e dall’alienazione con la quale ha convissuto per un tempo interminabile, possa ritrovarsi a disporre di uno sguardo nuovo sul mondo, pieno di meraviglia e rivolto alla pacificazione con gli essenti con i quali è stata in conflitto e su sponde opposte per un tempo interminabile. Ma c’è un motivo ulteriore, più fondato e incoraggiante, che possiede una caratura strettamente materialistica. Ipotizzo che l’antropocentrismo svanirebbe perché, risolte le sue contraddizioni interne, l’umano si troverebbe di fronte a quelle esterne, la mancanza di soluzione delle quali lo farebbe riprecipitare nel caos. Se non rientrasse – pur con le sue caratteristiche di animale tecnologico – nella natura, nel rispetto delle sue leggi, nessuna giustizia o conquistata eguaglianza, nessuna fratellanza universale lo metterebbe al riparo da nuovi errori che rigenererebbero vecchi conflitti. In altri termini dovrebbe ricostruire il suo rapporto con il mondo e con gli altri animali sulla base di relazioni materiali costruite sulle leggi dell’evoluzione, che tuttora i movimenti di emancipazione, di qualunque natura essi siano, compresi quelli ambientalisti, ancora non sospettano (relazioni forse non sospettate nemmeno gli antispecisti).
Ora, però, nasce una domanda ragionevole: che fare, come antispecisti, in un contesto simile? Se il mondo è immaturo per la liberazione totale degli esseri viventi – e non soltanto della famiglia umana – che significato attribuire al proprio ruolo? Si può comunque fare molto anche partendo dall’assioma dell’autonomia del movimento di liberazione animale. Intanto esistono particolari settori di sfruttamento in bilico tra tradizioni e modernità. Se le prime lo implicano, la seconda può accettare il loro abbandono. In questo quadro si può lottare per l’eliminazione (ma sarebbe meglio dire “per l’accelerazione dell’eliminazione”) di settori di sfruttamento “non necessari” che continuano a essere mantenuti per inerzia. Ma la funzione più significativa del movimento antispecista consiste ancora nella diffusione di idee liberazioniste sapendo che non si tratta tanto di realizzarle (poiché come sostenuto, mancano le condizioni di fattibilità), quanto di rinforzarle. Occorre cercare e raccogliere una sensibilità diffusa che pure esiste perché non è ancora cristallizzata nelle grandi narrazioni della magnifica singolarità dei sapiens inculcata nei (dai) movimenti di emancipazione umanista. Senza dimenticare manifestazioni, proteste, incursioni, liberazioni, intimidazioni in ambiti deprecabili (perché no?) per mantenere viva e accrescere la presenza del movimento nello spazio pubblico. È necessario che la grande idea della liberazione animale rimanga viva nel tempo e proceda in parallelo con gli sviluppi degli avvenimenti umani. Fino al momento in cui possa finalmente dare un contributo fondamentale, in un futuro ancora indistinto, per compiere l’ultima rivoluzione.
Naturalmente niente garantisce che tutto possa svolgersi secondo questa prospettiva. Le difficoltà seguite al periodo d’oro hanno creato davvero tante defezioni e, per chi è rimasto, l’umore non è dei migliori. Risalire la china, recuperare i passati ardori e riuscire a mantenerli vivi significa oggi fare uno sforzo sovrumano. Certamente è possibile che la distruttività umana cancelli la possibilità di un mondo a venire. Ma esistono altre possibilità?
Aldo Sottofattori
www.criticadelleteologieeconomiche.net
Note:
1) In questo schema c’è già qualcosa che stride e che dovrebbe aprire interrogativi in coloro che lo adottano: l’antispecista non è il soggetto oppresso. La posizione situata sarebbe quella dell’animale, essendo quella dell’antispecista una specie di attività per conto di. Ma nel prosieguo sorvolerò su questo pur importante aspetto.
Alcune considerazioni
di Adriano Fragano
Prima di tutto ritengo importante chiarire che nel testo di Sottofattori non si mette in discussione in concetto di interconnessione delle lotte di liberazione, né Veganzetta intende farlo: esso rimane un elemento imprescindibile del pensiero e della strategia antispecista. Libertà, giustizia, rispetto delle diversità, diritto a una vita degna e piena, autodeterminazione, non possono avere una chiave di lettura parziale, ma sono dotati di una caratteristica di universalità: l’idea di una liberazione parziale o condizionata significherebbe la negazione del principio stesso. È chiaro dunque che nell’analisi proposta non si discute l’approccio alle lotte di liberazione dell’antispecismo, ma si considerano l’opportunità e le effettive possibilità di successo dell’idea secondo la quale, grazie alla teoria intersezionale, l’antispecismo possa ottenere l’attenzione che desidera dai movimenti di liberazione intraumana.
Gli argomenti proposti da Sottofattori sono indubbiamente numerosi, controversi e complessi, possono piacere o meno, magari risultare disturbanti, ma di sicuro evidenziano una questione che esiste in ambito antispecista e che però – come troppo spesso accade – a tutt’oggi non è stata affrontata e dibattuta a sufficienza. Alla rapida propagazione dell’idea dell’intersezionalità, non è seguito un serio dibattito pubblico in grado di coinvolgere le molte anime antispeciste, nel tentativo di elaborare una visione condivisa. Ciò ha causato il verificarsi di una (non unanime) accettazione della proposta intersezionale, che ha lasciato aperti numerosi interrogativi e irrisolti seri problemi.
Dei molti argomenti sollevati da Sottofattori, mi preme sottolinearne solo alcuni che considero particolarmente importanti.
Il primo argomento da sottolineare è la trappola del politically correct in cui l’antispecismo è palesemente caduto, ossia la tolleranza di circostanza da parte della quasi totalità di quelli che Sottofattori definisce «movimenti di emancipazione umana» nei confronti delle istanze antispeciste, che si traducono in una sorta di benevolenza di facciata. Tale situazione certifica di fatto il fallimento del tentativo da parte antispecista di allargamento del fronte delle lotte di liberazione intraumane anche alla questione animale. Giustamente Sottofattori fa notare come sia possibile in questi ambiti, trovare nuova linfa per l’antispecismo, ma essa proverrebbe solo da singoli soggetti sensibili all’argomento per convinzione, percorso personale e/o predisposizione e non dalla globalità di tali ambienti. Sono senza alcun dubbio questi soggetti coloro ai quali il movimento antispecista si dovrebbe rivolgere.
Si potrebbe addirittura stabilire un parallelo tra l’atteggiamento di approccio alla società umana che parte del movimento vegano ha tenuto in questi ultimi decenni, con l’idea di allargamento del fronte mediante l’intersezionalità di parte del movimento antispecista: nel primo caso si è tentato di “veganizzare” attraverso argomenti indiretti l’intera società umana, nel secondo di “antispecistizzare” attraverso tematiche intersezionali i movimenti di liberazione umana.
Entrambi i tentativi sono da considerarsi simili ed errati. L’unica differenza è che mentre nel primo caso si sono adottate argomentazioni e strategie derivanti da un concetto di veganismo non aderente all’originario, nel secondo si è pensato di utilizzare l’intersezionalità (concettualmente giusta e auspicabile) per trovare spazi comuni di lotta che in questo momento storico non sono possibili, causando una sorta di infruttuosa e pericolosa “fuga in avanti”. Il problema è quindi interpretativo e di natura strategica: l’attribuzione a determinate argomentazioni (come quella intersezionale) di «potenzialità strategiche tali da aprire spazi che non esistono».
Quanto affermato conduce al secondo argomento che vorrei sottolineare, vale a dire del fatto che stiamo parlando di movimenti di emancipazione umana, che proprio in quanto tali considerano la lotta dal punto di vista teorico e ancor di più nella pratica, relegata all’ambito strettamente umano (e non potrebbe essere altrimenti). L’antropocentrismo che da tale impostazione deriva è palese e naturale, proprio perché coloro che si occupano di queste lotte, hanno come finalità l’affermazione delle istanze di minoranze o di categorie di soggetti appartenenti all’umanità, all’interno della quale intendono avere spazi e ruoli che ritengono loro spettanti di diritto. Pertanto è chiaro che anche la più radicale delle visioni della società umana risente di quello che chiamo lo scoglio antropocentrico e che Sottofattori definisce la “barriera specista”. Scogli o barriere che chi si occupa di questioni di emancipazione umana non è tenuto automaticamente a considerare e a infrangere per ottenere lo scopo che si è prefisso. Un esempio pratico di quanto affermato lo si ritrova nelle frasi che spesso pronunciano coloro che subiscono violenze, costrizioni, trattamenti disumani e umilianti e che si battono per i propri diritti: «non siamo animali». In questa frase si riassume l’essenza delle lotte di liberazione umana che ancora si poggiano su un concetto d’identità umana contrappositiva, che ha fatto della distinzione dagli altri Animali la propria forza fondante: non siamo Animali e di conseguenza non possiamo essere trattati come loro.
Vorrei sottolineare inoltre un elemento che Sottofattori accenna in nota e che io considero di grande rilevanza, ossia la constatazione che la lotta antispecista agisce per interposta persona (per conto di) e senza delega alcuna (mai fornitaci dagli Animali). Vale a dire che non solo l’attivismo antispecista (formato da Umani) non lotta per l’affermazione di propri diritti o per determinati diritti di altri Umani, ma addirittura lotta contro la nostra posizione di dominio sugli altri viventi, quindi contro l’attuale condizione umana e contro i nostri stessi interessi di specie: tutti siamo specisti nessun Umano escluso. Queste peculiarità della lotta antispecista la rende unica e non confrontabile con altre tipologie di lotte di liberazione, men che meno con quelle attuali di liberazione umana.
Le peculiarità della lotta antispecista ci conducono al terzo argomento: ovvero l’antispecismo come “corpo estraneo”, come lotta solitaria diretta anche contro «la parte migliore dell’umano» intenta a combattere una lotta di liberazione tutta interna alla specie. Da questo la consapevolezza di dover procedere per ora in una «ineliminabile solitudine» che deve essere accettata per il bene della causa, riportando l’interesse principale sulla questione animale che ultimamente pare correre seri rischi di passare in secondo piano.
Non c’è alcuna volontà di auto isolazionismo o di elitarismo in tutto ciò, ma solo la convinzione che i tempi non sono ancora maturi per un serio passo verso l’intersezionalità.
Diversamente da Sottofattori, credo però che ritornare sui nostri passi non sia del tutto corretto né sufficiente, probabilmente servirebbero strumenti teorici meno impattanti sia sulla nostra lotta, sia su quella delle altre realtà con le quali intendiamo relazionarci; per tale motivo suggerisco l’adozione dell’interdiscorsività come proposto dalla psicologa antispecista Romina Kachanoski*: l’interdiscorso è un rapporto implicito o esplicito che un discorso ha nei confronti di altri discorsi, l’interdiscorsività è quindi quell’elemento, o quegli elementi, di un discorso che lo collegano ad altri. Grazie all’interdiscorsività potrebbe nascere così una nuova modalità più “neutra” e facile da accettare che l’antispecismo potrebbe proporre ai movimenti di emancipazione umana, mediante un interdiscorso risultato di molteplici singole argomentazioni tra loro diverse ma in vario modo collegate, che a loro volta si ritrovano concatenate alla globalità del discorso. In pratica non più intersezione, ma un discorso di discorsi che può riguardare – ad esempio – il concetto di libertà dei singoli individui protagonisti o destinatari delle molte lotte di liberazione intraumana, e quello riguardante la volontà di libertà degli Animali e il concetto di libertà antispecista: un’amalgama che potrebbe portare alla scoperta di molte argomentazioni e visioni comuni, come nel nostro caso il fatto incontestabile che il desiderio di libertà sia comune a tutti gli Animali e non solo all’Umano.
Peraltro l’interdiscorsità prevede che la scelta di un argomento di un discorso, comporti la relazione con altri discorsi già prodotti in precedenza: altri concetti già espressi in ambiti diversi che vengono riportati per divenire parte integrante di un nuovo discorso. Ciò faciliterebbe enormemente la costruzione di “ponti” tra discorsi diversi e tra concetti diversi di liberazione.
Costruendo nuove relazioni tra entità discorsive su concetti di carattere generale o grandi entità discorsive anche se provenienti da ambiti eterogenei (libertà, giustizia, diritto alla vita, rispetto dell’alterità ecc.), si potrebbe avviare un serio confronto sui motivi delle lotte sul piano teorico (discorsivo), salvaguardando al contempo la specificità, l’indipendenza, le strategie e l’identità dei singoli movimenti di liberazione (animale e umana). Nascerebbe così un discorso tra entità diverse (speciste e antispeciste) mediante argomenti comuni, senza l’obbligo da parte delle prime di dover accettare sin da subito tutti i cambiamenti che un’intersezione comporta, ciò fino a quando la società umana non fosse realmente pronta ad affrontare una reale intersezionalità delle lotte (qualora ve ne fosse realmente ancora bisogno), oppure – come propone Sottofattori – non avesse definitivamente risolto i suoi conflitti interni, potendo così finalmente affrontare e risolvere l’ingiusto rapporto che abbiamo con gli Animali, senza quindi più alcun bisogno di teorie intersezionali.
Note:
*) Kachanoski, R. (novembre 2015), conferenza Violencia Especista: claves para su reconocimiento y erradicación, presso Università ISEC, Città del Messico.
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Caro Aldo, vorrei commentare alcuni punti secondo me molto importanti del tuo testo, anche perché se, come immagini, non concordo su molti aspetti, trovo centrata l’individuazione del problema strategico e dei problemi reali. Come sai, in questi mesi stiamo molto discutendo del tema durante le presentazioni del libro curato con Niccolò Bertuzzi, “Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale” (in cui un saggio, in particolare, quello di feminoska, parla proprio di intersezionalità e antispecismo).
E’ evidente che esiste un problema di accettazione del campo di lotta antispecista da parte di altri movimenti, il che però, francamente, non mi sembra affatto sorprendente, e proprio per i motivi che tu e Fragano citate: la barriera specista, e in generale la storia antropocentrica dei movimenti. Credo molto ingeneroso, però, dire, come fa Fragano che “tale situazione certifica di fatto il fallimento del tentativo di allargamento del fronte delle lotte di liberazione intraumane anche alla questione animale”. Se un processo simile è dovuto avvenire anche in altri ambiti, non è certo osservando ciò che è avvenuto in pochi anni che si può trarre un bilancio chiaro. Basta leggere, che so, la storia dell’intreccio fra movimenti antischiavisti/antirazzisti e primi movimenti femministi tracciata da Angela Davis, per vedere come i primi hanno sistematicamente osteggiato i secondi, giungendo ad accettarli (e tutt’altro che pienamente) solo nel giro di… un secolo. La stessa genesi della teoria intersezionale ne è un perfetto esempio: femministe lesbiche nere che sollevano la voce perché il femminismo è etero e, soprattutto, bianco; oggi, hanno ancora molta strada da fare perché, al di là di certe nicchie di pensiero o di lotta, le narrazioni e le lotte femministe egemoni non siano, nei fatti, del tutto strutturate sui modelli del femminismo bianco (accademico e spesso liberal). Ma, a proposito di teoria intersezionale, il problema principale mi sembra sia che tu non parli di questa, ma di qualcos’altro che non vi corrisponde. E che però è forse ciò che perlopiù si intende quando si dice “intersezionalità” in ambito antispecista (ma anche in altri ambiti). E che testimonia che è tristemente vero quanto dice Fragano in nota: “alla rapida propagazione dell’idea dell’intersezionalità, non è seguito un ampio dibattito pubblico”. Cui aggiungerei che questa rapida propagazione ha determinato, soprattutto, una sua errata diffusione, come testimoniato da alcune gravi inesattezze che sostieni in merito all’intersezionalità, che vorrei riprendere perché spiegano bene la questione, credo.
Dici, per esempio: “Pretendere che la percezione situata della propria posizione di oppresso generi una presa di coscienza capace di rispecchiarsi in altre condizioni è già problematica”. Questo è certamente vero, ma non è da ascriversi al metodo intersezionale, né alla sua adozione. Si tratta, come dire, di un errore indipendente. Infatti, tutto sommato, anche prima che si diffondesse la “moda” di usare questa parola, molte/i antispeciste/i partivano dal presupposto che il punto di vista dell’oppresso fosse magicamente in grado di suscitare quantomeno la compassione verso i nonumani, salvo poi incontrare cocenti delusioni.
Ma il punto principale è che l’intersezionalità non è una teoria riduzionista dell’oppressione, che individua un meccanismo comune, un’origine comune o un principio esplicativo comune. Tutto al contrario. In questo senso è il contrario della cosiddetta “convergenza delle lotte” (che ovviamente può significare tutto e niente). Quanto dici è molto fuorviante: “Il cerchio è chiuso: la violenza sugli (altri) animali, pur avendo caratteristiche proprie, è soggetta agli stessi meccanismi di oppressione subiti da altre identità; pertanto – considerato l’asse dominatori-dominati – gli animali possono essere inquadrati nel secondo termine e, a questo punto, la teoria intersezionale diventa lo strumento appropriato per stabilire alleanze”. E’ proprio perché si adotta il metodo intersezionale che si riconosce che non c’è un meccanismo comune, ma che ci sono specificità e, naturalmente, somiglianze, e soprattutto che le forme di oppressione si potenziano a vicenda, lungi dal sommarsi. Quello che chiami “asse” non esiste in questo metodo di analisi dell’oppressione, esistono “gli assi”, quello della razza, della classe, dell’età, del genere… e della specie. E proprio per questo non si può parlare di “dominatori-dominati”, ma di posizioni complesse, derivanti dal fatto che ognuno è oppresso su un certo asse e, magari, oppressore su altri. Anche per questo, dire che “la teoria intersezionale, accettata pienamente dall’ultimo antispecismo, indica nell’uomo bianco, benestante, eterosessuale, in salute il soggetto che ha generato le classificazioni binarie con l’intento di stabilire un alto e un basso” è riduttivo, anche se molta della retorica della cosiddetta intersezionalità in effetti chiama in causa questo soggetto. Che tuttavia non esiste, chiaramente, e non ha elaborato un piano per stabilire dei binarismi. Semmai, i binarismi li riproduciamo tutti noi quotidianamente, in misure diverse.
La storia dell’intersezionalità è lì a dimostrare che non è semplice rendere riconoscibili nuovi “assi”, proprio perché il loro riconoscimento tocca il privilegio. Le prime sono state appunto le donne nere che hanno preteso di includere nell’analisi del privilegio maschile e dell’oppressione femminile ciò che la loro condizione di nere suggeriva, e cioè l’oppressione razziale. Ovviamente, se sei una donna bianca, per quanto femminista, e non hai mai riflettuto sul fatto che sei bianca, ti sarà difficile, di primo acchito, accogliere questa critica. Successivamente, vari soggetti e movimenti hanno utilizzato questo metodo. Indubbiamente, sembra che “aggiungere” la critica del privilegio umano sia la cosa più ostica. Ma è importante capire che non si tratta di un semplice processo di inclusione di “istanze” o, addirittura, di soggettività. La considerazione di un asse di potere fino a quel momento invisibilizzato fornisce impagabili strumenti per la liberazione, proprio perché ogni oppressione si “appoggia” su altre. Ed è qui che risponderei in maniera più ampia alla domanda: perché sostenere le lotte umane (oltre che perché, come dici, sono intrinsecamente giuste)? Perché il sostegno di chi ha individuato un altro importante asse di potere – lo specismo, diciamo – costituisce un contributo. Per esempio, così come il pensiero gay e soprattutto lesbico ha potuto far riflettere i femminismi su quella che oggi chiamiamo “norma eterosessuale” suggerendo strumenti per andare più a fondo nell’analisi dell’oppressione femminile, il pensiero antispecista può aiutare a spiegare perché molte forme di oppressione sono radicate, come si riproducono, come si “naturalizzano”, ecc. Per esempio, il meccanismo dell’animalizzazione, che è uno dei punti centrali delle “nostre” riflessioni, può dire molto sull’oppressione razziale, sessuale e su come funziona oggi il capitalismo. Specularmente, dovremmo fare attenzione, secondo me, a proporre analisi semplicistiche di alcuni fenomeni quando persino in ambienti ben più navigati non esiste affatto un consenso generale sull’interpretazione da dare. Mi riferisco per esempio a quando dici: “esistono particolari settori di sfruttamento in bilico tra tradizioni e modernità. Se le prime lo implicano, la seconda può accettare il loro abbandono. In questo quadro si può lottare per l’eliminazione (ma sarebbe meglio dire “per l’accelerazione dell’eliminazione”) di settori di sfruttamento “non necessari” che continuano a essere mantenuti per inerzia.” Perché inventarci un dibattito su questo ambito quando gli attivisti LGBT da tempo, come puoi immaginare, si chiedono se la famiglia tradizionale o l’eterosessualità obbligatoria siano davvero istituzioni residuali che sopravvivono “per inerzia”? Secondo alcuni, al contrario, il capitale si appoggia, in vario modo, ad esse, per perpetuarsi, ed è per questo che, lungi dallo scomparire, sono sempre lì, talvolta un po’ decentrate ma pronte a ritrovare nuova linfa se serve.
Insomma, come dice Fragano: “diversamente da Sottofattori, credo però che ritornare sui nostri passi non sia del tutto corretto né sufficiente, probabilmente servirebbero strumenti teorici meno impattanti sia sulla nostra lotta, sia su quella delle altre realtà con le quali intendiamo relazionarci”. Solo che io credo che uno strumento teorico molto utile sia proprio l’intersezionalità (e non la sua brutta caricatura), proprio perché permette di indagare le interconnessioni senza presupporre a priori una superiorità storica o ontologica o politica di un’oppressione o di un asse rispetto ad altri. Il fatto che al momento la modalità di utilizzo di questo strumento sia a dir poco maldestra è certamente un punto centrale da rilevare, così come il diffuso disinteresse degli “altri movimenti” per la liberazione animale (le prime a lamentarsi in continuazione di questo aspetto sono proprio le femministe antispeciste “intersezionali”, guarda caso). Ma non credo che giustifichi il fatto di “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, diciamo. Il che, però, non significa neppure che un rinnovato focus sullo sfruttamento dei nonumani non sia importante, come accade per ogni lotta che ha degli aspetti “settoriali” e degli aspetti più globali.
Un caro saluto!
Marco Reggio
Ho letto con molta attenzione, ed effettivamente nel testo di Sottofattori ci sono molti spunti interessanti. Una prima osservazione che vorrei fare è che la parte politica, culturale e sociale che dovrebbe far proprie le tesi dell’antispecismo, ovverosia la sinistra, nelle sue varie articolazioni di lotta per l’emancipazione umana in vari campi, è indubitabilmente molto lontana da una visione antispecista. Il campo d’azione della sinistra è da sempre esclusivamente quello umano, e tanti che si dicono appartenenti a tale parte politica, che è poi da sempre anche la mia, sono tra i più fieri oppositori al riconoscimento delle altre specie animali come depositarie di diritti inviolabili, primo fra tutti quello alla vita. Ho avuto modo di constatare personalmente quale profondo divario esista tra una visione politica che sostiene l’emancipazione della specie umana dalla schiavitù e dalla povertà e nega quella delle altre specie animali, quando, alle elezioni politiche dell’anno scorso, tentai di organizzare un incontro pubblico tra i rappresentanti di una delle formazioni della sinistra, Potere al Popolo, e rappresentanti del mondo antispecista. L’incontro non si tenne per una serie di circostanze avverse, di carattere soprattutto climatico, ma ebbi modo di vedere da vari interventi di persone che commentarono l’iniziativa da svolgersi che lo specismo era ancora ben vivo e vegeto tra coloro che seguivano quel Partito e la sinistra in generale. Detto questo, se da un lato è vero che concentrarsi solo sulle lotte per l’emancipazione delle altre specie animali potrebbe portare nell’immediato a qualche risultato apprezzabile e duraturo per quanto riguarda la nostra lotta per interposta persona di antispecisti, dall’altro lato uscire da una visione generale dei rapporti tra sfruttatori e sfruttati, tra chi ha il potere e chi lo subisce, a qualsiasi specie appartengano gli sfruttati sia miope e controproducente. Non mi interessa molto il dibattito teorico, così come non mi interessano i nomi da dare ai processi e alle teorie, siano questi nomi “intersezionalità” o “interdiscorsività”; a me interessa cercare il modo più rapido ed efficace per far arrivare alle persone, in particolare a quelle che sono più sensibili alle tematiche di liberazione umana, il messaggio della teoria antispecista, il suo ruolo di movimento di liberazione totale degli sfruttati, il suo essere non solo contro lo specismo ma anche contro il capitalismo, vera piaga della nostra umanità e del nostro modo di intendere i rapporti tra esseri umani e tra esseri umani e altre specie animali. Bisogna fare presto, perché continuano a morire ogni giorno esseri umani nelle guerre, di fame, in mare o nei campi di detenzione, e milioni di animali di altre specie vittime dell’egoismo umano. Come fare? I dibattiti teorici sulle definizioni da adottare e le conseguenze di tali definizioni sono dibattiti tra addetti ai lavori; nella pratica servono informazioni, lotte concrete, esempi personali e collettivi, attraverso ogni mezzo possibile: nella vita reale, sui social, nelle scuole, sui mezzi di informazione, con proiezioni, video, foto, scritti, e tutto ciò che può essere efficace nella divulgazione.
Ciao Vincenzo,
Prima di tutto grazie per aver condiviso la tua esperienza personale. Vorrei far notare che questo dibattito virtuale e teorico è stato concepito proprio per “cercare il modo più rapido ed efficace per far arrivare alle persone” il messaggio antispecista, non si tratta quindi di mera accademia, ma di riflessioni utili all’individuazione di nuove strategie.
La tragedia animale ha proporzioni enormi, abbiamo l’obbligo morale di agire e subito, ma per farlo è necessario capire come.
Per Marco. Intanto grazie per le tue puntuali osservazioni. Le peserò con la dovuta attenzione.
Ciao!
aldo
grazie. in linea con alcune riflessioni che ho fatto ultimamente, è difficile fare percorsi comuni tra specisti e antispecisti. la prossima settimana credo che andrò alla sabba queer antispecista transfemminista, una realtà seguita fin ora solo da lontano, per farmi un’idea se l’intersezionalità è di questo mondo o se è una meravigliosa ma poco impattante “fuga in avanti”. saluti da asti :)
Ciao Azza,
I percorsi comuni sono sempre difficili, se poi a provarci sono soggetti antispecisti e soggetti specisti la questione diventa davvero ardua, ma non impossibile. E’ proprio da ambienti di lotta per la liberazione umana che provengono la maggior parte delle persone umane antispeciste, questo però non significa affatto che l’ambiente da cui queste persone umane provengono sia disposto ad accettare le istanze antispeciste.
Fai molto bene a seguire le realtà che ti interessano, potrai toccare con mano ciò di cui stiamo parlando e farti una tua idea al riguardo, ma anche incontrare soggetti realmente interessati a una condivisione delle lotte.
Ciao Marco,
Rispondo ovviamente alle parti del tuo commento che mi vedono coinvolto direttamente.
Per quanto riguarda “il fallimento del tentativo di allargamento del fronte delle lotte di liberazione intraumane anche alla questione animale”, la considerazione si rifà ad un dato oggettivo (ossia la mancanza di una risposta da parte di ambiti di lotte di liberazione intraumana), ciò non intacca l’idea intersezionale, ma dimostra che la sua adozione in questo momento storico e in questa società umana, non è opportuna ed efficace. Giustamente tu fai notare che i tempi per l’accettazione di una reale intersezionalità possono essere molto lunghi – si parla addirittura di un secolo – ma considerando l’attuale situazione di schiavitù animale (sempre più esasperata) e le evidenti conseguenze catastrofiche e velocissime dell’azione antropogenica sull’ambiente, sulle specie viventi e sul pianeta, una prospettiva temporale per l’accettazione di cui sopra anche solo di 50 anni sarebbe del tutto fallimentare, proprio per i suoi tempi di attuazione.
Il problema dell’assenza di “un ampio dibattito pubblico” sul rapporto tra intersezionalità e antispecismo, non deve stupire affatto: nel nostro ambiente – purtroppo – la mancanza di un confronto diretto, aperto e sincero è la norma, non certo l’eccezione. Il mancato confronto sulla teoria intersezionale rappresenta solo l’ultima occasione perduta di una lunga serie che ormai quasi nessuno ricorda per intero. Quindi se vi sono gravi inesattezze sulla diffusione dell’idea intersezionale in ambito antispecista, la colpa è senza dubbio di chi la diffonde in modo errato, ma anche di chi l’ha proposta e/o di chi ne possiede una corretta chiave di lettura, ma che ha evitato di esplicitarla in un dibattito pubblico aperto a tutte le anime antispeciste.
L’interdiscorsività proposta non è una “brutta copia” dell’intersezionalità, ma uno strumento teorico diverso e alternativo. Non si deve considerarlo una sorta di depotenziamento della teoria intersezionale. L’interdiscorsività ha il pregio di essere trasversale e di poter essere utilizzata in ogni argomentazione (anche la più banale), è molto spesso un concetto usato per eseguire un’analisi, o ricontestualizzare un discorso o un’idea; per questo motivo trovo l’interdiscorsività sufficientemente potente e al contempo neutra e duttile per poter avere successo.
Parlo di neutralità perché la reputo fondamentale in questo momento e in questa situazione in cui ci troviamo. L’interdiscorsività a seconda delle interpretazioni può essere ideologica o neutra (ma attraverso di essa si possono chiaramente veicolare delle ideologie), Michel Foucault è un assertore della sua neutralità e la considera come un mezzo o un concetto più aperto per analizzare le varie forme discorsive.
Un discorso non è mai isolato, non esiste di per sé, ma in un modo o nell’altro è sempre collegato ad altri discorsi attraverso (appunto) l’interdiscorsività: è questo il punto di forza che vorrei evidenziare, non si tratta di intersezionalità, ma di un metodo generale e non schierato, utile a creare collegamenti di idee e reti di discorsi necessari (nel nostro caso) per avvicinare le varie e diverse lotte di liberazione. Insomma la neutralità e il minimo impatto dell’interdiscorsività potrebbe aprirci finalmente le porte per una futura intersezionalità “matura” o “corretta” (e condivisa), o per una situazione nuova che non la preveda affatto, in ogni caso ci permetterebbe di confrontarci con gli altri senza perdere di vista la nostra identità, riportando gli Animali al centro dell’attenzione antispecista.
Adriano Fragano
Ciao Adriano, rispondo brevemente punto per punto, partendo dall’ultimo perché mi preme sciogliere un equivoco. Quando dici “l’interdiscorsività proposta non è una “brutta copia” dell’intersezionalità” ti riferisci, credo, all’espressione “brutta caricatura” che ho usato nel mio messaggio. Tuttavia, questa espressione (in effetti era equivocabile) non si riferiva affatto all’interdiscorsività. Si riferiva, invece, a quella “cosa” descritta da Aldo come intersezionalità e che, a mio parere, ne costituisce appunto una caricatura, o una brutta copia, se preferite. Anzi, proprio per questo, non credo neppure – ma lo dico senza certezze perchè ne so poco di interdiscorsività – che l’interdiscorsività sia da considerarsi in “alternativa” all’approccio intersezionale: nulla vieta che si utilizzino entrambi. E si potrebbe approfondire la proposta, certamente.
Riguardo invece al primo punto, in linea di massima concordo. Tuttavia, non vedo soluzione. O meglio, credo che il problema sia mal posto. Ovviamente, un certo tipo di lavoro di dialogo richiede tempo, così come richiede tempo inevitabilmente il superamento dello “scoglio antropocentrico” o di qualsiasi cosa equivalga ad esso, ma questo non impedisce di “avere fretta” sulle cose concrete, ponendo con urgenza la questione dello sfruttamento animale. Credo siano piani diversi.
Sul secondo punto, qui la questione è davvero mal posta. Parli come se esistesse una paternità o una responsabilità nella diffusione di un metodo o di un approccio. Questo metodo – il metodo intersezionale – non appartiene a nessuno. Ha al contrario una sua storia, che affonda le radici nei movimenti femministi, lesbici e neri (e per di più solo di alcuni paesi, inizialmente), ed è lì per essere utilizzata, se lo si crede, anche dagli antispecisti/e. Ovviamente chi la ritiene utile la usa, e magari la usa male, o la intende male. Chi la vuole usare – come il marxismo, l’anarchismo o l’interdiscorsività – può andare a leggersi i testi che servono, farsi un’idea, rielaborarla, ecc. E ovviamente si può criticare l’adozione di questo approccio, purchè si parli di esso e non di altro, come fa secondo me Aldo. E si può anche criticare il modo in cui si cerca un dialogo con altri movimenti agitando questa parola d’ordine ma di fatto “pervertendola”, il che peraltro – chi frequenta davvero altri movimenti lo sa bene – è oggetto di dibattito proprio in quegli ambiti in cui l’intersezionalità è “di casa” (c’è un grande fermento di critica alla piega che ha preso l’intersezionalità, in ambito transfemminista queer, per esempio). Si tratta in fondo di uno strumento che proviene da altri movimenti, e credo sia scorretto parlarne senza conoscerlo. Allo stesso modo in cui – spesso avviene – attivisti antropocentrici ci rimproverano di voler offrire strumenti che provengono dall’antispecismo criticando tali strumenti senza di fatto averli studiati un minimo. Quando succede, lo trovo fastidioso, perchè, diciamo, io ti sto “offrendo” uno strumento per le tue lotte o le lotte comuni, e non ha senso che lo rigetti senza conoscerlo solo perchè (di solito è questo il vero motivo) hai un pregiudizio specista. Tornando all’intersezionalità, credo invece che le questioni da porsi siano principalmente due: 1) questo strumento elaborato da ambiti tutto sommato circoscritti e che si sta rivelando prezioso anche in altri, può essere utile per l’antispecismo (prima ancora che per i rapporti fra l’antispecismo e le altre lotte)? 2) Perchè il suo “allargamento” al privilegio di specie è così difficile da digerire? Si tratta degli stessi motivi comuni a qualsiasi messa in discussione del privilegio di specie – per intenderci, gli stessi per cui per esempio le persone non diventano vegan – o c’è qualcosa di strettamente collegato al metodo intersezionale in sè? o di collegato a una sua distorsione (già denunciata ben prima di un tentativo di allargamento alle questioni di specie)?
Nessuno di noi sta mettendo in dubbio che occorra un grande sforzo di elaborazione teorica per poi poter agire in modo consapevole ed efficace; quello che alcuni di noi, compreso me, stiamo dicendo è che secondo noi discutere sulle differenze tra “intersezionalità” e “interdiscorsività”, se da un lato può essere interessante per poche persone, dall’altro rischia di assorbire energie che potrebbero essere dedicate ad una più capillare diffusione dell’antispecismo. Diamo forse troppo per scontato che la gente comune sappia che cos’è l’antispecismo e ci addentriamo in discorsi che sono alla portata di poche persone. Io credo invece che lo sforzo maggiore da parte di chi crede nell’antispecismo come teoria e metodo per superare disuguaglianze, ingiustizie, razzismo, sessismo e specismo debba essere quello di una più capillare diffusione di questo modo di concepire i rapporti tra esseri umani e tra esseri umani e altre specie animali. Bisogna far capire alle persone che nel termine “antispecismo” c’è compreso tutto, e che le lotte settoriali possono e debbono avere luogo, ma sempre inquadrate in un contesto in cui la sofferenza di alcuni deve essere la sofferenza di tutti, e qui entra in gioco il problema dei rapporti tra animali umani e animali di altre specie. Abbiamo la certezza che chi lotta per i diritti delle donne sia contrario alla liberazione animale, o chi lotta contro le discriminazioni razziali sia contrario alla liberazione animale? Sicuramente no, anche se sappiamo tutti che ci sono notevoli problemi nel far rientrare la lotta per la liberazione degli animali non umani all’interno delle giuste lotte per la liberazione degli esseri viventi in toto, ed allora concentriamoci su questo, sulla diffusione, attraverso video, foto, scritti, tutto ciò che può documentare le ingiustizie nei confronti degli animali non umani, così come viene fatto per gli animali umani. E’ un percorso lungo, ma credo che la consapevolezza delle ingiustizie dello specismo stia cominciando a fare breccia in un numero sempre più grande di persone. Non facciamo discorsi filosofici sull’antispecismo, ma cerchiamo di renderlo sempre più semplice e comprensibile per riuscire a penetrare nelle menti e nei cuori delle persone.
Ciao Vincenzo,
Il punto focale del discorso è proprio questa frase che tu scrivi nel tuo commento: “Bisogna far capire alle persone che nel termine “antispecismo” c’è compreso tutto”.
Per poter “far capire” alle persone umane speciste che nell’antispecismo è compreso tutto, è indispensabile per prima cosa avere le idee chiare sulla teoria antispecista e sulle strategie per comunicarla agli altri, se ciò non avviene non riusciremo mai a far capire a chi non è antispecista che in questa filosofia è compreso tutto come dici tu.
In questa logica anche discorsi come questo avviato su veganzatta sono molto utili, perché avere l’idea giusta e veicolarla nel modo sbagliato o meno efficace o più complicato, rappresenta un danno per la causa che si intende promuovere.
Abbiamo bisogno di modi, strategie e strumenti semplici, veloci ed efficaci.
Ciao Marco,
Grazie per aver specificato, in effetti pensavo che stessi parlando dell’interdiscorsività.
Ne approfitto per fare anche io una puntualizzazione: con la frase “uno strumento teorico diverso e alternativo” non ho espresso correttamente il mio pensiero.
In realtà non intendevo dire che l’interdiscorsività possa essere un’alternativa all’intersezionalità, ma uno strumento teorico diverso e alternativo nel senso che può fungere da collegamento con le altre lotte mediante vie più semplici e immediate rispetto a quelle in vario modo percorse attualmente.
Ciò che è indispensabile sia chiaro a tutti è che l’intersezionalità è una teoria e ha un suo impianto ideologico e una sua ben precisa collocazione storica, culturale e sociale,mentre l’interdiscorsività è semplicemente un metodo di indagine e di analisi dei discorsi e delle relazioni tra di essi. Mentre l’intersezionalità ha una sua precisa funzione e deriva da una particolare visione delle lotte di emancipazione umana, l’interdiscorsività è un metodo neutro che può essere utilizzato in ogni argomento (anche il più stupido e lontano da quelli da noi trattati).
Quando l’antispecismo propone delle similitudini o collegamenti tra il trattamento che riserviamo agli Animali e quello nei confronti ad esempio dei neri o delle donne in ambito umano, si attua un semplice e diretto interdiscorso, lo stesso vale per collegamenti discorsivi in ambito intersezionale. L’interdiscorsività è quindi parte del bagaglio antispecista e intersezionale (non sono cose separate), non essendo una teoria ma semplicemente un metodo strategicamente utile, risulta più “accettabile” nella sua utilizzazione rispetto all’intersezionalità. Soprattutto proprio in quanto mera metodologia, permette alle parti di non rinunciare alle proprie specificità: nel nostro caso quindi ci permetterebbe di continuare ad essere antispecisti e di continuare a tenere il focus sugli Animali che è la questione assolutamente più importante di tutta questa vicenda.
Per quanto concerne il primo punto, tu parli di “piani diversi”, ciò può essere possibile solo se ci sono approcci molteplici e di pari dignità alla risoluzione del problema dello sfruttamento animale, ma se si intende incanalare la teoria contemporanea antispecista – come pare stia accadendo da tempo – verso un unico filone che diviene totalizzante (che è quello intersezionale), allora le cose si complicano e si ricade nel problema che ho evidenziato (quello del tempo e della contingenza di cui tener conto).
Lo “scoglio antropocentrico” o come lo si vuole chiamare, è chiaramente il problema fondamentale. Su questo si può (anzi si deve) discutere parecchio, ma è un problema enorme e generale che riguarda l’intera società umana, mentre strategicamente ora (nell’immediato) punterei sull’interdiscorsività (o su qualsiasi altro metodo simile) per attrarre persone umane recettive, in modo da far crescere numericamente l’ambiente antispecista per fargli acquisire un peso sociale che ora non ha.
Secondo punto: tu scrivi che il metodo intersezionale “non appartiene a nessuno”, non ho certo affermato che appartenga a qualcuno, ma di sicuro è stato introdotto nell’ambito antispecista da qualcuno, ossia qualcuno ha preso l’iniziativa di proporlo e di adottarlo (di farlo transitare dall’ambito specista a quello antispecista). Ciò fa parte delle normali dinamiche di evoluzione di un pensiero. L’ambito storico della teoria intersezionale non c’entra con quanto stiamo dibattendo. Ciò a cui si fa riferimento non è la giustezza (ribadisco non messa in discussione) della teoria, o la sua storia o le sue premesse, ma la sua adozione in ambito antispecista come “viatico” per proporre la visione antispecista anche ad altri ambiti di lotta intraumani in questo momento storico e in questa società umana.
Sulla questione che la teoria intersezionale sia usata correttamente o meno, come dicevo dipende dal fatto che chi (vedi sopra) ha pensato di introdurla in ambitro antispecista, non ha voluto/potuto/saputo avviare un doveroso dibattito sull’argomento per permettere all’ambito antispecista di metabolizzarla, oppure potrebbe anche essere che l’ambiente antispecista non fosse ancora pronto per recepire questo tipo di messaggio. Il fatto che poi ci sia chi la usa male o a sproposito, è una diretta conseguenza di quanto detto.
Sulle due domande che poni:
1) Senza dubbio la teoria intersezionale è utile per l’avanzamento teorico dell’antispecismo, ciò che non è utile – come affermato nel testo di Sottofattori e nelle mie considerazioni a seguire – è il suo utilizzo come “strumento” per stimolare l’interconnessione delle lotte con ambiti specisti nella società umana contemporanea, inoltre non è utile il fatto che l’intersezionalità non sia uno strumento, ma qualcosa di ben più complesso – come tu stesso puoi testimoniare – che necessita un processo di comprensione e assimilazione da parte di tutti (antispecisti per primi). Sono infine convinto che una reale interconnessione tra le lotte di liberazione umana e antispecista ad oggi purtroppo non sia possibile (o sia possibile solo per piccolissime realtà), mentre l’avvio di un dialogo attraverso alcuni discorsi comuni e punti di incontro e contatto con le realtà speciste, sia non solo possibile ma urgente. Insomma serve costruire “ponti” e non “incroci”.
2) l'”allargamento” al privilegio di specie della teoria intersezionale non è “difficile da digerire” perché non lo si contesta nel merito. Dobbiamo però arrenderci all’evidenza che saremo costretti a procedere in solitudine in questo momento storico in cui lo specismo permea ogni cosa e ogni pensiero, questo per fornire risposte rapide alla tragedia animale e per preservare l’identità antispecista e l’attenzione sugli Animali. Quindi in estrema sintesi servono metodi e strategie neutre, semplici e dirette, non teorie.
Ciao ragazzi, vorrei lasciare alcuni spunti di riflessione, a partire a una frase che qui riporto: “La teoria intersezionale, accettata pienamente dall’ultimo antispecismo, indica nell’uomo bianco, benestante, eterosessuale, in salute il soggetto che ha generato le classificazioni binarie con l’intento di stabilire un alto e un basso; in definitiva, la strutturazione gerarchica che ha instaurato il complesso delle oppressioni.”
L’uomo bianco moderno non è migliore ne peggiore di alcun altro uomo di qualunque tempo o colore. Cambiano le forme ma la sostanza resta: nell’essere umano vi è un lato egoista e crudele innato che non è altro che la riproduzione umana di una legge della natura, cioè la legge del più forte. E questo lato ha contribuito a plasmare tutte le società e le culture esistiti. L’uomo di ogni tempo e spazio è sempre stato sostanzialmente cinico e specista (e razzista e violento e sfruttatore).
Lo specismo (come del resto il razzismo) non è un fatto filosofico, culturale o politico; casomai si riflette poi nell’elaborazione culturale, filosofica e politica. Piuttosto, esso è una condizione innata nella psiche umana, che si manifesta nel senso di appartenenza ad un determinato gruppo, che sia esso la famiglia, il luogo di dimora, la patria, la classe sociale, il gruppo etnico, etc etc, e infine certamente la specie umana nel suo insieme. Tutto ciò che fa parte del gruppo di appartenenza è “buono” e tutto ciò che è fuori è inferiore e perciò può essere impunemente sfruttato.
Si può definire questo sentimento come ego collettivo, estensione sociale dell’ego individuale.
Vorrei ricordare il fatto che l’essere umano possiede almeno due cervelli (in realtà anche di più ma ai nostri fini questa distinzione può bastare), cosa spesso dimenticata, uno logico e l’altro emotivo, e che non parlano la stessa lingua, e che l’egoismo, la crudeltà, l’ego, il senso di appartenenza, il desiderio di dominare – tanto quanto l’amore, l’empatia e la compassione – appartengono al cervello emotivo e non a quello razionale; e che nessuna argomentazione razionale, per quanto perfetta ed impeccabile, sarà mai in grado di modificare questi sentimenti.
Non è dunque un problema di logica ma di sentimenti.
E se leggendo queste righe vi verrà da pensare “si, ma… “, allora state dimostrando esattamente quello che voglio dirvi: io sto comunicando secondo argomentazioni razionali, senza usare alcun fattore suggestivo rivolto al cervello emotivo, e perciò è probabile che la vostra mente accetti solo marginalmente quello che stare leggendo.
Questo accade normalmente, perchè cambiare le proprie convinzioni ed i propri punti di vista è un atto che cozza contro il proprio senso di identità, che su di essi si radica, cioè un fatto che suscita emozioni negative. A meno di non essere guidati a ciò da argomenti suggestivi che colpiscano direttamente il cervello emotivo…
Immaginate quanto tutto questo possa influenzare l’azione di chi cerca di cambiare gli altrui comportamenti. Occorre risvegliare i sentimenti superiori di amore, empatia e compassione, e non argomentare razionalmente. Solo così i comportamenti cambieranno in modo spontaneo ed irreversibile. Ma portare l’essere umano ad evolvere i propri sentimenti non è un problema politico ne filosofico; casomai, è un problema psicologico e spirituale. E come tale va risolto.
Perchè vi scrivo queste cose? Semplicemente perchè vorrei suggerirvi che chi lotta per l’antispecismo, se invece di perdere tempo a porsi sterili questioni di appartenenza e di schieramento politico, si ponesse il problema centrale di ottenere una comunicazione efficacie sul piano emotivo, attraverso uno studio accurato della mente umana e dei suoi livelli di comunicazione, probabilmente si farebbe molta più strada e molto più rapidamente.
Un saluto
Ciao Eddy,
Sono convinto che lo specismo sia (anche) una caratteristica innata della nostra specie. Nel mio libro “Proposte per un Manifesto antispecista” a pagina 24 scrivo “Va infine evidenziato che, se la società umana si è sviluppata secondo determinate linee guida caratterizzate da ideologie e prassi di dominio quali lo specismo, se ne può dedurre che probabilmente lo specismo stesso abbia delle radici ben più profonde (di natura antropologica) di quelle fino a ora analizzate, non solo quindi sociali e storiche: è opportuno pertanto parlare anche di un specismo antropologico”.
Quella che tu chiami quindi “condizione innata” io lo chiamo “specismo antropologico”, ad esso però vanno aggiunte le componenti filosofiche, culturali e sociali che NON sono affatto secondarie (al contrario) e che sebbene scaturiscano da questa tendenza della nostra specie, hanno preso nel tempo il sopravvento essendo la nostra una specie sociale e basata su profondi condizionamenti culturali.
Bisogna sempre ricordare che la visione antropocentrica dell’eccezionalità della nostra specie rispetto alle altre, deriva da una elaborazione teorica e culturale ben precisa.
Quindi lo specismo è una caratteristica della nostra specie, ma anche un paradigma creato e alimentato da filosofia, cultura, società e politica.
“Tutto ciò che fa parte del gruppo di appartenenza è “buono” e tutto ciò che è fuori è inferiore e perciò può essere impunemente sfruttato.” assolutamente corretto e rispondente alla situazione attuale, ma questa questione di esclusione del diverso, deriva da esasperazioni culturali di nostre predisposizioni o caratteristiche di specie. Come tutte le specie animali, anche noi abbiamo elementi negativi e positivi per quanto riguarda il nostro atteggiamento verso gli altri, possiamo dire che la società umana si è “evoluta” secondo direttrici speciste e non verso la predisposizione all’inclusione, alla tolleranza e all’empatia che pure sono elementi presenti nella nostra specie.
I due cervelli di cui parli, rientrano nelle considerazioni fatte da Sottofattori: il “cavernicolo” di cui parla usa proprio ed esclusivamente la parte emozionale e più antica del nostro cervello, e si fa guidare da istinti che vuole assolutamente appagare. E’ altresì vero che la parte emozionale a cui fai riferimento (quella positiva legata all’empatia, compassione ecc..) fanno parte del cervello emozionale, o della parte emozionale del nostro cervello, di conseguenza entrano a pieno titolo nella teoria antispecista: l’antispecismo senza emozioni e sentimenti verso gli Animali e verso una visione più giusta del nostro rapporto con loro, rimane solo una teoria vuota e sterile. Sono assolutamente persuaso che abbiamo il dovere non solo di ascoltare la nostra parte sentimentale, ma di coltivarla. L’empatia e la compassione si imparano, come pure la crudeltà.
Tornando a noi, posso dirti che una comunicazione interdiscorsiva (che crea ponti, contatti, similitudini, assonanze tra discorsi diversi) può essere molto utile per sviluppare anche una comunicazione efficace sul piano emotivo, questo perché avvicina e non tiene distinte le parti.
Sono stata diverse volte in centri sociali, femministi (Casa Internazionale delle Donne a Roma), gay ed è veramente dura far accettare la filosofia antispecista. Se si parla con il singolo, interdiscorsività, alla fine si riesce ad ottenere il consenso ma questo, quasi sempre, dura solo l’arco della conversazione. Purtroppo si sottovaluta la forza predominante del secondo cervello, lo stomaco. Ciò non toglie che sia comunque importante insistere, continuare a parlarne, scriverne, divulgare quanto più possibile.
Infatti sono proprio queste singole persone umane predisposte e disponibili ad accettare l’idea antispecista che devono essere (per il momento) il punto di contatto e le destinatarie del messaggio antispecista, non gli interi ambienti di lotta intraumana.
Vorrei anche un attimino “contestare” questa sorta di certezza di un “fallimento” nelle interconnessioni e nei rapporti fra lotte. La percezione di questo aspetto è molto più controversa e ondivaga di quanto sembra emergere dalle parole di Adriano e Aldo. Viviamo di fatto un’alternanza di (giustificatissime) “lamentele” antispeciste perchè, a fronte di grandi sforzi, in molti ambienti sembra che poi la questione interessi poco, e momenti di ottimismo, se non entusiasmo legai ad altri ambienti, altre occasioni, ecc.. Credo sia innegabile siano stati fatti passi avanti (il metodo intersezionale non necessariamente ha dei meriti). Alcuni ambiti sono più interessati, e più genuinamente, di altri. Bisogna però frequentarli davvero per saperlo, non parlare sul piano teorico. Su alcuni ambienti non saprei dire, perchè ne ho poca esperienza, e la mia sensibilità mi porta ad esservi meno vicino, e quindi nella pratica (che come dicono alcuni qui sopra è ben più importante della pura teoria e anche di un “corretto” modo di intendere il metodo intersezionale) non saprei come interloquire. Ma per es. nell’ambiente transfemminista queer, in alcuni casi il quadro è deprimente, in altri promettente. Ci sono gruppi, come l’assemblea queer di Torino, che il prossimo weekend organizza una 3 giorni transfemminista ed esplicitamente antispecista a Venaus, che hanno fatto proprio (non senza contraddizioni) l’interesse per l’antispecismo, ben più della semplice adozione di una cucina vegan negli eventi pubblici (cosa che si fa diffondendo negli spazi sociali e di lotta, peraltro). Questo, e altro, mi porta a pensare che più che il metodo intersezionale in sé o la teorizzazione dei nessi profondi fra temi, smuovano di più i nessi concreti, puntuali, talvolta approssimativi fra le lotte, in cui però bisogna mettersi in gioco ed essere genuinamente interessate/i ad altro che non sia la liberazione animale. Proprio per questo rilevo che questo approccio “noi”/”loro” sia davvero fuorviante. Anche personalmente, per quanto io comprenda l’esistenza di una sorta di identità antispecista, il mio posizionamento è dato da molteplici aspetti, e questo vale per tanti. Diamo troppo per scontato, implicitamente, che in quanto antispeciste/i non possiamo essere: non bianchi, non etero, non cisgender, non della classe media, non abili, ecc.. Probabilmente perchè storicamente il movimento antispecista è stato sempre trainato da bianchi, etero, maschi, ecc. ecc. Ma la realtà poi è diversa. Quindi, davvero, proviamo a ragionare meno come “noi” e “loro”. Fra i “noi”, ci sono anche tutti quei soggetti che comprendono l’ingiustizia della condizione animale, ma a livello identitario possono sentirsi più di appartenere alla comunità gay (per fare un esempio banale) perchè sono gay e lì hanno lottato, sopravvissuto finora. Ma questo non impedisce di essere antispecisti, o di essere solidali, vicini, in un processo di acquisizione di consapevolezza, e così via.
E’ corretto quel che dici sulle esperienze personali e sul fatto che si debbano frequentare e conoscere gli ambiti di cui si intende parlare (e/o criticare).
Ciò che però vorrei sottolineare è che sarebbe importante capire se si parla da antispecisti e da attivisti di alcune lotte di liberazione intraumane, oppure da attivisti di alcune lotte di liberazione intraumane e da antispecisti. Queste due prospettive che paiono di poco conto, sono invece di capitale importanza per poter trovare un piano comune di confronto in ambito antispecista.
In questa logica si inserisce il “noi e loro”, che non è propriamente un “noi”, né vuole essere un “noi/loro”.
L’antispecismo non dovrebbe essere considerato contrappositivo nei riguardo delle lotte di liberazione intraumane, ma nemmeno dovrebbe essere completamente accomunato ad esse.
L’antispecismo non è una delle tante lotte di liberazione del vivente in una logica di liberazione totale, ma la lotta di liberazione di milioni di specie non umane (c’è chi parla di quasi 9 milioni), una lotta che in alcuni casi si può confrontare e rapportare alle molte lotte di liberazione riguardanti la sola specie umana.
Con ciò non voglio dire che l’antispecismo sia una lotta più importante delle altre (anche se per quanto mi riguarda lo è), ma solo affermare che possiede delle caratteristiche che non la rendono paragonabile ad altre lotte che riguardano in definitiva sempre e solo questioni interne alla specie.
Tu scrivi «Fra i “noi”, ci sono anche tutti quei soggetti che comprendono l’ingiustizia della condizione animale, ma a livello identitario possono sentirsi più di appartenere alla comunità gay (per fare un esempio banale) perché sono gay e lì hanno lottato, sopravvissuto finora».
Benissimo, così deve essere perché siamo Umani e immersi in una società umana in cui esistono violenza, discriminazioni, tensioni, ingiustizie e frammentazioni. I soggetti di cui tu parli sono persone umane antispeciste che lotta anche per i diritti civili dei gay perché loro stesse sono gay e si sentono direttamente coinvolte, ciò però non significa che automaticamente il mondo antispecista e quello gay si debbano fondere, perché sono lotte sostanzialmente diverse. Le persone di cui sopra possono lottare per la liberazione degli Animali dalla schiavitù umana e al contempo per il riconoscimento dei diritti civili dei gay, queste due lotte però, non sono perfettamente sovrapponibili. Nel primo caso i soggetti beneficiari della lotta (peraltro da loro non richiesta) sono Animali non umani a cui interessa solo essere liberi di vivere la loro esistenza possibilmente lontani da noi Umani e dalla nostra società schiavista, nel secondo caso i soggetti beneficiari della lotta sono gli attivisti stessi (in quanto gay) che desiderano una completa e paritaria inclusione nella società umana. A livello concettuale (interdiscorsivo) ci possono essere molti punti di contatto con le due lotte, nella pratica le strategie (e le finalità) sono ben diverse.
Molto brevemente, io penso questo: nei dibattiti interni al movimento di liberazione non si tiene mai sufficientemente presente un semplice fatto, e cioè che la vita umana sia sempre stata esaltata, nella storia, come l’unica in grado di esprimere l’autorelizzazione secondo criteri prestabiliti di autonomia. L’autonomia implica la nozione di libertà di autodeterminazione e di scelta delle proprie azioni. Chi ne è privo, seppur forzosamente, sia esso un individuo o un atto, viene kantianamente svuotato di valore intrinseco. Quest’idea, purtroppo ancora molto pervasiva, persiste anche all’interno dei movimenti di affrancamento sociale che stentano ad estenderla oltre le cerchia della propria competenza. Correntemente tutto ciò che si rivela vulnerabile e non autonomo viene automaticamente allineato all’animalità ( compresi i non autonomi umani. donne, vecchi, bambini, poveri, malati, disabili ecc…) ma è proprio lì che bisogna insistere, per far nascere proficue alleanze, ora che il movimento di liberazione ha dimostrato che gli animali hanno forti preferenze ed operano scelte che le riflettono. E così, come non è necessario che un essere umano possieda l’automia per ricevere il rispetto che gli è dovuto, non vi è giustificazione per considerare l’autonomia come una sorta di corrispettivo laico dell’anima immortale per manipolare o distruggere impunemente vite animali. Tutto il resto, pacifismo , ecologismo, stili di vita compassionevoli, sono del tutto marginali e quasi irrilevanti al fine di strutturare socialmente la liberazione animale. Riassumendo: il nodo da sciogliere, secondo me, è il concetto di autonomia come discrimine per l’esercizio dello sciovinismo.
Grazie Aldo, bell’articolo!
Ciao Cristina,
Il tuo commento mi fornisce il pretesto per una piccola precisazione, che non riguarda direttamente te, ma un discorso generale. L’antispecismo e il movimento di liberazione animale certamente si rifanno a concetti di autodeterminazione dell’individuo (in questo caso non umano), ma tali concetti non sono fondamentali né vincolanti. L’enorme varietà e complessità del mondo animale è tale che lo stesso concetto di autodeterminazione si sfuma e diviene non più preciso come in ambito umano. Ti faccio un esempio pratico per intenderci. I Coralli sono piccoli polpi che vivono in colonie fisse sul fondo marino, la loro mobilità è limitatissima e il loro contatto con il mondo esterno davvero diverso dal nostro (che predilige la vista), parlare di autodeterminazione dei polpi dei Coralli risulta davvero arduo per via delle enorme differenze biologiche e fisiologiche che ci separano, eppure anche loro sono Animali e anche loro ricadono in quel “magma” che tendiamo – da antispecisti – di liberare.
Tu scrivi “ora che il movimento di liberazione ha dimostrato che gli animali hanno forti preferenze ed operano scelte che le riflettono”.
Il punto è che il movimento di liberazione animale non dovrebbe dimostrare proprio nulla, non serve dimostrare che anche gli altri Animali operano scelte individuali per poterli rispettare, come non serve al movimento femminista dimostrare che le donne hanno pari capacità intellettive rispetto agli uomini per esigere uguali diritti e via discorrendo.
In generale credo che questa voglia di dimostrare le capacità animali, sia ancora una volta il riflesso dell’attuale incapacità anche del mondo animalista e antispecista di liberarsi da posizioni antropocentriche.
Ciao a tutte/i
Faccio Intanto tre premesse:
1. Grazie ad Aldo e Adriano, perché penso abbiano aperto un bel dibattito.
2. Mi scuso in anticipo per la lunghezza e una certa dose di autobiografismo, che credo però sia funzionale.
3. Userò il termine “intersezionalità” per scorrevolezza di lettura; è già stato ben criticato in precedenza il suo utilizzo spesso scorretto. Mi appello dunque a quelle precisazioni.
Entro in questo dibattito con più dubbi che risposte: la ritengo tuttavia una cosa positiva. Personalmente vivo questa questione sul doppio fronte. Penso di avere un osservatorio in qualche modo privilegiato, essendo quotidianamente a contatto con persone (sia ricercatrici/ricercatori, sia attiviste/i) che parlano di intersezionalità in altri ambiti. Come sapete, intersezionalità è una delle parole del momento, anche al di fuori dell’antispecismo.
Dopodichè, sono consapevole che questo campione di persone (movimentiste, ma non antispeciste) non sia rappresentativo della popolazione generale, nel senso che – si penserebbe – è più “avanzato”/istruito/consapevole, etc etc. Su questo punto torno verso la fine del mio intervento.
In apertura, invece, mi preme ricordare una banalità, al medesimo tempo ridondante ma fondamentale: questo dibattito interno al “movimento antispecista” è molto spesso assolutamente estraneo e visto come autoreferenziale, nonché privo di interesse, e guardato con paternalismo e derisione dal “mondo fuori”. Non è una condizione atavica dell’antispecismo, ma interessa anche altri settori di movimento. C’è però qui un doppio livello di estraneità. Come si diceva qualche settimana fa con alcune/i compagne/i fra serio e faceto, anche il fatto di chiamarsi “compagne/i” in certi ambiti lo si dà per scontato, ma è visto come una cosa eccentrica (per essere ottimisti) o da schizzati (per essere pessimisti) dalla maggior parte della gente. Come sappiamo, parlare di intersezionalità fra antispecismo e altre lotte è visto da eccentrici o schizzati non solo dalla maggior parte della gente ma pure dalla gran parte delle stesse “compagne/i”.
Dicevo, mi inserisco con dei dubbi e non con delle risposte. Insieme a Marco abbiamo curato da poco un libro che si intitola “Smontare la gabbia” e soprattutto si sotto-intitola “Anticapitalismo e movimento di liberazione animale”. Lì inquadriamo quello che a nostro avviso dovrebbe essere il frame. Ma il problema posto da Aldo ci è assolutamente chiaro, ci mancherebbe. Anzi, mi pare che – per una qualche congiunzione astrale, o più probabilmente per mutate questioni materiali/di opportunità discorsive – questo problema sia particolarmente sentito e discusso negli ultimi mesi. È un segnale positivo e negativo al tempo stesso. Cito dall’introduzione del nostro libro laddove parliamo proprio di intersezioni: “nel caso dell’animalismo, continuano da troppo tempo ormai a vivere un percorso carsico fatto di alti e bassi, di momenti in cui sembra che le istanze in favore dei non umani vengano positivamente accolte anche presso altri movimenti sociali alternati a momenti in cui l’ottimismo lascia spazio alla realistica constatazione di un percorso ancora lungo e impervio.”
D fatti, è abbastanza sconfortante il modo in cui la questione animale viene presa in considerazione, ad esempio, da chi si occupa di movimentismo/sociologia politica. La prassi è non considerarla del tutto: penso siano oramai decine i convegni/conferenze/seminari cui ho partecipato negli ultimi mesi in cui si parla di intersezioni (soprattutto, essendo il tema di questi mesi, rispetto alla questione dei Fridays for Future e in generale delle lotte ecologiste), e viene evocato qualsiasi tipo di intersezione tranne quella con l’animalismo. Tuttavia questa omissione della questione animale, si badi bene, non è affatto una strategia, come a mio avviso troppo spesso si pensa in ambito antispecista. Per me il fatto che non sia una strategia è un punto molto rilevante: anche su questo torno verso la fine. Mi spiego: non è che questa intersezione non venga evocata per “timore” di parlarne o cose di questo genere: è che non passa proprio per la testa degli interlocutori, anche quando queste/i sono cosiddetti leading scholars in social movement studies/political science. Penso sia in sostanza quella cosa che Aldo chiama “barriera di specie”, che struttura al momento non solo le società occidentali (e buona parte dei movimenti antagonisti) ma anche l’accademia, suppostamente considerata avanguardia del pensiero… Quelle rarissime volte che qualcuno solleva la questione (nel mio dipartimento sostanzialmente io) c’è appunto una tolleranza un po’ infastidita, una volontà di passare oltre e – ormai sempre più spesso – un mix della classica affermazione “ma io mangio la carne una volta a settimana” e di quella più à la page “non sono gli stili di vita a fare la differenza”. Non voglio segnalare un mio eroismo (peraltro assolutamente inesistente), ma solo riportare l’esperienza sul campo di chi parla di intersezioni quotidianamente con studiose/i di altri movimenti…La questione stili di vita, per altro, credo ci trovi in buona parte d’accordo: non sono gli stili di vita individuali a fare la differenza, ma oramai questo sta diventando l’argomento principe di chiunque si dica interessata/o alla questione ambientale (e pure a quella del benessere animale). Il che solitamente porta alla risposta: “hai ragione: non è il modo di consumo, ma il modo di produzione che fa la differenza, ma comunque – anche se non è sufficiente ripensare i modi di consumo – è tuttavia necessario”. A questa risposta segue appunto di solito l’argomento della carne una volta a settimana, che a me ricorda un po’ quando in Italia nessuno ammetteva di votare Berlusconi, ma poi Berlusconi vinceva le elezioni. Che io sappia, questo abbattimento nel consumo di carne infatti non si è registrato…
Quindi sì, è frustrante, faticoso e forse costituisce in certi casi anche uno spreco di tempo. Lo stiamo vedendo a volte anche nelle presentazioni di “Smontare la gabbia”, dove tuttavia l’accoglienza è buona e il dibattito solitamente di alto livello. Stiamo portando questo libro soprattutto in ambienti di movimento, che spesso non hanno nulla a che fare con l’animalismo. È difficile capire quanto questa accoglienza tutto sommato positiva rientri nell’ottica dell’educata accettazione, o quanto abbia un fondo di effettivo interesse da parte dei nostri interlocutori. Però, almeno nella mia esperienza, va molto meglio lì che in contesto accademico.
Ripeto, non ho una risposta, e provo davvero a portare delle domande/suggestioni partendo dalla mia posizionalità, diversissima da quella della maggior parte di chi ha scritto prima di me in questo carteggio, ma magari utile. Secondo me bisogna ragionare a tre livelli: 1) popolazione generale; 2) “altri movimenti”; 3) accademia. L’accademia, per quanto ostica e a volte elitaria a prescindere dalla questione animale, è comunque un referente fondamentale, quantomeno in termini di lungo periodo. Ad oggi però, e mi duole dirlo, è forse dei tre terreni il più difficile. A partire dai dipartimenti dove si conduce sperimentazione animale, fino a giungere a quelli di scienze umane o sociali dove si auspicherebbe una maggior apertura… Passando invece agli altri due “soggetti collettivi”, il primo è il “popolo”: elemento imprescindibile, ma purtroppo non siamo al momento in grado di ragionare su quella dimensione. Nemmeno adottando l’approccio legato esclusivamente ai consumi, e dunque assecondando sostanzialmente la natura delle moderne società occidentali fondate sul ruolo del cittadino in quanto consumatore. Mi fa un po’ impressione e anche tristezza dirlo, ma al momento non credo sia realizzabile una battaglia su quel terreno: ripeto, né in modo anticapitalista ma nemmeno assecondando il vangelo capitalista. Sto dicendo una cosa elitaria, e ne sono consapevole, ma se non ha sfondato il cosiddetto populismo di sinistra non credo proprio possa sfondare una sorta di populismo animalista. Anche per esclusione, ma non solo per quello, restano gli altri movimenti sociali. O meglio, esisterebbero anche le istituzioni ma non mi pare che al momento siamo messi molto bene su quel fronte; inoltre, non penso sia il percorso individuato come auspicabile dalla maggior parte chi è intervenuto in precedenza in questo dibattito!
Esclusi dunque accademia, “popolo”/mercato (e istituzioni), restano gli altri movimenti. Su questo credo abbia molto ragione Marco quando dice che è anche una questione di tempo. È stato così anche nel caso di altri movimenti: non si può giudicare l’effetto e l’impatto nell’arco di pochi anni/decenni. Questo forse avverrà nel giro di diverso tempo, in ragione di cambiamenti della società, indotti da tutta una serie di fattori. Attenzione: uno di questi fattori sarà il capitalismo in una qualche sua forma, dobbiamo esserne consapevoli, piaccia o no. Possiamo (dobbiamo) cercare di ridurne al massimo la capacità adattiva e totalizzante, ma prescindere completamente da esso è impensabile anche per chi ha scritto un libro sotto-intitolato “anticapitalismo e movimento di liberazione animale”. Prendiamo il caso del ruolo della donna nelle società occidentali: è evidente che l’entrata delle donne nel mercato del lavoro e le maggiori opportunità in termini di potere d’acquisto abbiano contribuito all’emancipazione femminile. Sono cambiamenti che consideriamo positivi e credo potrebbe avvenire la medesima cosa anche nel caso dell’animalismo, ma qui si gioca la nota “peculiarità” della questione animale, e cioè il suo essere “voce dei senza voce”, come recitano noti e discutibili slogan. Però su questo punto a mio avviso va proprio ribaltata la prospettiva: l’emancipazione femminile, anche tramite dinamiche mercatiste, è arrivata per spinte dal basso che volevano un mutamento della condizione della donna in società; il rischio di applicare lo stesso ragionamento alla questione animale è quello di cadere in una sorta di “barriera specista al contrario”, e cioè di adottare un approccio antropocentrico per combattere una battaglia con un presunto fine antispecista. Capisco che in ultima istanza possa sembrare un ragionamento capzioso (come può sembrarlo d’altra parte quello dell’intersezionalità o quello dell’interdiscorsività), ma penso non lo si possa sottovalutare se l’obiettivo è quello di avere un modello di società davvero diverso da quello attuale.
Tuttavia, e su questo invece non so quanto ad esempio Marco sia d’accordo (ma è anche una questione caratteriale), siamo umani e – proprio in ottica antispecista – abbiamo delle peculiarità di specie, oltre che delle peculiarità storico/geografico/culturali: una di queste peculiarità è il fatto di poter mandare a farsi fottere i propri interlocutori, anche quelli presuntamente ritenuti amici (o amici degli amici). E dunque penso vadano individuate delle soglie oltre le quali sia effettivamente consigliabile farlo, onde non passare per l’ultima ruota del carro (o anzi proprio la ruota di scorta, di cui si può benissimo fare a meno). È un esercizio difficile, e questo equilibro va trovato di volta in volta, ne sono consapevole, anche sulla base della disponibilità individuale al dialogo e alla maieutica.
Però, e qui metto il mio ultimo punto, bisogna anche in questo caso guardarla in termini strategici: un conto è valutare la cosa a livello individuale (e allora sta benissimo essere infastiditi dalla saccenza/disinteresse/etc), un altro è valutarla quando si fanno discorsi di movimento, nei quali bisogna ragionare in termini collettivi. Per me – chiudendo con un altro spunto che probabilmente non otterrà consensi unanimi – è lo stesso “dilemma” dei prodotti veg al supermercato: un conto è apprezzarne la disponibilità in quanto individuo, un conto proporne una critica come movimento. Forse è un approccio paraculo (e un po’ troppo simile a quello del “mangio carne una volta a settimana”), ma la strategia a mio avviso è troppo spesso sottovalutata sia dentro sia fuori l’antispecismo. Al contrario, soprattutto in una situazione di svantaggio, la strategia è una cosa imprescindibile. “Strategia” deriva dal greco “esercito”, ed è un termine che per definizione deve avere una prospettiva di ampio raggio, anche in termini temporali. Non è un caso che Gramsci, parlando della lotta per l’egemonia in Occidente, utilizzasse il termine “guerra di posizione”. E, giusto per chiudere in maniera intersezionale, cito una frase di Stuart Hall riferita proprio a Gramsci, e a mio avviso assolutamente condivisibile (mi scuso ma non ho trovato una traduzione italiana quindi ho lasciato l’originale: “I do not claim that, in any simple way, Gramsci ‘has the answers’ or ‘holds the key’ to our present troubles. I do believe that we must ‘think’ our problems in a Gramscian way – which is different”.
Un saluto!
Ciao Niccolò,
Grazie per essere intervenuto nel dibattito con il tuo lungo commento. Le questioni che hai sollevato sono molte, ma sostanzialmente riguardano lo scritto di Sottofattori, pertanto lascio a lui l’incombenza di una eventuale risposta estesa.
Vorrei solo puntualizzare una questione riguardante la strategia a cui tu accenni che è un elemento che su Veganzetta è sempre stato tenuto in massima considerazione, anche per questo è stato pubblicato il testo di Sottofattori che propone in buona sostanza una soluzione strategica alla situazione odierna in cui ci troviamo.
Intanto ringrazio coloro che hanno contribuito a alimentare questo confronto che ha avuto come spunto un articolo che avevo scritto parecchio tempo fa. Un confronto decisamente interessante. Ma a questo punto devo fare alcune precisazioni. Intanto ciò che Adriano ha pubblicato non è l’originale. Quell’articolo mi era stato commissionato proprio per aprire in un altro ambito un dibattito simile a questo. In seguito non se n’è fatto più nulla, ma ho approfittato del materiale disponibile per proporre una presentazione nell’ambito dei Mercoledì Extraordinari di Torino. In quell’occasione proposi un estratto che, con ulteriori tagli è stato pubblicato qui, sulla Veganzetta.
L’articolo originario era strutturato in due parti. La prima tentava di dimostrare la fragilità della teoria intersezionale. La seconda parte, quella qui pubblicata, era invece finalizzata a dimostrare l’estrema difficoltà di far rientare l’antispecismo negli “assi classici” della teoria intersezionale a prescindere dalla solidità di quest’ultima.
Di certo avrò scritto delle imprecisioni. Ricordo però molto bene che prima di mettere mano alla penna spesi almeno due settimane per documentarmi su un’ampia letteratura in proposito. Quello che compresi – o che, più umilmente, credo di aver compreso – è che di teoria intersezionale si può parlare con cognizione di causa soltanto in campo accademico. Il rilievo e lo studio degli assi sui quali si dispongono le varie forme di discriminazione posseggono ampie potenzialità per interventi in ambito sociologico o giurisprudenziale al fine di proporre soluzioni riformiste a livello istituzionale. A titolo d’esempio, le problematiche femminili non possono essere analizzate esclusivamente per mezzo del genere se non si considerano aspetti decisamente influenti come la classe, l’etnia, l’età, la (eventuale) disabilità ecc.
Fin qui nulla da eccepire. Anzi, l’impegnativo termine “teoria” che accompagna “intersezionale” ben si giustifica se si cosidera l’ambito di impiego. I problemi nascono quando si vuole trasportare l’intersezionalità da un’ambito descrittivo quale è quello accademico, nel campo del conflitto sociale. In tutti i documenti presi in esame ho colto quelle notevoli incertezze che anche tu, Marco, provvedi a segnalare attribuendole a una “rapida propagazione [che] ha determinato, soprattutto, una sua errata diffusione, come testimoniato da alcune gravi inesattezze che sostieni in merito all’intersezionalità…”. Solo che non mi sembra proprio che derivino da una “rapida propagazione” bensì dalla difficoltà di dare alla “teoria” una funzione operativa (dopo quella interpretativa) in un contesto di conflitto sociale. Sento spesso rispondermi che la teoria intersezionale non corrisponde alla “unione delle lotte”, ma è evidente che dopo tutte le analisi di questo mondo, alla fine, i soggetti che prendono coscienza della loro condizione “situata” dovranno pure coagularsi in una prospettiva comune!
In un documento di N1DM leggo: “Per liberarci dall’oppressione allora è fondamentale prima di tutto riappropriarci della nostra identità, partendo dall’idea che il nostro vissuto è valido tanto quanto quello altrui. Ecco che l’identità smette di essere la nostra natura che ci porta necessariamente alla sottomissione, per diventare uno strumento attivo di lotta politica. Quest’idea moltiplicata per tutti gli assi di oppressione e le loro intersezioni dà origine al femminismo intersezionale: una prospettiva politica che abbraccia molteplici lotte contro tutte le oppressioni possibili, senza imporre una gerarchia fra di esse ma rivendicando le specificità di ciascuna”.
Bene. Preso atto di questo, nasce il problema empirico di dare una forma alle lotte. Ma quel che ora accade è una questione politica di tattica, di comunicazione, ovvero il classico problema della guerra di posizione contro una struttura sociale che rifiutiamo. Ma a questo punto, la “teoria” è alle spalle e rimangono tutte le difficoltà vecchie come il mondo di riuscire a scalfire un avversario che, giocando in casa, ovvero su una struttura sociale che esiste (a diferenza di quella che vorremmo esistesse che pertanto non esiste ancora) si trova avvantaggiato e svolge l’eterno giochetto: quello di incorporare, nei limiti del possibile, le istanze precedentemente stigmatizzate per creare quelle divisioni interne che vanificano lo sforzo antagonista.
Vorrei aggiungere qualcosa sull’uomo bianco, benestante, eterosessuale, in salute il soggetto. Condivido la tua utile precisazione, ma spero che si sia compreso come – nel mio scritto – io abbia preso le distanze da quello schema argomentativo anche se una lettura affrettata potrebbe dare un’impressione opposta.
Insomma qui giunti ribadisco i miei dubbi (dubbi, non certezze) sulla teoria intersezionale quando esce dal suo alveo accademico perché a quel punto non riesco più a comprenderne l’utilità. A maggior ragione se essa viene posta in rapporto all’antispecismo. Credo di aver motivato la mia visione del problema: visto che l’antispecismo non adotta (o non dovrebbe adottare) una prospettiva accademica, mi sembrano ovvie le difficoltà segnalate da un tecnico di quell’ambito come Niccolò. Non credo che la critica allo specismo potrà lì avere grande fortuna anche se conviene certo sfruttare ogni occasione che si presenti. In ogni caso il mio sguardo cade altrove. Cade nell’indifferenza per gli altri terrestri da parte della stragrande maggioranza di umani che lottano per i migranti, per i popoli “minori”, per il clima, per la pace. Non credo che tra un secolo le cose cambieranno. Prima di tutto perché lo specismo non trova varchi in ambiti pertinacemente antropocentrici. Poi perché, come ha osservato Adriano, 100 anni in questa condizioni ce li sognamo.
Che fare? Guardare altrove. Provare a smettere di nominare “anticapitalismo” e provare a proporre la costruzione di una società diversa partendo dalle difficoltà attuali e oggettive dell’Homo sapiens. Per fare questo non occorre la teoria intersezionale – che funzioni o meno –, occorre piuttosto comprendere quale possa essere la natura di una civiltà non antropocentrica e chiamare a raccolta intorno a questa idea. Ma occorre fare presto perché il tempo è scarso.
Ho seguito con interesse tutto il dibattito, grazie a tutte/i, anche per i toni della discussione. Mi accodo all’ultimo commento dell’autore del post, quando dice “Che fare? Guardare altrove. Provare a smettere di nominare “anticapitalismo” e provare a proporre la costruzione di una società diversa partendo dalle difficoltà attuali e oggettive dell’Homo sapiens. Per fare questo non occorre la teoria intersezionale – che funzioni o meno –, occorre piuttosto comprendere quale possa essere la natura di una civiltà non antropocentrica e chiamare a raccolta intorno a questa idea. Ma occorre fare presto perché il tempo è scarso”. Sono d’accordo che il tempo sia scarso e che ci sia bisogno di una società non antropocentrica, solamente non capisco come sia possibile non “nominare” l’anticapitalismo quando questa civiltà in cui viviamo è dominata dal capitalismo. Potremmo anche farlo e concentrarci sulla pars costruens della teoria, ma tutte le questioni ci verrebbero comunque riproposte nella nostra pratica, più che nella teoria. Quindi occorre, a mio modo di vedere, continuare a cercare alleati tra chi lotta ogni giorno contro le varie oppressioni: di razza, di genere, di classe etc. Poi è verissimo che persistono diffidenze e ostracismi soprattutto verso l’antispecismo, anche se la gerarchia delle lotte e l’isolamento è una prassi diffusa nei movimenti anche rispetto a tante altre situazioni (ad esempio, storicamente, nel movimento operaio rispetto alle lotte di genere, per dirne una).
Ciao Luigi,
Tu scrivi «Quindi occorre, a mio modo di vedere, continuare a cercare alleati tra chi lotta ogni giorno contro le varie oppressioni: di razza, di genere, di classe etc. ».
Il nodo della questione pare essere proprio questo: cercare alleati tra chi lotta e non cercare alleanze con altri movimenti di lotta per le libertà umane.
C’è molta differenza ed è proprio su tale differenza che si deve costruire una diversa strategia rispetto all’attuale.
Caro Aldo, brevissimamente. Concordo, volendo, con molti punti del tuo ultimo commento. Salvo che sarebbe doveroso precisare che il metodo intersezionale non nasce affatto in ambito accademico, ma al contrario in ambito militante. Il testo considerato come fondativo è infatti il celebre scritto del “Combahee River Collective” (se googlate troverete anche una traduzione italiana), un collettivo femminista afroamericano. E questo è molto significativo, dato anche il tono del testo e la sua proposta. Come è del resto significativo il fatto che questa elaborazione sia stata appropriata largamente da ambiti accademici (e in questo senso alcune tue critiche colgono nel segno). Si vede infatti in modo molto chiaro che, quando questo approccio viene distillato secondo i metodi della pratica accademica, diventa uno strumento molto debole per le lotte. Questo però non significa che si debba prospettare un “ritorno alle origini” dell’intersezionalità “buona”, perchè ovviamente continua a vivere e svilupparsi un’intersezionalità non accademica che è tutt’altro che inutile per i movimenti, compreso quello antispecista. Ovviamente, quello antispecista è libero di pensare (a mio parere senza dimostrarlo) di essere un movimento “ombrello” che racchiude tutte le lotte – vecchia storia in ambito intersezionale: buona parte del marxismo economicista ritiene che la classe sia un asse gerarchicamente superiore a genere, razza, ecc; alcune correnti del femminismo vedono nel patriarcato l’origine di tutto, e così via – ma se nel movimento antispecista c’è chi non la pensa così, l’intersezionalità fornisce ottime chiavi di lettura del reale e di azione. Ovviamente, non con l’intenzione di trovare un modo per “convincere” l’interlocutore della bontà del verbo antispecista (come sembra emergere talvolta da alcuni commenti qui), ma per convincere dell’utilità di una visione radicale sulla questione animale per comprendere le altre oppressioni, e per convincersi dell’utilità degli strumenti elaborati da altri per comprendere meglio (e combatterlo meglio) lo sfruttamento animale.
Ciao Marco,
Tu scrivi «Ovviamente, quello antispecista è libero di pensare (a mio parere senza dimostrarlo) di essere un movimento “ombrello” che racchiude tutte le lotte».
La dimostrazione del fatto che l’antispecismo non sia un “movimento ombrello” ma un movimento di liberazione con potenzialità ben più ampie di quelle che di solito si è portati a pensare, è il fatto incontrovertibile e logico che l’antispecismo lotta per la liberazione animale e che anche noi (nonostante ciò che larga parte della società umana pensa) siamo Animali, pertanto – anche se solo virtualmente – non lottare anche per la liberazione umana sarebbe un atto specista. La questione mi pare molto semplice, altrettanto chiaro è il fatto che le lotte di liberazione umana non abbiano detta potenzialità.
Tu scrivi «Ovviamente, non con l’intenzione di trovare un modo per “convincere” l’interlocutore della bontà del verbo antispecista (come sembra emergere talvolta da alcuni commenti qui)».
Che la bontà del messaggio antispecista possa convincere gli altri è un dato di fatto. Del resto né io né te siamo nati antispecisti o siamo stati educati da antispecisti, la nostra è stata più che altro un’autoformazione derivante da un avvicinamento all’idea antispecista che parte da altre prospettive. Quindi entrambi siamo stati “convinti” da testi, siti web, confronti, conferenze, scambi di opinioni o altri metodi di comunicazione che ci hanno permesso di conoscere l’antispecismo e di abbracciarlo. Non vedo assolutamente nulla di male in tutto ciò ed è quello che regolarmente capita anche in tutte le altre lotte di liberazione. Intercettare coloro che dispongono di una sensibilità, una predisposizione o un interesse nell’argomento antispecista è fondamentale.
Ciao Adriano. Con “movimento ombrello” intendevo una cosa ben precisa, e intendevo una cosa ben precisa con il fatto che talvolta (qui e altrove) alcune/i considerano la liberazione animale come un movimento che riassume tutto, a cui sono riconducibili tutte le altre istanze, che in esso si risolvono e così via. Per capirci, riduzionismo. Che, beninteso, è lecito. Se ne può discutere. Ben altra cosa è dire che si tratta di “un movimento di liberazione con potenzialità ben più ampie di quelle che di solito si è portati a pensare”, cosa su cui evidentemente concordiamo (anche se ovviamente questo dipende da cosa si è “di solito portati a pensare”). Riguardo al nostro essere “animali”, no, credo che la questione sia molto più complessa. Bisognerebbe, credo, studiare più a fondi i dibattiti di altri movimenti. Emergerebbero tesi analoghe. Questo non significa che l’elemento che menzioni – il fatto che gli umani, antispecisti e specisti, sono animali – è assolutamente centrale.
Riguardo al proselitismo, no, certo, nulla di male nel convincere altre persone di una tesi etica o politica (dico anche semplicemente etica: mi pare ottimo convincere delle persone del fatto che è sbagliato uccidere una gallina, per dire, anche in maniera, diciamo, meramente “animalista”). Ma stiamo parlando di cose diverse, piani diversi. La propaganda – nulla di male – di convinzioni ormai radicate e chiare, che io e te, per esempio, condividiamo, e che non vogliamo, legittimamente, mettere in discussione con nessun interlocutore, ma soltanto spiegare e motivare. Dall’altra, il confronto, che è un’altra cosa, perchè presuppone che tutti possiamo imparare dall’altro (un esempio: e se imparassimo dai movimenti transfemministi che il binarismo di genere è fondamentale per sfruttare gli animali? ci sarebbe utile, come è utile agli umani che disertano le norme di genere riflettere sul ruolo dell’animalizzazione o della norma sacrificale nella costruzione di tali norme). Se interpretiamo il metodo intersezionale come un metodo di propaganda, siamo fuori strada. Se lo interpretiamo come metodo di confronto, se ne può parlare (benché io non credo neppure possa essere questo, non nel senso in cui lo è per es. l’interdiscorsività, che se ben capisco, è uno strumento per favorire il dialogo fra istanze potenzialmente affini ma con possibili attriti).
Ciao Adriano… Se lo specismo è parte intrinseca del nostro essere come lo sono egoismo e crudeltà credo che non ci siano ideologie filosofie o metodi che tengano per poterlo eliminare, antispecismo compreso… Se siamo nati quadrati non possiamo morire tondi… Io non sono informato e culturalmente preparato come tanti che hanno qui commentato, quindi perdonatemi la mia schiettezza e semplicità di linguaggio, tempo fa ero fervido sostenitore dell antispecismo per poi pian piano perdere fiducia nella sua efficacia ed utilità proprio perché vuole tutelare anche gli oppressori, cioè gli umani… Per il motivo prima scritto e che é stato fatto notare anche da altri io semplicemente penso che non ci potrà MAI essere una convivenza pacifica tra umani e non-umani… La motivazione di questo mio pensiero è di una semplicità disarmante (specismo violenza ed egoismo parti imtrinseche dell umano) che mi chiedo se voi fervidi sostenitori dell antispecismo vi siete mai posti questa semplice domanda :potrà mai esistere una società umana GLOBALE che rispetti la vita e la libertà di tutti gli altri esseri senzienti???… Sarà mai possibile che un umano (per come fisiologicamente e mentalmente è costruito fin dalla sua nascita e per come è stato costruito negli ultimi secoli) non arrechi danno ai non-umani solo per il semplice fatto di respirare???… Di modi x arrivare alla VERA liberazione animale dall oppressione umana io ne vedo solamente due: riduzione drastica, ma tanto drastica, della popolazione umana mondiale e conseguente indottrinamento della popolazione rimanente verso la decrescita… Sostanzialmente credo che dovremmo smettere di procreare per andare, nel corso di secoli, verso l inevitabile ma non voglio scrivere quella parola per non far storcere il naso a tanta gente che magari leggere ma credo che si capisca quale sia… Ne va da sé che queste soluzioni non sono comunque attuabili soprattutto la prima perché va a cozzare contro l istinto di sopravvivenza e conservazione della specie… Morale della favola, secondo il mio modesto parere, non esiste soluzione… Quello che si può fare è cercare di limitare i danni del nostro passaggio su questo pianeta con l informazione e la sensibilizzazione..
Ciao..
Ciao Spasm666,
Lo specismo è parte di noi Umani, questo credo sia indubbio, come chiaramente lo è l’aggressività, la violenza, e molte altre caratteristiche negative della nostra specie, del resto però se noi oggi siamo qui a parlare di antispecismo, lo possiamo fare perché esistono anche caratteristiche positive che fanno parte del nostro bagaglio, come l’empatia, il senso di giustizia, la compassione, il rispetto.
Senza dubbio la società umana in cui viviamo attualmente è la risultante di un lungo lavoro che ha prediletto alcune delle nostre caratteristiche (non certo le più nobili) a discapito di altre. Sin dalla tenera età siamo educati alla competizione, all’egoismo e desensibilizzati rispetto alle esigenze altrui. Se la nostra cultura ci insegnasse a empatizzare con gli altri, probabilmente l’antispecismo non avrebbe senso di esistere.
In sunto: il fatto che – come tutti i viventi – siamo esseri complessi e complicati, portatori di caratteristiche e pulsioni positive e negative, non ci autorizza a pensare che nulla potrà mai cambiare: se così fosse movimenti come quello pacifista, nonviolento, antirazzista ecc.. semplicemente risulterebbero superflui se non ridicoli.
Sulla questione della drastica riduzione della popolazione mondiale umana con me sfondi una porta aperta, come pure sulla questione della decrescita che ho seguito e studiato per molti anni. Sull'”indottrinamento” della popolazione residua, permettimi di esprimere la mia contrarietà dato che qualsiasi indottrinamento non è altro che una forma di violenza e controllo nei confronti degli altri, che ci farebbe ricadere miseramente nel sistema che cerchiamo in tutti i modi di abbattere.
Ciao Spasm666, Adriano ti ha risposto su un punto molto importante che vorrei ribadire. L’essere umano ha colossali e intrinseci aspetti negativi, persino orribili. Ma non ha solo quelli: gli aspetti positivi fanno lo stesso parte della sua natura. Il fatto che fino a oggi abbiano prevalso i primi non significa che con lo sviluppo della civilizzazione non possa avvenire un rovesciamento delle posizioni.
Tuttavia perché ciò avvenga devono crearsi due condizioni. Entrambe necessarie. La prima è che bisogna smettere di ragionare esclusivamente in termini “valoristici”. E’ inutile avere dei “valori” e pensare che debbano realizzarsi se non vengono poste in atto le condizioni capaci di dare loro le gambe. Questo è un difetto grave che vedo molto diffuso. La seconda condizione è ancor più impegnativa: occorre comprendere come farlo, cioè come realizzare le strutture e le istituzioni sociali che “realizzano” quei valori.
Da questo punto di vista, il mio articolo sull’intersezionalità ha mascherato molto il mio pensiero. Detto chiaramente, quando ho scritto l’articolo originario sull’intersezionalità, l’ho fatto perché mi era stato chiesto e non perché provassi tanto interesse per l’argomento.
E questo per una ragione semplice: il fatto che l’antispecismo faccia breccia presso i movimenti di emancipazione umana mi interessa abbastanza poco. Infatti le eventuali società che verrebbero loro realizzate sarebbero sistematicamente antropocentriche e quindi non potrebbero rispettare la vita degli altri esseri senzienti. In altri termini si ricadrebbe nel discorso fatto poc’anzi: è inutile condividere valori (ammesso che siano davvero condivisi) se poi la realtà delle cose “forza” le intenzioni degli attori sociali e riporta pari pari i problemi tradizionali al punto di partenza. Il grosso problema consiste dunque nel progetto di una società non antropocentrica. Per fare questo occorrrebbe incominciare a lavorare intorno a una “economia politica della biocenosi”. Qui non è certo possibile ragionare su una questione così importante. Certamente tu hai individuato due aspetti assolutamente centrali di tale progetto: riduzione (progressiva) della popoazione e decrescita (guidata) delle forme di riproduzione sociale.
Sull’introttinamento della popolazione sono d’accordo con te, nonostante il disaccordo di Adriano. “Indottrinamento” sarà parola magari brutta, ma a meno che non sposiamo una teoria spiritualistica dell’essere umano (io, come marxista non me lo posso permettere) devo pur prendere atto che le strutture cognitive di ogni individuo sono un prodotto sociale, non si formano dal nulla. Pertanto lo spazio psicologico dell’individuo è un campo di battaglia tra ciò che la cultura borghese scalpella nei neuroni del grandi collettivi e un’attività simmetrica di chi vuole costruire un mondo nuovo. Certo è vero che finché un sistema gode buona salute ha buon gioco a plasmare il “suo” popolo. Ma quando lo stesso sistema esaurisce la sua funzione storica si aprono ampie possibilità che andrebbero studiate e inserite in una visione strategica. Oggi manca solo questo ed è un grande dramma perché il tempo che abbiamo è proprio poco.
Ciao Marco,
Tu scrivi «Riguardo al nostro essere “animali”, no, credo che la questione sia molto più complessa. Bisognerebbe, credo, studiare più a fondi i dibattiti di altri movimenti. Emergerebbero tesi analoghe».
Non sono convinto che sia così. Probabilmente in alcuni ambienti (una risicata minoranza rispetto alla realtà attuale dei movimenti di liberazione umana) potrebbero nascere argomenti analoghi, ma si tratta di un pensiero d’avanguardia ben lungi dall’essere accettato.
Probabilmente però sono eccessivamente pessimista.
Giusta la distinzione che fai tra propaganda e confronto.
Per prima cosa è importante affermare che noi siamo ancora in piena fase di propaganda (direi conclamata) in quanto movimento “giovane” e in espansione, quindi abbiamo bisogno di creare prima una base di supporto solida per poi poterci permettere il “lusso” di un confronto aperto. In seconda battuta credo di poter dire che l’antispecismo ha sempre avuto nel suo DNA una spiccata propensione al confronto e anzi all’assimilazione di pratiche, visioni e lotte altrui, quindi credo che la volontà in tal senso non manchi come anche la voglia di imparare.
Per quanto riguarda il metodo intersezionale, effettivamente credo che sia stato utilizzato per fare propaganda, ma non verso l’esterno, bensì all’interno dell’ambito antispecista; mentre per quanto riguarda gli altri movimenti, dici bene quando scrivi «Se lo interpretiamo come metodo di confronto, se ne può parlare (benché io non credo neppure possa essere questo, non nel senso in cui lo è per es. l’interdiscorsività, che se ben capisco, è uno strumento per favorire il dialogo fra istanze potenzialmente affini ma con possibili attriti)». Proprio per le caratteristiche della teoria intersezionale, come si scriveva in precedenza, non si può (se non con grande fatica) utilizzarla per avviare un confronto, perché in quanto teoria essa è troppo strutturata per questo scopo, mentre quello dell’interdiscorsività è un metodo (strumento) che giustamente “favorisce” un dialogo, magari anche semplice e di partenza costruendo punti di contatto.
Effettivamente credo di aver sbagliato termine usando “indottrinamento”, è un termine che non piace neanche a me… “educare” credo sia più appropriato… Per quanto riguarda i movimenti di emancipazione e uguaglianza sociale io la vedo un po’ diversa… I movimenti antirazzisti antischiavitù femministi antiomofobi e pacifisti non hanno portato nessun miglioramento rispetto a 200 anni fa, hanno semplicemente mascherato i problemi, per fare un esempio lampante il primo paese che mi viene in mente sono proprio gli USA guardacaso… Col termine “mascherare” intendo dire che i vari tipi di sfruttamento e schiavizzazione hanno solo cambiato forma e questo è dovuto ai vari movimenti che hanno contro… Razzismo sessismo omofobia e schiavitù sono sotto gli occhi di tutti ogni giorno e per certi versi ancora più forti di prima proprio perché la gente fa fatica ad accorgersene pensando che al giorno d oggi queste cose appartengono al passato… La lista che si può fare di queste forme di violenza “moderne” è infinita e in ogni parte del globo… Dico tutto questo per ricollegarmi al mio pensiero principale espresso nel commento precedente e cioè che l antispecismo risulta inefficace come tutti gli altri movimenti che lottano contro sfruttamento e morte… Provo a fare un semplice esempio… Se durante la seconda guerra mondiale si fosse lottato contro il nazismo con la mentalità antispecista credo che ancora oggi i forni crematori sarebbero presenti ovunque… Mi spiego, non si può debellare definitivamente un cancro se non lo si estirpa completamente in modo fisico… Per tutte le ragioni scritte nel mio primo commento nell arco degli anni sono giunto a questa constatazione… Sarebbe bellissimo se con la sensibilizzazione l educazione e il dialogo si potesse arrivare alla VERA liberazione animale che è quella che a me interessa e che sogno ma contro il nazismo non si é scesi a patti, non si è dialogato, non si è cercato di far capire agli oppressori che quello che favevano era sbagliato, semplicemente sono stati estirpati, MA NON DEL TUTTO e questo spiega perché ancora oggi si ha a che fare con gente simile… Su un punto d incontro come Veganzetta è molto probabile che il sottoscritto venga catalogato come poco lungimirante o come un “cieco” che ha la soluzione sotto gli occhi ma non riesce a vederla per via della rabbia e dell odio verso la nostra specie… Forse avete ragione o forse no, ma più passano gli anni e più questo cieco è convinto di vederci bene… Provate, solo per un attimo, a pensare se i ciechi fosse l antispecismo a crearli… La mia sensazione è quella di una grande illusione… Ma ci credete ed è giusto che sia così… La frase rindondante è sempre quella:”chi nasce tondo non può morire quadrato”… Purtroppo… Quindi, qualcuno penserà leggendo,secondo questo tizio che nella sua semplicità sembra così saccente, la via da intraprendere quale sarebbe???… Vi rimando alla fine del mio primo commento..
Ciao a tutti..
Ciao. L’articolo che ha dato origine a questo interessante confronto è una “riduzione” del quinto paragrafo di uno scritto elaborato circa un anno e mezzo or sono. Poiché in seguito alla pubblicazione sulla Veganzetta mi è stato posto un problema riguardo la radice “cristiana” dei movimenti di emancipazione, e poichè la riduzione qui riportata può indurre a conclusioni errate riguardo il mio rapporto con il cristianesimo, decido di pubblicare il vecchio articolo integrale e di porlo in evidenza nel mio sito http://www.criticadelleteologieeconomiche.net. Oltre a questo aspetto, importante affinché non mi siano attribuiti strani collateralismi :-), l’articolo integrale ha il pregio di chiarire altri punti del mio pensiero sull’intersezionalità. Certamente alcune critiche di Marco o di chiunque altro potranno essere riconfermate e magari perfezionate. Disponibilissimo a allegarle al mio doc.
Aldo Sottofattori intervistato da Radio Onda D’Urto (nella trasmissione radiofonica Navdanya) il 18 luglio 2019.
http://navdanya.radiondadurto.org/2019/07/18/teoria-intersezionale-e-antispecismo-una-critica-aldo-sottofattori/