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Di Richard Ryder, in Paola Cavalieri e Peter Singer, The Great Ape Project, St. Martin’s Griffin, New York, 1993, pp. 220-222.
Gli scimpanzé fanno l’amore quasi come gli umani, ma di solito non corrono il rischio di contrarre la sifilide. A meno che non siano in un laboratorio. Un’immagine che mi ha sempre ossessionato è la fotografia riprodotta in un giornale medico danese degli anni ’50 di un piccolo scimpanzé triste che moriva di sifilide sperimentale, coperto da lesioni cutanee. L’ho usato nei miei primi due volantini dei diritti degli animali del 19701.
Proprio perché i nostri cugini scimpanzé si sovrappongono con più del 98 per cento dei loro geni con noi, sono stati e continuano a essere sfruttati senza pietà nella scienza. La loro unica protezione è stata il loro costo.
Gli scimpanzé condividono con noi capacità di fare e usare strumenti, la facoltà del linguaggio (non verbale)2, l’odio per la noia, una curiosità intelligente verso il loro ambiente, l’amore per i loro figli, la paura intensa delle aggressioni, le amicizie profonde, l’orrore per lo smembramento, un repertorio di emozioni e persino la stessa capacità di violenza sfruttatrice che spesso noi dimostriamo verso di loro. Soprattutto, naturalmente, essi mostrano essenzialmente gli stessi nostri indicatori neurali, comportamentali e biochimici del dolore e dello stress.
L’ingegneria genetica che coinvolge la produzione di nuove specie di animali (talvolta con geni umani, come nel caso dei suini di Beltsville e di alcuni topi soggetti al cancro) sta causando un controsenso nella nostra tradizionale morale, basata com’è sullo specismo. Per secoli, e anche oggi, i profani hanno attribuito un’enorme importanza alle differenze di specie, ignorando che i confini tra le specie sono lontani dall’essere impermeabili. I leoni e le tigri possono incrociarsi e generare ibridi che sono fecondi a loro volta. Anche le specie dell’ordine del Primati (di cui è rappresentante l’essere umano) possono incrociarsi, anche se non conosco alcun caso attestato, tuttavia, di incroci tra umani e altre grandi scimmie: l’attrazione sessuale tra le specie non sembra forte e l’accoppiamento potrebbe, almeno nella sua forma naturale, dimostrarsi molto pericoloso per il partner umano così fisicamente più debole!
Scimpanzé, gorilla e orangutan, più di ogni altra specie, sono intuitivamente riconosciuti come nostri parenti. Tuttavia, le implicazioni del darwinismo – che la parentela biologica potrebbe comportare la parentela morale – trovano ancora la resistenza degli interessi costituiti e dallo specismo per motivi commerciali. È interessante notare che in alcuni casi, il traffico di scimpanzé per uso di laboratorio è stato un’attività scelta da persone con un presunto background nazista – lo specismo, per quanto riguarda gli scimpanzé, appare psicologicamente vicino al razzismo. Scimpanzé, gorilla e orangutan sfidano la nostra moralità convenzionale. Ci costringono a mettere in discussione le nostre fondamenta etiche. Allora quali sono? A mio avviso, la moralità riguarda l’altruismo. Molte specie mostrano altruismo di base – la protezione dei simili dall’attacco, la cura degli altri e, in particolare, la cura della prole e la condivisione del cibo con i parenti. Gli esseri umani mostrano un comportamento simile, ma di solito se ne ha esperienza come motivato da un (acquisito) senso di dovere o da un sentimento spontaneo di empatia basato sulla consapevolezza che gli altri siano senzienti e, in particolare, sulla capacità di sentire dolore o angoscia. La facoltà di sentire (coscienza) è, di per sé, il più grande mistero dell’universo. Per 100 anni gli psicologi hanno perseguito l’obiettivo di studiare questo fenomeno fondamentale. Ora è nuovamente sotto esame e sono state osservate relative somiglianze con la meccanica quantistica3.
È il riconoscimento empatico che altri sperimentano coscientemente i misteri del dolore e della sofferenza, tanto quanto noi, che spesso sembra frenare il nostro comportamento verso di loro.
Questa sensazione di empatia ha senso anche in termini evolutivi e per due ragioni: in primo luogo, porta alla protezione e alla sopravvivenza della prole (e quindi dei nostri geni) e, in secondo luogo, promuove la cooperazione sociale. A volte la prima di queste ragioni, la promozione della sopravvivenza dei nostri geni, è stata enfatizzata tanto da argomentare che la base emotiva della morale sia innescata dalla stessa stretta parentela. Ma, certamente, la forza dei sentimenti parentali che possono esistere per i bambini adottivi mina questa argomentazione. La parentela biologica non è una condizione necessaria per il comportamento protettivo, come chiunque sa chi abbia visto un gatto che nutre un giovane coniglio o una cagna allattare un gattino. Il potenziale genitoriale è dentro di noi, ma può essere attivato o indirizzato a destinatari di altre specie. Il nostro gattino Leo non solo lecca il nostro vecchio gatto Albert, ma lecca anche me. Nessuno gli ha insegnato a farlo. I pesci pulitori e le bufaghe sono probabilmente programmati in modo innato per rimuovere i parassiti dai loro ospiti pericolosi, ma tolleranti, di altre specie. Giovani scimpanzé giocheranno con giovani babbuini. Le specie non si ignorano; interagiscono.
Nel corso degli anni il cerchio della morale si è progressivamente allargato ad abbracciare coloro che sono al di fuori della conoscenza immediata. Gli stranieri, e quelli di altre religioni e razze, sono stati lentamente riconosciuti come simili a noi stessi. Questo non è solo un processo intellettuale ma anche emotivo, e la sensazione spontanea di empatia con gli altri sembra espandersi come aumenta la familiarità. Gli esseri umani occidentali non si limitano più a riconoscere quelli della famiglia e della tribù. L’aumento dei viaggi e l’avvento della televisione significa che siamo sempre più abituati agli esseri umani di terre lontane e ai senzienti di altre specie.
I bambini mostrano immediatamente empatia per i non umani. E hanno ragione a farlo. Gli altri primati sono stati riconosciuti come cugini sin dal momento in cui gli europei li hanno conosciuti consapevolmente per la prima volta nel sedicesimo e diciassettesimo secolo4. In realtà i primati non umani sono stati, per quasi 300 anni, sfruttati per l’intrattenimento nello stesso modo in cui lo erano esseri umani deformi, donne barbute e altre “curiosità” umane. Ora, in un mondo in cui almeno cerchiamo di mostrare maggiore rispetto per i nostri simili, è arrivato il momento di un più generale “senzientismo” . Quello che intendo è semplicemente il riconoscimento dell’importanza della facoltà di sentire, diventando questa, in qualunque ospite sia, la guida della nostra morale. In scimpanzé, gorilla e orangutan l’esistenza della consapevolezza sembra essere fuor di dubbio; anzi, possiamo essere certi che queste specie possono soffrire proprio come possiamo noi. Siamo tutti accomunati dal dolore. Quindi, facciamo in modo che si sposino affinità e gentilezza.
Note:
1) Richard D. Ryder, Speciesism, privately printed leaflet, Oxford, 1970; Richard D. Ryder and David Wood, Speciesism, privately printed leaflet, Oxford, 1970.
2) Peter Singer, Animal Liberation, seconda edizione, Jonathan Cape, London, 1990, pp. 13-14.
3) Richard D. Ryder, The mind-brain problem, The Psychologist, April 1990, pp. 159-160.
4) Keith Thomas, Man and the Natural World, Allen Lane, London, 1983, p. 132; Richard D. Ryder, Animal Revolution: Changing Attitudes Towards Speciesism, Basil Blackwell, Oxford, 1989, p. 72.
Traduzione e adattamento a cura di Costanza Troini
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