Riflessione sull’insegnamento del veganismo etico nelle scuole del Regno Unito


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È di qualche settimana fa la notizia che il veganismo etico sarà insegnato nelle scuole del Regno Unito per alunni di età compresa tra i 5 e i 18 anni; il programma sarà fornito da un kit messo a punto da Jigsaw1 in collaborazione con la Vegan Society; questo passo è stato possibile grazie a una storica sentenza del Tribunale di Norwich che nel 2020 ha stabilito che il veganismo è una credenza filosofica non religiosa e alla successiva riforma del 2022 del sistema educativo britannico che ha aggiornato il programma di religione ridenominandolo “Religioni e visioni del mondo”, di fatto comprendendovi quindi anche le credenze filosofiche non religiose, tra cui il veganismo etico. Le motivazioni riguardano la necessità di un’educazione non escludente e non discriminante delle persone umane che abbracciano visioni filosofiche diverse e quella di promuovere un approccio verso la vita non violento in chiave di rispetto della Natura, del pianeta e dei suoi abitanti.
Il punto problematico è che il veganismo viene presentato quindi come una visione del mondo personale, una scelta di determinate persone umane che è quindi certamente da conoscere, approfondire e rispettare, ma in quanto scelta individuale; il sottotesto è: dobbiamo rispettare le persone umane vegane ed essere inclusivi verso la loro scelta di vita. Le persone umane vegane, non gli Animali.
Il veganismo non è inteso quindi come conseguenza del rifiuto dello specismo, cioè del sistema ideologico che fornisce giustificazioni morali e materiali all’oppressione degli animali non umani da parte della nostra specie e alle pratiche di sfruttamento, uccisione, uso per i più svariati scopi.
Il veganismo viene inoltre inquadrato come inclinazione personale di rifiuto generale della violenza, che vuol dire tutto e niente. Anche il Dalai Lama si impegna a vivere nel nome della nonviolenza e della compassione, ma non mi risulta che sia vegano e generalmente tutte le persone umane dichiarano di essere contro la violenza e compassionevoli, ma circoscrivendo in modo alquanto limitato il circolo dell’empatia, cioè di fatto escludendovi gli Animali.

Il veganismo è l’unica idea con la relativa applicazione pratica, di lotta contro un’ingiustizia a venire trattato alla stregua di una convinzione personale. Pensate se i movimenti antirazzisti e femministi anziché essere definiti come movimenti per l’acquisizione di diritti e la fine di discriminazioni e oppressioni fossero stati descritti come visioni personali per un mondo non violento, non riconoscendo quindi la necessità di porre fine a ingiustizie specifiche che hanno come oggetto minoranze o gruppi umani specifici.
Quando si parla di femminismo o di antirazzismo vengono precisati chiaramente i Soggetti oppressi, le donne e le persone umane di altri gruppi etnici, mentre quando si parla di veganismo si continua a eludere i Soggetti del discorso, che sono gli Animali, e si fa riferimento alle persone umane che hanno abbracciato il veganismo. Questo perché gli Animali non sono ancora riconosciuti in quanto individui senzienti soggetti della loro stessa vita, ma continuano a essere considerati solo in funzione di una loro utilità, compresi quelli selvatici che se visti come problematici o dannosi per i nostri interessi allora perdono il diritto alla vita e alla libertà (e che comunque sono definiti nel nostro ordinamento giuridico come proprietà indisponibile dello Stato; indisponibile, sì, ma pur sempre proprietà).
Infatti, si legge nel kit sul veganismo etico, il punto non è insegnare che gli Animali hanno i nostri stessi diritti di vivere le loro vite, da cui la necessità di abbandonare ogni pratica che li disconosce in quanto soggetti e li trasforma in prodotti, risorse rinnovabili, bensì quella di includere e rispettare le persone umane che hanno abbracciato il veganismo per ottenere una società più inclusiva delle varie visioni del mondo.
Ancora una volta gli Animali sono dei referenti assenti, cioè non si mira al loro rispetto tramite l’abolizione del loro sfruttamento, ma al rispetto di chi ha scelto un approccio non violento verso la vita.
Si cita il termine “veganismo etico”, ma il carattere politico e morale è totalmente espunto in quanto non si fa riferimento a concetti quali oppressione, ingiustizia, abolizione, liberazione animale e simili; si rimane nel campo dell’inclusività delle persone umane e di un generico riferimento alla nonviolenza che peraltro ha tutto il sapore del passivismo.
In nessuna lotta per l’acquisizione di diritti si tiene così tanto a citare il concetto di nonviolenza, eppure di fronte alle ingiustizie, alle oppressioni, fisiche e psicologiche, alla privazione di diritti fondamentali quali l’espressione delle più elementari necessità etologiche, sarebbe giusto anche reagire in modi efficaci che contemplino per esempio il danneggiamento delle strutture di contenzione quali laboratori, mattatoi e allevamenti. Non è un caso, infatti, che nel Regno Unito, il movimento A.L.F. sia stato tacciato di terrorismo e che qualsiasi attivista che abbia preso parte a liberazioni o danneggiamenti di strutture sia considerato alla stregua di un terrorista; questo perché il veganismo va bene e si accetta solo nella misura in cui non disturba e non rompe gli equilibri esistenti – materiali, economici in primis, ma anche morali – che vedono la nostra specie al vertice di una piramide con il diritto indiscusso di usare a proprio piacimento ogni altro individuo senziente appartenente ad altre specie.
La convinzione da scardinare è proprio questa e non si tratta di una mera credenza personale per inclinazione sentimentale alla nonviolenza, ma di una presa di posizione di fronte all’analisi di una inconfutabile, oggettiva e ingiusta violenza nei confronti degli Animali. Il veganismo è spesso associato alla nonviolenza e addirittura al giainismo, all’ascetismo o altre pratiche e visioni del mondo che però hanno poco o nulla a che fare con la lotta allo specismo, che è invece una discriminazione ben precisa tesa a giustificare e validare un’oppressione millenaria.
L’antispecismo riconosce l’ingiustizia morale dello specismo – che non ha una vera logica se non quella arbitraria della giustificazione del dominio, il quale può avere diverse motivazioni materiali – e nell’opporvisi elabora varie strategie di lotta che vanno dal veganismo, punto di partenza individuale del rifiuto di continuare a essere complici della violenza sugli Animali, all’attivismo nelle sue varie forme, tramite azioni dirette, campagne di sensibilizzazione, ecc.
Insegnare il veganismo non può prescindere dall’analisi dei rapporti di dominio della nostra specie sugli altri Animali e quindi da una messa in discussione della società e della civiltà, diciamo pure della cultura umana in ogni suo aspetto, intesa come tutto ciò che Homo sapiens ha prodotto, di intellettuale e di materiale. Non è questione quindi di “altre visioni” del mondo perché, nel definire “altro” il veganismo, permane alla base l’accettazione della visione maggioritaria, predominante, normalizzata, quindi naturalizzata dello specismo, cioè dell’ideologia che fornisce narrazioni e giustificazioni allo sfruttamento e sterminio degli Animali per i nostri scopi.

D’altronde sappiamo bene quanto inclusività, accettazione e possibilità di scelta non significhino affatto fine di un’oppressione. Lo vediamo ogni giorno quando ci rechiamo al supermercato e accanto ai prodotti frutto della violenza sugli Animali troviamo lo scaffale di quelli “vegani” o quando prendiamo parte a cene con amici, parenti e colleghi di lavoro e insieme a pietanze a base di corpi di Animali ci fanno la gentilezza di offrirci un menù vegetale. Si respira aria di accettazione e inclusività, certo, ma per chi? Non certo per gli Animali che sono in tavola come referenti assenti, ma solo per noi persone umane, ancora un volta perse in un delirio autoreferenziale mascherato da progresso morale e inclusività di diritti.

Certo, si potrebbe anche obiettare che le idee radicate abbiano bisogno di tempo per essere messe in discussione e cambiate e quindi il fatto che nelle scuole si insegnino quanto meno concetti di veganismo etico possa essere visto come un passo avanti, una contaminazione utile a sensibilizzare gli studenti, ma, il fatto che sia presentato come una scelta possibile, una tra le tante e non come prescrizione tesa a includere gli altri Animali nella nostra considerazione morale, lascia parecchio perplessi; suona un po’ come la legge sull’obiezione di coscienza presente in Italia riguardo l’uso degli Animali vivi nella ricerca scientifica o per scopi didattici: certamente è una legge a cui lo studente può ricorrere per essere esonerato dal condurre egli stesso gli esperimenti sugli Animali, ma non mette in discussione la legge che invece li consente, rimane solo una decisione personale.
Così nelle scuole britanniche è previsto un menù vegano ed è previsto che gli studenti possano scegliere, ad esempio, se prendere parte o meno a una gita scolastica presso una fattoria che usa gli Animali senza che il loro curriculum scolastico ne venga pregiudicato e proprio in virtù del rispetto della loro visione del mondo che contempla il veganismo etico, però il sistema sociale specista rimane intatto perché evidentemente anche chi si occupa di queste tematiche continua a preservare uno specismo talmente interiorizzato da non consentire un approccio radicale, liberazionista e realmente antispecista.
Infatti i promotori dell’insegnamento del veganismo etico si sono subito premurati di dichiarare che non significa imporre una scelta, ma rispettare le scelte etiche di chi ha una diversità di pensiero; diversa ovviamente rispetto al modello dominante, specista, che, va da sé, continua a restare quello principale di riferimento.
Per capire quanto sia debole questo approccio, pensiamo se alla voce antirazzismo o abolizione della schiavitù si fosse affiancata la definizione di “promuovere una scelta rispettosa delle persone antischiaviste” (cioè degli interessi di chi voleva abolire la schiavitù o non degli schiavi stessi, che quindi continuavano a restare referenti assenti dal discorso) o se il femminismo venisse presentato come “rispetto e tutela delle persone che si rifiutano di picchiare le donne” (e non delle donne stesse).
Definizioni del genere risulterebbero paradossali, eppure è esattamente così che il veganismo etico sarà trattato nelle scuole: rispetto delle persone vegane e delle loro idee (per quanto freak siano).
In conclusione, penso che a beneficiare di questo programma saranno soprattutto le studentesse e gli studenti vegani che quindi non saranno ridicolizzati e bullizzati e potranno avere più raggio di azione nelle loro scelte; ma non penso che il veganismo, per quanto definito etico, presentato in questo modo, cioè assorbito in un generico gruppo di “religioni e visioni del mondo” possa riuscire a trasmettere il suo carattere rivoluzionario e di rottura con gli equilibri esistenti tra Homo sapiens e le altre specie. E senza questo carattere di rottura, i suoi principi semplicemente vengono meno e diventa altro: una visione tra tante, certamente non violenta, ma in una società specista in cui la violenza sugli Animali è normalizzata, istituzionalizzata e finanche naturalizzata, le persone continuano a non rendersi conto che allevare Animali e mandarli al mattatoio è violenza, che addomesticare e montare un Cavallo è violenza, che fare esperimenti su Animali vivi è violenza, che regolamentare il benessere animali negli Animali è violenza perché continua a legittimarne la visione di prodotti, oggetti, risorse rinnovabili.
Per comprendere che la nonviolenza deve includere anche gli Animali bisogna prima definire lo specismo e decostruirlo, altrimenti si rimane prigionieri di un’idea vaga di rispetto della Natura e del pianeta che non vuol dire nulla di specifico e si confonde un blando ambientalismo con l’antispecismo e il veganismo che sono invece teorie e pratiche di rottura rispetto all’idea specista dominante.

Rita Ciatti

Note:

1) Società privata che opera in più di 9500 strutture e che adopera il metodo della suddivisione e specializzazione delle competenze per poi farle convergere in modo costruttivo fino a formare un quadro d’insieme il più esaustivo possibile.


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