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Con il termine “randagismo” si intende, solitamente, il fenomeno che descrive la condizione di un Animale considerato “da compagnia” – destinato dalla società umana specista a ricoprire un ruolo di supporto e compagnia – smarritosi o abbandonato e che quindi diventa vagante sul territorio. Chiaramente, la condizione di “randagio” è originaria per tutti quegli Animali che nascono già in questa circostanza e vivono, dunque, per tutta la loro vita, ai margini della società umana, vagando in città, piccoli centri abitati o nei loro dintorni in situazioni di dipendenza dagli Umani.
Il fenomeno del “randagismo” è strettamente legato alla realtà dei centri abitati urbani e comporta, quindi, una lunga serie di problematiche connesse alla vita degli Animali che ne sono interessati in correlazione con quella degli Umani che abitano le aree in cui permangono.
Se così non fosse, e se le condizioni di vita, il numero e le specie di appartenenza degli Animali interessati fossero diverse, potremmo semplicemente (e di certo più felicemente) parlare di Animali “liberi” o perlomeno in grado di provvedere a se stessi e di non dipendere dagli Umani. Nella realtà la società umana specista genera di continuo Animali selezionati, cresciuti e gestiti nella più totale artificialità per poter meglio soddisfare le nostre esigenze, privandoli delle loro naturali capacità di adattamento all’ambiente e della loro indipendenza, rendendoli paradossalmente dipendenti da chi li ha ridotti nello stato in cui si vengono a trovare. Poiché, come abbiamo detto, tante sono le problematiche derivanti dal fenomeno del randagismo, in quasi tutti i Paesi esso viene definito, regolato e controllato da leggi e istituzioni preposte. Diversi sono gli approcci con cui questo viene affrontato, a seconda delle sue dimensioni, del background culturale del Paese in questione e degli strumenti messi a disposizione delle leggi vigenti per contenerlo. Sentiamo spesso parlare di casi eclatanti che riguardano Paesi lontani dal nostro, come la Romania, la Spagna o il Giappone e molto spesso vengono evidenziate le innegabili carenze che la legislazione di questi Paesi dimostra di non aver mai superato al riguardo. Lo stesso vale per molte altre zone del mondo in cui vengono segnalate modalità di gestione assolutamente criticabili, che prevedono ad esempio l’immediata uccisione dopo la cattura, estreme condizioni di reclusione o addirittura l’utilizzo di camere a gas.
Ma qual è la situazione italiana al riguardo?
La risposta a questa domanda è assai meno semplice del previsto e, provando a essere esaustivi nel fornirla e cercando informazioni in merito, ci si imbatte in un numero spropositato di notizie che compongono un quadro tutt’altro che roseo.
Ci viene in aiuto un’inchiesta, molto ben strutturata, pubblicata da Repubblica, dal titolo “La lobby del randagismo“, che ha il pregio di affrontare il tema toccando tutti gli aspetti problematici ad esso connessi nel nostro Paese: dalla mancata applicazione delle leggi nazionali in vigore da parte delle Amministrazioni locali ai canili lager; dal trasferimento degli Animali in strutture del Nord Italia ed europee fino alle connivenze di associazioni o presunte tali con chi sui randagi guadagna, e tanto, passando per le responsabilità dei Comuni italiani.
Eppure, sembrerebbe, le premesse per fare dell’Italia un Paese all’avanguardia (chiaramente se vogliamo considerare il fenomeno solamente dai punti di vista legalista e legislativo) nel campo della gestione del fenomeno del randagismo ci sarebbero tutte, specie in confronto con altri Paesi. Ma già dalle prime righe dell’inchiesta, entrando nel vivo dell’argomento, queste speranze vengono disattese.
Una politica diversa la intraprende ventiquattro anni fa l’Italia con una legge quadro civile e rara, la 281/91 , che vieta di sopprimere i randagi e pure di destinarli alla vivisezione. La missione possibile è debellare il randagismo attraverso sterilizzazioni a cura delle Asl, nonché educazione dei proprietari alla medesima pratica. Ma la norma è subito disattesa al punto di favorire incontrollabili movimentazioni di animali, battaglie feroci per ottenere la loro amministrazione diretta, un sistema lucrativo e corrotto dove, oggi più che mai, l’ultimo aspetto considerato è il benessere dei quattrozampe.1
Un sistema corrotto, dunque, quello italiano, che vede le Amministrazioni locali appaltare la gestione di Cani e Gatti, canili e gattili, ad Associazioni ed enti privati mediante gare d’appalto e a lavarsi le mani di quanto invece dovrebbe direttamente controllare, lasciando aperta la porta a malagestione, sovraffollamento, condizioni igieniche precarie e soprattutto innescando un meccanismo di guadagno che cresce di pari passo al numero degli Animali gestiti.
La lotta ad accaparrarsi la gestione di canili e rifugi in convenzione, finanziati con fondi pubblici, è senza quartiere, e c’è chi oggi denuncia vizi nelle gare d’appalto. I soldi sono parecchi, stanziati perlopiù dalle amministrazioni locali: fino a pochi anni fa comunità montane, unioni dei comuni e associazioni protezionistiche ricevevano cifre importanti anche dal ministero della Salute (nel triennio 91-93 stanziava cinque miliardi di lire, trasformati in cinque milioni di euro fra il 2005 e il 2010) nel 2014 ridotte al simbolico importo globale di trecentomila euro.
Tutta la penisola è coinvolta, da nord a sud, perché ovunque in Italia ci sono canili, spesso gestiti da privati, e ovunque i problemi legati a carenti campagne di sterilizzazione si fanno sentire.
Dappertutto il randagio, Cane o Gatto che sia, è trasformato in merce preziosa, in grado di muovere un giro da 500 milioni di euro l’anno.
Compensi elargiti dai Comuni non agli adottanti ma alle associazioni intermediarie, appalti, donazioni di privati e così via: il randagio per molti è business.
Grazie a volontari eccezionali e a chi opera correttamente nel settore, senz’altro nel nostro Paese migliaia di animali che senza colpa seguitano a nascere trovano affettuose soluzioni, ma di tantissimi altri, troppi, si perdono per sempre le tracce. Partono dai rifugi, vengono accalappiati per la strada, rubati nelle abitazioni, scambiati sul web, trasferiti in massa verso adozioni fuori regione o all’estero, simili a buchi neri. D’altronde, come verificare la sorte di tutti? Intanto a gestire i canili – miglior bacino di raccolta di questa merce vivente – sono, in conflittuale alternanza, associazioni, sedicenti tali e privati: gli uni accusano gli altri, troppo spesso dimentichi della ragion prima di cui vogliono essere arbitri: la tutela degli animali.
La tutela degli Animali, questa sarebbe la parola d’ordine di chi si impegna e lavora in questo mondo, stando alle dichiarazioni di intenti, ma allo stato delle cose nessuno è garantito.
Non le persone volontarie “oneste”, non le associazioni in buona fede e soprattutto non gli Animali. Viaggi verso un nord che promette miracoli vengono continuamente organizzati anche da privati e improvvisate madrine e padrini di volo e, se per qualcuno di questi cuccioli il viaggio termina con una nuova casa, per molti altri non sappiamo proprio dove porti.
I social network diventano cassa di risonanza di annunci di ogni tipo: raccolte fondi, adozioni, lotterie, premi, vendita di oggetti per supportare spese spesso non comprovate e così via; donazioni che fioccano numerose e corse a perdifiato per “trovare” il randagio giusto per iniziare il business senza controllo da parte di nessuno.
E’ doveroso precisare che ci sono di certo, lo sappiamo, associazioni e singoli che si distinguono per serietà ed onestà e per il fatto di portare a termine opere veramente lodevoli nei confronti dei randagi, ma in questa sede ci preme parlare degli altri: di chi lucra sulla sofferenza e sulla vita di migliaia di esseri senzienti.
Nella coscienza comune, per comprensibili ragioni, le associazioni animaliste si distinguono meritevolmente da chi, sulla gestione dei randagi, fa impresa. All’occorrenza, però, bisogna saper rovesciare la medaglia e, di volta in volta, distinguere. Chiunque in definitiva, e con estrema facilità, può costituirsi in associazione e avvalersi del marchio di fabbrica, mentre cercare di far quadrare un bilancio (affiancando di solito altre attività alla cura dei randagi, come assistenza veterinaria o pensione per cani privati) non significa necessariamente rifarsela sugli animali.
Partendo dal presupposto che strutture come i canili non dovrebbero esistere se non come luoghi temporanei e di passaggio per Animali che vengano poi o adottati o reintrodotti nel territorio una volta sterilizzati e curati e che, in linea generale, il numero esorbitante di Animali che invece li affollano non conducono affatto una vita dignitosa, non comprendiamo come possano essere investiti così tanti fondi per la creazione di nuove strutture di accoglienza piuttosto che per la ristrutturazione e messa a norma di quelle esistenti e per interventi sul territorio e potenziamento dei presidi veterinari o dei servizi di pronto intervento, spesso inesistenti.
Non capiamo proprio come mai si tenda ad affidarsi così tanto ai privati dietro l’esborso di cifre consistenti piuttosto che puntare sul servizio pubblico o su prestazioni volontarie unicamente gratuite. Se i Comuni si avvalessero unicamente dell’opera gratuita di volontari e associazioni disposte ad operare senza compenso, la situazione sarebbe diversa e le griglie di partenza di quelle folli corse per accaparrarsi la gestione di progetti e canili sarebbero di certo meno affollate.
Per la grande maggioranza degli amministratori italiani occuparsi del randagismo è una scocciatura marginale, se non fosse che la tenerezza dell’elettorato verso gli animali si fa sempre più intensa. Ma ancora, a meno che sindaco o assessore delegato non siano sensibili e competenti in prima persona – fenomeno raro – la questione viene sbolognata in toto alle (spesso) incanaglite Asl, oppure gestita – a volte in buona fede, altre, si direbbe, meno – affidando il destino degli animali a interlocutori terzi.
Senza dubbio, per le amministrazioni speciste, quello del randagismo altro non è se non un problema del tutto secondario, ciononostante, le ripercussioni di questa mala gestione sono tali e tante da non poter essere sottovalutate.
Sicuramente a livello di igiene pubblica, di sicurezza e di vivibilità delle città, così come spesso viene sottolineato, ma, e questo è ciò che ci interessa, a livello di qualità della vita di esseri senzienti costretti a condurre esistenze precarie in un contesto feroce quale quello urbano, circondati da cemento e palazzi, vaganti in cerca di cibo e allontanati come lebbrosi se non quando, all’occorrenza, diventano utili per riempire le tasche di qualcuno.
Il triste e doloroso fenomeno del randagismo è uno dei numerosi sottoprodotti della società specista che riduce l’essere senziente non umano a oggetto, a merce, a giocattolo salvo poi buttarlo via quando non serve più. L’autorigenerazione di questa situazione di sofferenza è affidata alle vittime stesse: agli Animali che riproducendosi generano altre vittime che saranno costrette allo strazio quotidiano che ben conoscono i loro genitori. La soluzione parziale e contingente è una gestione disinteressata, onesta e sincera del randagismo da parte di singoli e associazioni capaci di operare efficacemente sul territorio e di tutelare i diritti fondamentali degli Animali abbandonati assistendoli, curandoli, rifocillandoli, cercando loro una sistemazione degna e sterilizzandoli per evitare che generino altri reietti. La soluzione definitiva è la graduale scomparsa degli Animali-servi o schiavi presenti nella società umana, smettendo di servircene, restituendo il rispetto, la dignità e la libertà che in quanto Umani abbiamo rubato e permettendo loro di tornare alla vita selvatica.
In attesa che tutto ciò cessi per sempre auguriamo a tutte queste vittime della follia specista umana di incontrare sulla propria strada solo chi si dimostri in grado di guardare i loro occhi capaci di perdonare anche le nostre peggiori nefandezze.
Ada Carcione – Veganzetta
Note:
1) I testi in corsivo riportati sono tratti da dossier “La lobby del randagismo” di Repubblica.
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