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Sullo sfondo di questo avvenimento, quello su cui si incentra il film è un aspetto del tutto specifico e in qualche modo straordinario, vale a dire una inattesa e apparentemente strampalata alleanza tra una piccola comunità di scioperanti, nel Galles, e il mondo omosessuale: è infatti un gruppo di coloratissimi attivisti londinesi, gay e lesbiche, gravitanti intorno ad una libreria del centro, che offre solidarietà ai minatori di un paesino del Galles. Il rude machismo dei minatori resta sconcertato e si sente minacciato nella propria identità dall’irrompere al proprio interno di un mondo tanto diverso: che, anticonformista, libertario, insofferente delle regole, attacca il perbenismo e, del tutto alieno da sentimenti di vergogna, fa bandiera della propria orgogliosa diversità. La storia cinematografica si dipana nel progressivo avvicinamento delle due comunità, che abbatte i muri di incomprensione e diffidenza. I minatori si sentono inizialmente spaventati e sviliti dal sostegno anche economico che i gay offrono: consapevoli del valore della propria lotta, che è di classe, degli operai contro i capitalisti, possono contare su una tradizione, che si appella al senso di giustizia e alle lotte di sempre tra sfruttati e sfruttatori. Cosa ha a che fare con loro quel mondo variegato e sconosciuto, da sempre additato al pubblico ludibrio quando non perseguitato penalmente, che mette in discussione i loro canoni di virilità? Sono gli omosessuali, per tutta l’azione identificati proprio per la loro appartenenza sessuale, a cogliere invece ciò che li lega: anche loro minoranza, misconosciuti nei propri diritti, ai margini di una società che non li riconosce e li umilia nella loro dignità, diventano velocemente consapevoli dell’importanza di un fronte comune che li rafforzi reciprocamente; capiscono soprattutto che battersi per i propri diritti non serve se non ci si batte per i diritti di tutti coloro ai quali tali diritti non vengono riconosciuti. L’inedita alleanza sfocerà poi nella incredibile quanto defilata partecipazione dei minatori al primo Gay Pride di Londra e poi nel riconoscimento dei diritti degli omosessuali, ottenuto anche grazie al decisivo appoggio della forte organizzazione dei minatori all’interno della Camera dei Lords.
Tantissimo c’è da imparare: c’è da imparare la lezione, tante volte impartita ma mai davvero introiettata, che la lotta dei deboli può rafforzarsi solo grazie ad un fronte comune che faccia evolvere la debolezza in forza; e che è fondamentale riconoscere il denominatore comune in tutte le dinamiche di sfruttamento che accomunano l’interesse a mantenere gruppi, categorie, realtà in posizioni svantaggiate. Il richiamo alle lotte in difesa degli Animali è del tutto evidente: l’anima dell’antispecismo come atteggiamento di rivendicazione di diritti che non devono essere in funzione dell’appartenenza ad una specie, ad un genere, ad una razza dovrebbe finalmente e davvero trasferirsi dal piano teorico a quello dell’attivismo, riconoscendo la fondamentale esistenza dei punti di contatto.
E’ ancora il film ad essere illuminante, se pure in forma facilmente fraintendibile, su un’altra questione: le donne della comunità dei minatori, che per altro sono molto più aperte e curiose dei loro uomini rispetto agli omosessuali, che hanno rivoluzionato, in modo a volte pacifico e scanzonato, a volte rabbioso, a volte divertito, le loro vite, sono preoccupate di non apparire ospitali con le ragazze, perché, dicono, “le lesbiche sono vegane”. Cosa preparare da mangiare per loro?! Purtroppo la battuta, regolarmente e non casualmente riproposta nei trailers, è scandita in modo da provocare risate. E così facendo viene destituita della sua portata, che invece è grande: perché “le lesbiche” consapevoli della necessità di lottare per i propri diritti, come per quelli dei minatori, sono altrettanto consapevoli dell’esistenza di altri sfruttati, Animali non umani, nei confronti dei quali un atteggiamento di rispetto non può prescindere dal rifiuto di usarli come cibo. La connessione è fatta, quella connessione che con modalità variegate fa da sfondo alle tematiche dell’ecofemminismo, che da alcuni decenni scandaglia le dinamiche di oppressione delle donne, della natura, degli Animali, mettendone in evidenza il denominatore comune. Per altro, ben prima che il termine, nel 1974, fosse coniato o che comunque la consapevolezza desse luogo a teorizzazioni, l’avvicinamento del mondo femminile alle questioni del vegetarismo (solo successivamente si potrà parlare di veganismo) è testimoniato dalle scelte, per esempio, di molte attiviste che lottavano contro la schiavitù e per i diritti delle donne nei decenni di fine ‘800 e inizio ‘900. Un grande file si apre sulle differenze di genere. Non è certo un caso che, nell’episodio ripreso nel film, siano le donne, non gli uomini ad essere vicini alla questione animale: l’approfondimento esula totalmente dagli intenti del regista: ma, al di là delle sue intenzioni di limitarsi solo a sfiorare l’argomento, l’informazione esiste per chiunque abbia voglia di coglierne e approfondirne il senso.
La ripresa filmica di questa imprevista alleanza tra minatori e comunità omosessuale è l’occasione per un ripensamento doveroso sul fatto che proprio le alleanze possono trasformarsi in formidabili strumenti di lotta, alleanze da ricercare e perseguire anche al di fuori di schemi prestabiliti. Il discorso appare forse scontato a livello teorico, ma, se applicato al grande movimento dei diritti animali, non si può non prendere atto che, lungi dall’allargare il proprio raggio d’azione con modalità inclusive delle tante realtà in divenire, non fa che, all’opposto, frammentarsi in piccole entità le quali sono puntate sull’ingigantire le differenze reciproche, a scapito della vastità del comune terreno di azione.
Un’espressione coniata da Freud, “Narcisismo delle piccole differenze”, appare illuminante: designa un fenomeno generalizzato, che investe ogni contesto e relazione: ogni rapporto contiene in nuce avversione e ostilità, al servizio dell’affermazione dell’Io dei singoli, che si vedono minacciati, da una parte da chi è estraneo, ma dall’altra, in modo diverso, da chi è tanto simile. Così ogni differenza, lungi dall’essere apprezzata perché preziosa e arricchente, viene amplificata; ogni affermazione diversa dalle proprie appare ignobile e insopportabile. Lo psicanalista Massimo Recalcati è convinto, al proposito, che proprio con chi riteniamo più simile a noi esprimiamo il peggio e richiama le affermazioni di Aristotele sull’invidia, che proviamo non verso chi è molto diverso, ma piuttosto chi ci è vicino. Basterebbe pensare al livore che contraddistingue comunità vicine, quali inglesi e scozzesi ; oppure ai derby calcistici che, opponendo squadre e tifosi di una stessa città, Milan-Inter o Lazio-Roma tanto per citare, sono l’occasione per l’espressione di punte inconcepibili di competitività; o a quei comuni che conservano nella propria denominazione due nomi che finiscono per designare confini mentali (quelli fisici sono al massimo le rotaie di un tram) al servizio di una sconcertante divisione tra supposte insormontabili diversità: in aree di qualche chilometro quadrato!
In sintesi e del tutto semplicisticamente, nella lotta per i diritti animali la creazione di fronti comuni quanto più possibile coesi, da creare con convinzione, forza e magari fantasia, potrebbe aprire percorsi inaspettati.
Ma vale la pena cogliere un altro spunto da quel film scoppiettante che è Pride: si è detto di come un’informazione dalle valenze enormi, che introduce il tema del veganismo all’interno di un più ampio discorso sui diritti, sia offerta in una cornice che la risolve in una battuta anziché in una spinta ad una necessaria riflessione. È utile coglierlo questo spunto perché l’episodio non è certo solitario nel panorama cinematografico o comunque dello spettacolo in generale, dove la traduzione del fenomeno in crescita esponenziale del rispetto per gli animali a livello culturale e della sensibilità di molti, si ferma ad un livello di sconcertante povertà intellettuale. Se è vero, come affermava John Stuart Mill, che «tutti i grandi movimenti, inevitabilmente, conoscono tre stadi: il ridicolo, il dibattito, l’accoglimento.» , secondo una dilagante rappresentazione delle cose a livello almeno di una parte dei media, il rispetto per gli Animali sembra ancora saldo al primo livello, quello della ridicolizzazione. Viene in mente la battuta infelice di un altro recente film, “Il figlio dell’altra” (Lorraine Levy, Francia, 2012) sulle tematiche tutt’altro che risibili della convivenza tra palestinesi ed ebrei: uno dei protagonisti, per svalutare l’intervento del medico della moglie, non trova nulla di meglio da dire se non riferirsi a lui definendolo “quel tuo psichiatra vegano…”: immancabili risate in sala per una perla che la regista avrebbe ben potuto risparmiarsi. Oppure ci si può rivolgere ad un serial televisivo di grande successo quale “Un posto al sole”, nel quale, tra frigoriferi straripanti di carne e piatti di pesce da cui la napoletanità sembrerebbe non poter prescindere , la vegana della situazione è Lori, ragazza che non fa che accendere candele profumate per casa, e, tra un viaggio e l’altro in India, sedersi a gambe incrociate a recitare mantra a gogo. Che dire? Reazioni scomposte per arginare un fenomeno molesto? Identificazione con una maggioranza infastidita dallo stato delle cose e rassicurata, grazie al bassissimo livello delle battute, che si possa stare tranquilli perché si tratta solo di cosa da riderci sopra? Reale incapacità di interpretare scelte alimentari come scelte di vita? Questo e molto altro ancora. Di sicuro, in ogni caso, fenomeno e atteggiamento da non sottovalutare, perché agisce ad un livello quasi subliminale mandando impliciti messaggi: non preoccupatevi: il veganismo è stravaganza accessoria di individui stravaganti. Anche all’interno di un altro recente film, “Hungry hearts” (Saverio Costanzo, Italia 2014), il riferimento al veganismo è associato a scelte estreme, alle soglie del delirio: in questo caso il regista non si limita ad una battuta fuori luogo, ma fa ben altro: attribuisce una scelta alimentare vegana per lei e per il figlio alla protagonista, neomamma ossessionata dal bisogno di proteggere il proprio bambino da ogni contaminazione al punto da non nutrirlo sufficientemente esponendolo ad un serissimo rischio di morte.
Bene: la complessità della realtà è grande: se davvero si vuole lavorare per il necessario cambiamento, che delle forze coese di tutti ha costante necessità, decodificarla è primo imprescindibile passo, con gli occhi bene aperti su ciò che è di per se stesso evidente e su ciò che si insinua in modo più strisciate nelle nostre e nelle altrui menti.
Annamaria Manzoni per Veganzetta
Fotografia in apertura: immagine tratta dal film Pride
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Il movimento vegan, per essere vincente, deve uscire dalla nicchia, che, purtroppo, è stata costruita in tutti questi anni di lotta e rivoluzione. Deve diventare la normalità! Ma come si può emergere dall’ombra senza essere coinvolti in una speculazione di massa? Come è possibile modificare una società radicata e basata sul grado di soddisfacimento dei bisogni materiali? Il concetto di base del movimento vegan antispecista, può realizzarsi pacificamente all’interno di un mondo violento giudato da poteri forti e distruttivi?
Può sembrare veramente un utopia, lottare davanti a questa triste realtà. E lo scoraggiamento, a volte, è a tratti disarmante.
Strumenti utili alla liberazione Animale, sono, oggi, molto diffusi e ben idealizzati…ma troppo spesso si collocano in campi ristretti, e poco dirompenti per l’opinione pubblica. Le stesse testimonianze pubbliche, eseguite in piazza, da coraggiosi e validi attivisti, sono un esempio, sì, grandioso e utile ad inorridire la folla, ma altrettanto rischioso solo per la spettacolarizzazione di una realtà troppo spesso mistificata, e chiusa nei ranghi del perbenismo. Di contro, si può diffondere una cultura vera e sincera nei consumi quotidiani, che possa mutare gli acquisti in una migliore consapevolezza, troppo gestita e controllata da un consumismo di massa. Lo stesso consumismo, che si traduce in tristi esempi eclatanti come alcune pellicole cinematografiche, fiction televisive o articoli di stampa, purtroppo, rappresentativi di una derisione e mistificazione molto dannosa. Gli ostacoli sono ovunque. Non bisogna fermarsi! Bisogna uscire dagli schemi indotti, gli stessi schemi che stanno confinando un movimento rivoluzionario, valido ed etico, in una moda, evento, salutismo momentaneo. Tutto condito da una speculazione vergognosa. Il futuro degli Animali, e quindi anche di noi stessi, può essere veramente libero e sano, solo con la collaborazione e la condivisione di tutti.
Roberto, le questioni che poni riguardano i massimi sistemi. Quello che io penso al proposito, volendo semplificare, è che siamo davanti ad una questione immensa che ha bisogno dell’apporto incredibilmente diversificato di tutti. Interventi culturali, azioni organizzate, cambiamenti individuali di stili di vita, sono modalità che riflettono le caratteristiche di chi li mette in pratica al di là dei bisogni della “causa”. Va bene così. Che poi ogni cosa possa essere vanificata, ridicolizzata, attaccata, di sicuro può succedere. Come potrebbe del resto essere altrimenti? Dai: lavoriamo, lavoriamo tutti, mentre molte cose succedono anche al di lò della nostra capacità di rendercene conto nell’immediato. A presto.
Hai ragione Annamaria, la questione è veramente immensa. A volte mi chiedo come possa esistere una diversa presa di coscienza da persona a persona. Quello che magari è talmente ovvio per alcuni, per altri invece è totalmente assurdo o lontano da sensibilità e comprensione. Forse alcuni hanno appunto qualcosa di innato, che li spinge ad avere più compassione per i deboli e bisognosi? Come si può inorridire davanti a scene macabre e terribili, e poi partecipare indirettamente al genocidio Animale? E’ forse colpa della mente umana, tanto meravigliosamente intelligente, ma altrettanto stupida da farsi coinvolgere in terribili psicosi? L’essere umano, potrà mai un giorno capire, logicamente ed eticamente, quanto il suo vivere quotidiano sia tanto sbagliato? E’ veramente così colpevole, da non sopprimere il suo istinto di sopravvivenza, tanto micidiale ed assassino? O forse, dentro se stesso, ha un grande senso di onnipotenza, così enormemente egocentrico, da farlo sperare in una prossima immortalità? E gli Animali sono consapevoli della loro mortalità? Questo concetto, a loro forse sconosciuto, li rende così buoni e pacifici?
Quante domande…troppe senza risposta.
Oggi disponiamo di una sola cosa, immensamente grande e potente: collaborazione. Quando più persone si uniscono gli uni con gli altri, verso un unico fine, si riesce ad ottenere il meglio da noi stessi. Soprattutto se questo fine è benefico.
E’ grazie a questa dote, che abbiamo raggiunto tanti risultati positivi nella nostra breve esistenza terrena. Ed è proprio in questo modo, con la coesione e l’impegno, che un giorno usciremo dall’epoca carnista.
Annamaria giustamente parla di “apporto incredibilmente diversificato di tutti”, Roberto di “collaborazione”.
In effetti la chiave di lettura che suggerisce l’articolo è proprio la collaborazione tra diversità. Il movimento vegan (ma ne esiste davvero uno?) ha bisogno dell’apporto di tutte/i: con metodi e modalità diverse, mediante azioni, parole, eventi e quotidianità, ma sempre tenendo ben presente dei principi-cardine che ci impediscano di dimenticare perché siamo diventate/i vegan. Questioni di diversità, ma anche di identità, quindi.
Il film è un divertente e onesto, molto gentile, incredibilmente buono, la luce. Il film si rivolge a coloro che accettano le persone così come sono. Eppure il film è il mio Andrew Scott preferito.