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Una bella ragazza bionda ammicca verso l’obiettivo della macchina fotografica mentre, vestita di soli indumenti intimi, viene colta nell’attimo di indossare una tuta da lavoro. Sulla testa una bandana, che però non nasconde, anzi, evidenzia, i lunghi capelli biondi. Alla sua sinistra si scorgono le terga di tre Mucche in fila l’una accanto all’altra. Si capisce che ci troviamo dentro una stalla. Queste scarne informazioni ci dicono che la ragazza sta per mettersi al lavoro. Il lavoro possiamo facilmente immaginarlo: mungere le Mucche, o forse accudirle, probabilmente entrambe le cose.
La fotografia proviene da una pagina di un social network, la didascalia recita: Sezione Pezzata Rossa di ARAV (acronimo per Associazione Regionale Allevatori del Veneto).
La Pezzata Rossa è una razza di Mucche molto apprezzata sia per le sue carni, che per il latte. Le sue caratteristiche produttive, riportate da un sito web, sono:
“Il bovino Pezzato Rosso è animale rustico, precoce, docile e presenta due attitudini: latte e carne.
Questa razza a duplice attitudine oltre a produrre latte e carne si caratterizza per una elevata resistenza alle mastiti e per una accentuata fertilità.
Il latte contiene un’alta percentuale di proteine.
Buone prestazioni come produzione di carne.”1.
Nell’immagine prende forma e si attua una duplice violenza, una sul piano simbolico, e l’altra reale.
La prima è quella della riduzione della donna a oggetto sessuale, il cui corpo è utilizzato per stuzzicare l’appetito degli istinti di chi guarda, l’altra quella reale della Mucca che viene fatta nascere e allevata al solo scopo di produrre carne o latte. La prima però, ossia la violenza simbolica della riduzione della donna a oggetto, si sostiene e rafforza sull’accostamento all’altra: entrambe sono nient’altro che merci la cui essenza d’individui viene nullificata, svilita e ridotta all’uso, che è la forma primaria di relazione che la società dei consumi ci induce a coltivare, perché una società capitalista senza istigazione al consumo non sarebbe tale.
Si ottiene così un duplice effetto sinergico o un potenziamento, se vogliamo, dei ruoli che la società ha preteso di stabilire per noi. Nella mente di chi osserva scatta immediato l’accostamento delle sue qualità della Mucca a quelle della ragazza: qualità che assumono così un significato ambivalente. Sia di soddisfazione di un appetito legato al cibo (la Mucca dà carne e latte), sia quella di un appetito legato al sesso e alla maniera in cui dovrebbe essere una donna per poterla più facilmente sottomettere. Delle Mucche si può abusare (e del resto vengono inseminate artificialmente con un metodo affatto gentile, per usare un eufemismo: quindi letteralmente stuprate), delle donne anche. Questo sembra suggerire l’immagine, anche se a un livello subliminale.
C’è inoltre, anche se ancora più sottile, il rimando linguistico Donna=Vacca. La “donna vacca” nell’immaginario comune è una donna ridotta alle sole funzioni di accoppiamento e riproduzione, quindi privata di tutta la sfera intellettiva, che è l’attributo con il quale abbiamo pretesto di differenziarci ontologicamente dagli altri Animali, innalzandoci oltre quella che abbiamo definito la bruta animalità, stabilendo arbitrariamente che possedere funzioni della mente superiori, significhi essere una specie superiore legittimata a sfruttare tutte le altre per il soddisfacimento dei propri capricci.
Donna e femmina animale sono così ridotte alle sole funzioni di soddisfacimento delle richieste del mercato, che siano sessuali o culinarie, della nostra società.
Il 25 novembre è stata celebrata la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Stigmatizzare certe forme di abusi fisici facilmente riconoscibili è facile; più difficile diventa analizzarne le cause.
In una società fortemente specista, sessista e maschilista come quella in cui viviamo, alcune pratiche e comportamenti rischiano di passare inosservati proprio perché accettati e sdoganati in quanto “normali”. Così non fa quasi più effetto l’ostentazione di corpi di donne nude sezionati (che la dissezione avvenga simbolicamente solo attraverso l’obiettivo della fotocamera poco importa) per pubblicizzare prodotti commerciali, mentre i corpi degli Animali macellati e venduti un tanto al chilo nei supermercati, è del tutto normale che non siano nella realtà nemmeno quasi più riconducibili agli individui cui sono appartenuti. Ma dal piano simbolico a quello reale il passo è breve.
Nell’odierna società capitalista inoltre il dominio non è soltanto verticistico, ma anche trasversale. Individui resi deboli (deboli non si nasce, ma ci si diventa quando si viene sviliti nella propria essenza, e resi interscambiabili gli uni con gli altri, poiché ciò che conta è solo il ruolo che si è destinati a ricoprire) mettono in atto inconsapevolmente lo stesso giochino di potere su altri individui ancora più deboli. Così la ragazza che si presta ad ammiccare a chi la fotografa, che se ne renda o meno conto, è complice di uno dei tanti crimini che la nostra specie commette nei confronti di altre: l’abuso e lo sfruttamento di altri individui senzienti, proprio come lei, anche se di specie diversa.
Rita Ciatti
Note:
1) Fonte www.agriaria.org
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Oltre alla profonda e amara riflessione fatta, aggiungo che l’ARAV si pronuove benissimo. Con questi chiari di luna di disoccupazione, forse vuole farci credere che quello che si appresta a fare la bella e giovane ragazza è un lavoro che merita attenzione, è una splendida opportunità, è sano perché a contatto con la natura (gli animali sono natura!). Forse l’ARAV vuole dirci che non esistono solo le donne in carriera in tailleur ma quelle “naturali” in tuta e scarponi che si sbattono in campagna ma, nonostante ciò, non perdono il loro fascino. Credo che la foto sia anche un invito a prendere la strada del lavoro ruspante rivolto alle belle e giovani ragazze. Le femmine animali sono tra le più maltrattate nell’orrore animale che ci circonda: maternità negata, allattamento negato, stupro, gravidanze a oltranza… Eppure le femmine umane, che dovrebbero essere le più vicine a questa sofferenza, hanno gli occhi chiusi.
Giusto Paola, ottima osservazione la tua. Vedi, a questo non ci avevo pensato, ma è vero, l’immagine potrebbe essere anche vista come un invito rivolto alle ragazze, per far vedere che se anche facessero un lavoro “rustico”, non perderebbero di certo la loro femminilità. E hai ragione, fa doppiamente male vedere che le femmine umane non riescono a essere sensibili alla sofferenza di altre femmine non umane.
Considerato che il soggetto a sinistra è indirizzato ad entrambi i sessi, mentre quello a destra a uomini o a donne lesbo…ci si chiede: perchè la donna oggetto nella foto si presta volontariamente a questa duplice violenza? Oltre al compenso ovviamente, cosa spinge un essere vivente femminile a simili pratiche rappresentative di una simbologia sessista? E’ consapevole fin troppo della propria femminilità che desidera ostentarla? O è completamente inconsapevole di tutto ciò che le circonda?
Secondo me è inconsapevole Roberto, o meglio, ha un’idea distorta della propria femminilità, un’idea appunto sessista.
Rita, hai azzeccato il problema donna con l’allevamento ma se ci avventuriamo nella caccia non ne usciamo più. Ci sono certi siti per donne cacciatrici da mettersi le mani nei capelli. Parlano di “femminilità col fucile”, di “parità anche nella caccia”, di forza, coraggio, resistenza… vantandosi di “essere come gli uomini”. E le divise delle cacciatrici hanno pure un tocco sexy, come vuole la consuetudine che la donna sexy sia sempre vincente! Secoli di lotte per avere diritti civili e sociali buttati nella spazzatura. Anziché dissuadere gli uomini ad andare a caccia, certe donne ne rivendicano il diritto. Il diritto di uccidere rientra fra le pari opportunità, come tutti i diritti. E’ difficile contraddire una simile norma.
Lo so Paola. Ogni tanto su FB mi sono capitati sotto gli occhi questi post con foto di donne cacciatrici che si vantavano, tutte sorridenti, di aver ucciso un cervo, un orso o qualche altro povero animale.
Quando l’idea di parità con gli uomini passa attraverso l’eguaglianza nella violenza, arroganza e dominio, è veramente triste.
Ma purtroppo credo avvenga questo perché, al di là del maschile e femminile, tutta la nostra cultura è improntata sul dominio e la prevaricazione e si attribuiscono significati distorti ai concetti. Ad esempio la caccia passa per essere un’attività naturalistica, la pesca uno “sport” romantico e così via.
P.S.: sul discorso delle donne che alla fine anziché lottare per la libertà da certi schemi e meccanismi di dominio, finiscono per rivendicarne la sostanza, mi viene in mente un bel romanzo di Ballard dal titolo Il paradiso del diavolo.
Splendida disamina.
Grazie Roberto.
Purtroppo non solo accade che tante donne rivendichino la parità con gli uomini in pratiche stupide e violente, ma lo stesso accade anche per tutti i popoli che hanno subito l’oppressione.
Anche in questo caso infatti l’emancipazione pare debba per forza passare per l’emulazione dei comportamenti scellerati dell’oppressore.
Chi è oppresso ritiene di “liberarsi” opprimendo qualcun’altro più oppresso di lui, oppure ritiene di avere il diritto di distruggere almeno quanto ha distrutto il suo oppressore (vedi anche l’industrializzazione dei cosiddetti paesi emergenti) perpetrando così all’infinito l’ideologia e la pratica del dominio.
Cosa spinge “l’homo sapiens” a darsi questa violenta zappata sui piedi ,
Mancanza di una generalizzata visione d’insieme, incapacità di analisi,
stupidità ?
Temo un po’ tutte e tre le cose. E inoltre l’aver introiettato da così tanto tempo il dominio e la prevaricazione da non esser più capaci di immaginare maniere diverse di stare al mondo.
Inoltre penso che l’homo sapiens abbia un’innegabile tendenza al dominio (insieme anche alla capacità di solidarizzare, provare empatia ecc.). Negarlo sarebbe da folli perché significherebbe non riconoscere il nostro lato oscuro.