Nuova edizione del Manifesto Antispecista: un’intervista


Si legge in circa:
21 minuti

Intervista del Collettivo antispecista Tana Liberi Tutti ad Adriano Fragano sulla nuova edizione del libro “Manifesto Antispecista“.
Buona lettura


Domanda 1. Novità. Innanzitutto ci racconti cosa c’è di nuovo nella nuova edizione del libro e perché hai sentito l’esigenza di aggiornarlo?

Risposta: La nuova edizione del libro è la quindicesima, dunque l’ultima di una lunga serie di edizioni cominciata nel 2007, anno in cui avviai il progetto del Manifesto Antispecista. Ho sentito l’esigenza di pubblicarla perché mi sono reso conto di quanto sia opportuno chiarire ogni singolo concetto proposto, nel tentativo di non lasciare nulla o quasi di inespresso o di sottinteso, dando adito a possibili fraintendimenti. Il progetto del Manifesto Antispecista è sempre stato caratterizzato da un continuo lavoro di limatura del testo alla ricerca della miglior sintesi possibile. Oltre a ciò il libro necessitava di un aggiornamento anche in relazione ad alcuni recenti sviluppi teorici in campo antispecista. Dunque sebbene molte sue parti a prima vista possano sembrare poco cambiate, c’è stata in realtà una riorganizzazione e sistemazione dei contenuti, quindi un cambiamento nella forma improntato ad una maggiore chiarezza espositiva, oltre a diverse modifiche nella sostanza.

Domanda 2. Titolo. Abbiamo notato la differenza nel titolo: da “Proposte per un Manifesto antispecista” a “Manifesto Antispecista”. Questo riflette l’ulteriore consolidamento delle proposte e delle riflessioni espresse nella precedente edizione oppure ci sono altri motivi per il cambiamento del titolo?

Risposta: Con la modifica del titolo del libro ho voluto comunicare che il progetto è giunto alla sua fase matura. L’attuale livello di elaborazione è da considerarsi una versione finale che al massimo potrebbe subire in futuro piccoli aggiustamenti. Ad ogni modo sul sito web del progetto (www.manifestoantispecista.org) continuerò a pubblicare idee, stimoli e considerazioni sotto forma di articoli.

Domanda 3. Cambiamento interiore. Un punto importante affrontato nel libro riguarda la trasformazione interiore che dovrebbe aver luogo in ciascuno/ciascuna come precondizione necessaria per un cambiamento nei nostri rapporti con gli altri animali. Come scrivi: “…da ciò debba conseguire una trasformazione profonda dei rapporti tra persone umane e persone non umane, che prefiguri un radicale ripensamento e conseguente cambiamento della società umana per il raggiungimento della liberazione animale. Fondamentali per tale trasformazione sono il senso di giustizia interspecifica, il rispetto dell’alterità, la nonviolenza, l’autocontrollo, l’empatia e la compassione.” E poi ancora “ La fondamentale attenzione per l’individuo dell’antispecismo si ritrova anche nell’importanza che attribuisce all’atteggiamento di autocritica, alla coerenza e responsabilità della persona umana antispecista, che rappresentano la base per un’evoluzione non specista del singolo individuo, indispensabile e propedeutica a quella della società umana.” Come credi sia possibile favorire questa trasformazione negli umani in modo che non riguardi solo una piccola minoranza (come avviene ormai -purtroppo- da troppo tempo)?

Risposta: I passi del libro che avete riportato sono parte di un approccio alla lotta contro lo specismo che potrei definire “individualista” e positivo, che per giungere alla libertà dell’individuo animale, considera l’individuo umano e la sua capacità e possibilità di rendersi autonomo. Un approccio caratterizzato da un continuo lavoro di sviluppo della consapevolezza come mezzo per la maturazione di un pensiero antispecista individuale critico, orientato all’azione sociale. Dunque autenticamente individualista, agli antipodi da ciò che oggi la maggior parte delle persone umane pensa che sia l’individualismo ossia egoismo, egotismo ed egocentrismo.
L’individuo umano antispecista è il primo a dover fungere da “palestra” per ogni applicazione pratica della filosofia che ha abbracciato. È sempre bene ricordare che ancor prima di rivolgerci alla società specista umana mediante un’azione politica, è la nostra persona ad essere chiamata a sperimentare per quanto possibile il mondo nuovo che desideriamo realizzare; solo dopo aver intrapreso con serietà questa fase (indispensabile e in continuo divenire), ci potremo rivolgere all’esterno della nostra sfera individuale. Una serie ed efficace decostruzione dello specismo nella nostra società, non può che partire dall’individuo umano: dalla liberazione del nostro intimo colonizzato dal paradigma specista.
Per quanto riguarda il problema della “piccola minoranza” di persone umane che possono/vogliono abbracciare l’ideale antispecista e viverlo appieno, dobbiamo avere l’onestà di ammettere che non tutta la società umana è disposta a compiere cambiamenti radicali e che molto probabilmente non lo sarà mai. Dunque è necessario orientare opportunamente gli sforzi per raggiungere soprattutto coloro che hanno una predisposizione innata per tale cambiamento o che l’hanno maturata nel tempo, fornendo loro il supporto necessario per intraprendere una reale trasformazione. Ogni avanzamento in campo sociale (anche il più radicale) è sempre nato da una minoranza di soggetti – da un’avanguardia – che hanno lavorato con grande determinazione e impegno, dunque anche nel nostro caso ritengo possibile che un giorno ciò possa accadere, se ci concentreremo nel lavoro di creazione di un’avanguardia antispecista motivata e strutturata che ancora oggi purtroppo non esiste.

Domanda 4. Liberazione umana e liberazione animale. Vari teorici antispecisti sottolineano il legame tra le lotte per la liberazione umana/i diritti civili e l’antispecismo. Anche tu riprendi questo punto: “Ciò perché l’antispecismo può essere considerato storicamente come una naturale evoluzione delle lotte per i diritti civili e per la liberazione umana (ma non una loro derivazione, in quanto esse sono da ritenersi antropocentriche) e in assoluta antitesi con visioni xenofobe, discriminatorie e più in generale con fascismi, autoritarismi e totalitarismi di qualunque orientamento politico o natura, perché veicoli dell’ideologia del dominio, dell’oppressione e della repressione.” Un raffronto che ci pare interessante per mettere in luce l’assurdità degli approcci welfaristi è il paragone proposto da Francione tra la condizione attuale degli animali e quella degli umani in schiavitù. Se si è contro la schiavitù non si può essere a favore di una schiavitù ‘più umana’, ma bisogna abolire la schiavitù. Incredibilmente però, nel caso degli animali, il punto per molti continua ad essere quello di garantire condizioni di minore sofferenza e non quello di eliminare del tutto uso, sfruttamento e sofferenza. Quali sono le tue riflessioni a proposito del welfarismo o ‘benessere animale’?

Risposta: Sul cosiddetto welfarismo e più ancora sull’inganno vergognoso del “benessere animale” è già stato detto e scritto di tutto, credo quindi che non serva analizzarli ulteriormente.
In generale sicuramente non si può essere contro la schiavitù e al contempo a favore di una condizione di schiavitù considerata in qualche modo “migliore”: si tratta pur sempre dischiavitù (a prescindere da chi la subisce) e ogni atto o presa di posizione che tenda a mitigarla e a renderla accettabile dalla nostra morale, non solo non risolve il problema, ma lo aggrava alleviando i nostri sensi di colpa e fornendoci argomenti giustificazionisti. Non esistono pezzi di libertà, libertà parziali o condizionate, ma solo una libertà unica, intera e completa alla quale ciascun essere senziente aspira legittimamente. Non esiste solo la nostra libertà, ma anche quella degli altri: la libertà di pochi individui è di nuovo solo un pezzo misero di libertà, quindi in definitiva non lo è. Oggi purtroppo anche l’antispecismo pare adeguarsi ai tempi – tristi – che stiamo vivendo, accontentandosi sempre più di piccoli pezzi di libertà per gli Animali, nell’illusione che tanti di essi possano in futuro costituire un intero; ciò a mio avviso è solamente utile a dimostrare che anche in questo ambito lo specismo esiste ed è ben radicato. Ovviamente dal nostro punto di vista ogni azione utile a diminuire la sofferenza animale merita di essere intrapresa: nulla dovrebbe rimanere intentato, ma sempre all’interno di una strategia ben definita e chiara di liberazione animale, questo in gran parte dei casi non avviene e i cosiddetti piccoli passi, le mezzo soluzioni (sempre più comode, utili e sempre meno sincere) non fanno altro che allontanare il giorno in cui gli Animali saranno finalmente liberi.

Domanda 5. Liberazionismo e abolizionismo. Nel libro sostieni la prospettiva della liberazione animale e, a proposito degli approcci abolizionisti, affermi “L’antispecismo per quanto affermato in precedenza, non può essere considerato abolizionista (non si avanzano alle istituzioni richieste di modifiche di leggi, norme e regolamenti), bensì liberazionista, ossia si aspira alla liberazione degli individui animali nella sua accezione più ampia, considerando come referenti per il cambiamento il singolo individuo umano e la società civile.” Non c’è forse qui una rappresentazione troppo angusta dell’approccio abolizionista? Quando abbiamo intervistato Francione (principale esponente dell’approccio abolizionista negli Stati Uniti), ci ha detto chiaramente che, secondo lui, non ha senso richiedere cambiamenti di leggi e norme se prima non si è creato un movimento di massa convinto della necessità di abolire ogni forma di sfruttamento e di uso degli animali. Quindi la differenza tra liberazionismo e abolizionismo non consisterebbe nel richiedere una “liberazione degli individui animali nella sua accezione più ampia” (richiesta che è propria anche degli abolizionisti) né nel considerare “come referenti per il cambiamento il singolo individuo umano e la società civile” (il che vale anche per gli abolizionisti). Nemmeno in una differenza rilevante nella concezione di antispecismo (anche gli abolizionisti si definiscono antispecisti, perché rifiutano in toto la discriminazione di specie e chiedono la cessazione di qualunque uso degli animali). Forse la vera differenza tra liberazionisti e abolizionisti sta nel punto di caduta dell’azione finale, dopo che sia stata raggiunta una consapevolezza diffusa della ‘questione animale’ e un superamento del pregiudizio specista. Per gli abolizionisti il punto di caduta è la modifica delle leggi, per i liberazionisti qual è? Il comportamento di disobbedienza individuale e collettiva a leggi ritenute ingiuste che conseguentemente finiranno per essere totalmente disattese?

Risposta: Prima di tutto è necessario specificare che il mio libro – proprio in quanto manifesto – non intende approfondire gli argomenti affrontati, ma solo fornire definizioni e considerazioni di carattere generale per stimolare delle riflessioni. Per tale motivo anche la questione legata alle differenze tra posizioni abolizioniste e liberazioniste è stata solo accennata. Inoltre credo sia opportuno sottolineare che questo argomento è già stato dibattuto numerose volte in passato in ambito animalista e antispecista, senza peraltro giungere a soluzioni condivise. Dunque rispondendo alla domanda, fornirò esclusivamente la mia opinione e versionepersonale.
Il vocabolario Treccani alla voce ‘abolire’ scrive “v. tr. [dal lat. abolere] (io abolisco, tu abolisci, ecc.). – Sopprimere, annullare, in genere con una disposizione dell’autorità competente: a. una tassa, a. una legge, un’istituzione, un ordine religioso; a. la coscrizione obbligatoria”.
Se riteniamo accettabile questa definizione, allora in genere l’atto di abolire una disposizione o una legge è svolto da un’autorità che Treccani indica come “competente”. Il movimento abolizionista di cui Francione fa parte, lavora esattamente per questo scopo. Nella vostra domanda scrivete “secondo lui, non ha senso richiedere cambiamenti di leggi e norme se prima non si è creato un movimento di massa convinto della necessità di abolire ogni forma di sfruttamento e di uso degli animali”, questo mi pare più che ovvio perché senza un movimento di massa capace di esercitare una pressione politica, le richieste abolizioniste non avrebbero alcuna forza e possibilità di essere accolte. Dunque un movimento di massa è necessario per dare vigore alla richiesta all’autorità competente.
Possiamo analizzare l’abolizionismo da molte prospettive differenti, in ogni caso si tratta di un movimento che intende trovare una soluzione allo sfruttamento animale facendo abolire le leggi che permettono pratiche dannose per gli Animali e tale atto (l’abolizione) è, come si diceva, una prerogativa dell’autorità. Una persona umana attivista senza incarichi istituzionali non è certamente in grado di abolire una legge, può disobbedire, può protestare contro di essa e può come indica Francione adoperarsi affinché le autorità competenti la aboliscano. In questo ultimo caso è necessario che per prima cosa l’attivista riconosca il ruolo dell’istituzione (ne riconosca il potere), la consideri in grado di risolvere il problema posto, poi che instauri un rapporto con questa istituzione per tentare di ottenere il provvedimento di abolizione. Dunque sebbene le persone umane abolizioniste siano sicuramente animate dalla volontà di dare la libertà agli Animali, rimane il fatto innegabile che per farlo avanzano richieste alle stesse istituzioni che esercitando il loro potere hanno legalizzato e tutelano le pratiche di sfruttamento animale. Ciò equivale a portare avanti una lotta antispecista mediante delle richieste alle stesse istituzioni che rendono materialmente possibile lo specismo che si intende combattere. L’abolizionismo ovviamente si rivolge anche alla società civile e ai singoli soggetti umani, per fare in modo di creare il movimento di massa di cui sopra, ma come evidenziato il suo “punto di caduta” è l’abolizione di una legge o un provvedimento in vigore che ritiene ingiusto, non un cambiamento radicale del sistema che regola e regge la società umana specista. Se invece così fosse, un ipotetico abolizionismo antisistema dovrebbe chiedere alle istituzioni a cui si rivolge (le colonne portanti del sistema stesso) di prendere dei provvedimenti suicidi. Pertanto è possibile affermare che l’abolizionismo ha un approccio inevitabilmente riformista alla questione animale e dato che i mezzi per ottenere un fine sono già la concretizzazione del fine stesso, molto probabilmente non persegue fini identici a quelli del liberazionismo, che invece ha a mio avviso concezioni del problema e della soluzione sostanzialmente più radicali.
Se è vero che la tragedia animale deriva dallo specismo che pervade la società umana e che condiziona ogni nostro pensiero, allora i referenti principali per ottenere la liberazione degli Animali sono il singolo soggetto umano e la società di cui fa parte. Singolo soggetto e società che per poter liberare gli Animali, devono prima liberarsi dalla visione specista dei viventi. Le istituzioni che gestiscono le società umane attuali (lo stato, la religione, la scienza, la scuola, l’università, ecc.) rappresentano l’architettura gerarchica e segregazionista dell’ideologia specista dei viventi: la teorizzano, la normano, la realizzano, la tutelano e la perpetuano. Pertanto l’attivismo liberazionista non dovrebbe avere con esse dei rapporti. Il “punto di caduta” del liberazionismo comprendendo per intero la critica alla società umana, è dunque da un lato l’obiezione alle pratiche speciste e alle strutture che le rendono possibili e dall’altrol’azione nonviolenta utile a concretizzare la liberazione degli individui animali. L’abolizione di una legge specista non può essere il “punto di caduta” del liberazionismo, anche perché l’abolizione o l’emanazione di una legge, non significano automaticamente un cambiamento o addirittura un’evoluzione della società umana: per esempio un conto è non uccidere qualcuno perché non è un atto che consideriamo moralmente accettabile, un altro è non farlo per paura di subire una punizione prevista da una legge. Questo aspetto rende la posizione abolizionista ancora più debole.
L’attivista liberazionista pensa che di fatto il raggiungimento della liberazione degli Animali dalla schiavitù imposta dalla nostra specie, si realizzerà attraverso la fine della società specista umana così come la conosciamo oggi, dunque anche delle stesse istituzioni speciste. La prospettiva liberazionista è quella di un cambiamento strutturale della società umana, non una sua riforma.

Domanda 6. Il termine “vegano”. “Utilizzo il termine “veganismo etico” solo per distinguere il veganismo come filosofia morale dalle pratiche adottate per mere motivazioni salutistiche, culinarie, dietetiche o similari, impropriamente definite “vegane”, ma che in realtà poco o nulla hanno a che vedere con giustizia interspecifica, empatia e compassione.” Domanda un po’ provocatoria: secondo te, ha ancora senso usare il termine “vegano” (anche se necessariamente in accoppiata con “etico”) viste le molteplici derive che ne stanno inflazionando il significato e indebolendo la connessione con il referente originario? O abbiamo bisogno di parole nuove? Forse solo antispecista?

Risposta: Per quanto mi riguarda non solo ha ancora senso utilizzare il termine “vegano”, ma nella situazione in cui ci troviamo è sempre più necessario farlo. Il veganismo è una filosofia morale che spesso non è conosciuta e compresa appieno nemmeno da coloro che affermano di seguirla: tale mancato approfondimento dei veri principi vegani credo che sia davvero preoccupante. La distinzione che faccio nel libro è esclusivamente a favore della comprensione del testo, proprio per evitare in chi legge la confusione tra il pensiero vegano delle origini a cui mi riferisco e le numerose attuali derive strumentali, che ne hanno pesantemente compromesso l’immagine e l’identità.
Se dovessimo inoltre abbandonare ogni termine che corre il rischio di essere inflazionato, banalizzato o strumentalizzato, temo che ora lo si dovrebbe fare anche per l’antispecismo. Più che di parole nuove credo che abbiamo un urgente bisogno di comprendere finalmente appieno e metabolizzare concetti rivoluzionari già esistenti e oggi più che mai importanti e utili.

Domanda 7. Veganismo come mezzo o come fine. C’è un passaggio nel libro che affronta criticamente il tema del veganismo come fine: ““Il termine indica una filosofia morale che prevede l’esclusione, dalla vita di coloro che la seguono, di tutte le forme di sfruttamento, uccisione e crudeltà nei confronti degli Animali. In altre parole, una persona umana vegana non solo non mangia né carne né pesce, ma neppure latticini, uova e miele. Non indossa capi in pelle, lana, seta o pelliccia, non consuma prodotti derivanti dallo sfruttamento animale diretto o indiretto; non compra o vende Animali, non partecipa ad attività che contribuiscono a sfruttare o danneggiare gli Animali. Respinge e boicotta tutte le pratiche umane che prevedono sfruttamento, tortura, prigionia, dominio e/o uccisione di Animali, quali ad esempio allevamento, zoo, circhi, sperimentazione animale, caccia, pesca, feste e competizioni con Animali, ecc. È importante sottolineare che il veganismo non è né un fine, né uno stile di vita da seguire, bensì una filosofia morale che interessa e permea ogni attività quotidiana di chi laadotta, giungendo, attraverso le sue pratiche, a modificare radicalmente i comportamenti individuali e ogni rapporto sociale.” A proposito del veganismo e delle sue derive, pensi che oggi siamo di fronte, per alcuni/e, a una confusione tra mezzi e fini? Cioè del veganismo come fine e non come mezzo per la cessazione di ogni forma di sfruttamento e uso degli animali non umani (e più in generale di un cambiamento sociale e relazionale profondo)?
Come siamo arrivati a questa confusione? C’è un ruolo del mercato nel mantenerla e alimentarla? Come contribuire a far sì che gli umani riescano a distinguere meglio tra mezzi e fini?

Risposta: C’è una confusione assoluta nel percepire il veganismo, non solo da oggi ma purtroppo sin dalla sua nascita. E’ questa una delle cause principali che lo hanno condotto verso un’inaccettabile degradazione a mero stile di vita o a moda culinaria commercialmente molto interessante. Quelle che nel libro “Disobbedienza vegana” definisco il “consumismo vegano” e i “falsi veganismi”, sono le due principali aberrazioni del pensiero vegano ridotto a tendenza di mercato e a pratica strumentalmente utilizzata per i motivi più disparati. La mancata comprensione (o addirittura conoscenza) del messaggio originale da parte dell’ambiente vegano a cui facevo cenno nella precedente risposta, ne ha causato un’atomizzazione con conseguenti interpretazioni errate di ciò che il veganismo dovrebbe essere. Per questo oggi il veganismo a seconda di chi lo osserva, può apparire un fine, una semplice pratica o un mezzo per perseguire scopi non solo inerenti alla questione animale, ma altri e totalmente diversi. In realtà è una filosofia morale da adottare come mezzo per l’ottenimento della liberazione degli Animali dal dominio umano, dunque di una società umana finalmente aspecista, nonviolenta e compassionevole. “Il veganismo è essenzialmente una dottrina di libertà” scriveva nel 1955 Leslie J. Cross, è la libertà pertanto il fine a cui si deve aspirare.

Domanda 8. Dominio. Nel libro, fornisci una definizione di dominio nel contesto della relazione con gli altri animali: “A tal proposito, è importante definire il concetto di dominio per tentare di comprendere quando la società umana diviene specista praticandolo sulle altre specie viventi. Si potrebbe definire “sfruttamento” il controllo (totale o parziale) del ciclo biologico di un altro essere vivente fino a fargli perdere l’autonomia.” Quali riflessioni ti senti di fare in relazione all’aumento delle forme di controllo, sorveglianza e indirizzamento (più o meno autoritario) ambientale, fisico, digitale, cognitivo ed emotivo che caratterizzano le società contemporanee (sia quelle capitalistiche -cfr. il capitalismo della sorveglianza- sia quelle di altra derivazione)? Si stanno applicando modalità sempre più pervasive e oppressive di dominio che ricordano (in modo comunque attenuato) quello che viene da sempre esercitato sugli altri animali? Possiamo considerarle varie facce, anche se molto diverse, della stessa medaglia del dominio? Oppure si tratta di forme di dominio sostanzialmente diverse?

Risposta: La volontà di dominio è purtroppo una delle caratteristiche salienti della nostra specie unitamente all’aggressività, e le società umane del passato e del presente sono contraddistinte da realizzazioni più o meno marcate di tale volontà. Certamente la forma di dominio di più semplice realizzazione, è quella nei confronti di coloro che non sono in grado di reagire adeguatamente alle nostre azioni coercitive e alle nostre aggressioni e che non rientrano nella nostra sfera morale. Dunque i primi ad aver subito (e che subiscono ancora oggi sempre più) il nostro dominio sono gli altri viventi non umani (senzienti e non), inoltre aggiungerei anche gli ambienti naturali che troppo spesso in ambito antispecista ci dimentichiamo di considerare. In effetti la Terra è da sempre un territorio di conquista e di dominio per la nostra specie, che non risparmia tale trattamento nemmeno ai suoi stessimembri, anche se non con le medesime intensità, forme e dinamiche. Considerando la situazione a noi più vicina, la società ipertecnologica del controllo in cui viviamo ci instilla artatamente mille paure: siamo vittime di un bombardamento tossico di informazioni (infossicazione) che ci riducono a soggetti spettatori impotenti e inducono un senso di insicurezza, paura e paranoia. Le stesse fonti responsabili di tale stato delle cose, ci forniscono al contempo una soluzione: il controllo in cambio della sicurezza. E’ così che l’Umano moderno nella maggior parte dei casi finisce per preferire la sicurezza alla libertà, quasi sempre credendo ingenuamente di esercitare ancora il libero arbitrio. Una sorta di prigioniero volontario senza nemmeno la capacità di vedere le proprie catene. Quanto descritto seppur preoccupante e molto pericoloso, è però lontanissimo da ciò a cui sono costretti gli Animali. Sebbene esistano somiglianze e punti di contatto e sebbene la volontà di controllo e dominio pare essere sempre la stessa, quello che la nostra specie impone alle altre è mostruoso e senza eguali, perché non essendo vittime umane non hanno secondo noi la possibilità di godere nemmeno del più elementare diritto. Dunque se la volontà di dominio umana è sempre uguale, le sue modalità di attuazione sono invece enormemente diverse a seconda dei soggetti sottoposti al dominio, è probabile quindi che si possa parlare di facce molto diverse di una stessa medaglia.

Domanda 9. Nonviolenza. La pratica della nonviolenza come modalità di trasformazione dell’esistente è un aspetto che, dalla sua nascita, caratterizza il nostro collettivo. Abbiamo quindi molto apprezzato questo passo del tuo libro: “Esso si pone come pensiero filosofico e politico assolutamente indipendente, slegato da logiche, pratiche e politiche passate e presenti, che rifiuta fermamente l’uso della violenza contro ogni essere vivente (Umano compreso) come metodo di lotta e capace di ispirare una prassi di trasformazione radicale dell’esistente. Un pensiero che, nel momento in cui rivoluziona i rapporti interspecifici (Umano-Animale), non può che trasformare anche i rapporti intraspecifici (Umano-Umano).” Perché, secondo te, la concezione della nonviolenza e le pratiche associate sono così spesso fraintese e talvolta addirittura denigrate anche all’interno di alcuni movimenti per il cambiamento sociale? Può avere a che fare con la già ricordata necessità del (non realizzato) cambiamento interiore?

Risposta: In una società come la nostra in cui vige la legge del più forte e sempre più tutto si decide in base a forme di violenza e competizione, il pensiero nonviolento (ove sia concretamente applicabile) rappresenta una discontinuità dalle conseguenze dirompenti. Essendo l’antispecismo un pensiero antisistema che si oppone alla discriminazione, allo sfruttamento, al dominio e alla violenza che la società umana esercita sugli Animali, l’approccio nonviolento risulta assolutamente compatibile e condivisibile: è con la violenza (in tutte le sue forme) che assoggettiamo e controlliamo gli Animali e gli altri viventi, e non può certo essere per mezzo di essa che riusciremo a liberarli. L’Umano deve rinunciare alla sua volontà di dominio e alla violenza, sanando il suo rapporto patologico con gli altri viventi e il pianeta Terra, solo così si potrà giungere alla liberazione animale. Il problema evidentemente è circolare e se non cambiamo dal nostro interno, tutto tornerà a riproporsi esattamente come al principio.
La nonviolenza viene spesso denigrata e attaccata perché non la si conosce e si pensa che coincida con la rinuncia a qualsiasi tentativo di opposizione, così come si pensa che l’anarchia significhi caos, tutto ciò (ovviamente) è una conseguenza di approcci superficiali, di ignoranza e nel caso dell’ambiente antispecista di un mancato cambiamento interiore frutto di una seria autocritica.

Domanda 10. Sinergie. Nel tuo libro, evidenzi possibili sinergie tra antispecismo e altri movimenti e idee come la Decrescita e l’Ecologia profonda: “Per tali motivazioni, l’antispecismo ben si coniuga con concetti come quello della Decrescita, che con le sue proposte di pratiche virtuose, se interpretata in chiave non antropocentrica, potrebbe essere molto utile per la costruzione di una società umana futura in armonia con gli altri viventi. Lo stesso dicasi per quanto riguarda le posizioni non antropocentriche nell’ambito dell’Ecologia profonda.” L’Ecologia profonda, in particolare, affronta il tema del superamento dell’antropocentrismo, per lo meno nella concezione di Arne Naess e di Devall & Sessions. Però la tutela degli ecosistemi pone spesso problemi di non semplice soluzione. Ad esempio, come risolvere concretamente il possibile conflitto tra la difesa di un ecosistema esistente e la difesa di animali non umani di recente introduzione che possono modificare i suoi equilibri? Pensiamo al tema delle ‘specie aliene’: come tutelare le specie già insediate e non danneggiare quelle ‘aliene’? Sei contrario o favorevole all’intervento umano in questi casi, peraltro spesso conseguenti alla precedente azione sconsiderata dell’umano (ovviamente minimizzando il disagio e non facendo male ad alcuno/a)?

Risposta: L’antispecismo sarebbe incompleto e privo di una concreta efficacia se non considerasse anche le problematiche ecologiche. La Terra oltre a essere la casa comune di tutti i viventi è la generatrice di una rete della vita talmente complessa e profonda, che lei stessa dovrebbe essere considerata a pieno titolo un enorme vivente e come tale rispettata. Per questi motivi una sinergia con altre discipline come la Decrescita e l’Ecologia Profonda è non solo auspicabile, ma necessaria, sempre che vi sia un approccio non antropocentrico (cosa per nulla scontata). Comprendo a livello ecologico cosa possa significare una specie aliena introdotta (quasi sempre a causa di attività antropiche) in un ambiente naturale, sarebbe però opportuno prima considerare che la specie vivente terrestre più invasiva e colonizzatrice (e dunque aliena per molti ambienti) è proprio la nostra. Pertanto prima di preoccuparci della presenza per esempio delle Nutrie nei fiumi della Pianura Padana, sarebbe doveroso riflettere sul fatto che non esiste luogo sul pianeta in cui la nostra specie non si sia insediata e non abbia modificato pesantemente (e spesso irrimediabilmente) il territorio, danneggiando o distruggendo molte specie autoctone. Abbiamo inoltre avviato da tempo progetti di colonizzazione di altri pianeti che verosimilmente subiranno lo stesso trattamento riservato al nostro, se non peggiore.
Abbiamo molti problemi da risolvere e molti danni da riparare, prima di pensare a ciò che potrebbero causare all’ambiente gli altri viventi.

Domanda 11. Pensiero antispecista. La lettura del tuo libro e il riferimento al painismo sembrano indicare la una tua maggiore vicinanza a Ryder, rispetto a Regan e Singer (secondo i quali le differenti capacità cognitive degli animali hanno comunque un peso nelle decisioni di carattere morale). Puoi dirci qualcosa in più su quello che condividi e quello che invece non ti convince nel pensiero dei tre? C’è qualche altro teorico animalista/antispecista che ritieni particolarmente rilevante per la genesi di “Manifesto Antispecista”?

Risposta: Ritengo il concetto di painismo introdotto da Richard Ryder nei primi anni duemila interessante, in quanto via alternativa e maggiormente inclusiva rispetto alla posizione utilitarista incentrata sugli interessi di Peter Singer e a quella giusnaturalista sui diritti animali di Tom Regan. Il painismo è una teoria che si fonda sul rispetto dei soggetti viventi di qualsiasi specie che sono in grado di percepire la sofferenza fisica e/o psicologica e ritieneche tale capacità e l’intensità della sofferenza subita da un individuo, debbano essere al centro della nostra morale per valutare le azioni che lo riguardano. Ryder nella sua teoria parla di “pain” (da cui painism, painismo) considerando la capacità dei viventi di percepire il dolore; in realtà egli si riferisce al dolore nella sua interpretazione più ampia di esperienza negativa di varia natura, quindi non solo la sofferenza provocata da un male fisico, ma comprendendo tutte le forme di sofferenza come la paura, l’ansia, l’angoscia, gli effetti della prigionia, la noia. Ryder al contrario di Singer si concentra esclusivamente sulla sofferenza individuale del singolo soggetto dandole rilevanza morale a prescindere dal vantaggio utilitarista per la maggioranza o per la comunità. Certamente anche Singer si occupa del dolore animale, ma la differenza è sostanziale perché l’obiettivo di Ryder è sempre e comunque la riduzione in assoluto del dolore, anche solo per un singolo soggetto: nel 2002 scrive “ciò che accade a un individuo cosciente è l’universo per quell’individuo”, questo punto di vista considerando la questione animale è enormemente rilevante.
La posizione di Ryder può essere valutata come alternativa anche a quella di Tom Regan (che sento molto più vicino di Singer), autore che ha avuto il grande merito di concentrarsi sull’individuo, considerando un suo valore intrinseco, limitandosi però solo agli esseri viventi dotati di autocoscienza (soggetti-di-una-vita), dunque escludendo quasi completamente dalla considerazione morale un vastissimo numero di specie viventi non reputate in possesso di un minimo di consapevolezza (secondo parametri umani) o di un livello cognitivo tale da essere titolari di diritti. Vedo invece nella proposta di Ryder una possibilità di apertura nella considerazione degli individui animali teoricamente molto maggiore rispetto a quella di Regan; anche se nei suoi scritti Ryder fa riferimento quasi sempre agli Animali vertebrati, la sua posizione potrebbe essere in grado di reggere a un indispensabile allargamento della nostra sfera morale per comprendere molte altre specie animali ben più lontane da noi. Anche uno Scarabeo o un Lombrico possono provare varie forme di sofferenza, dunque vanno rispettati. La teoria del painismo di Ryder quindi pare avere diverse potenzialità ancora da sviluppare, è un gran peccato che sia poco conosciuta e ancor meno considerata.
Oltre a quelle citate, altre figure di riferimento della mia formazione antispecista che sono state utili per la genesi del Manifesto Antispecista sono in ordine sparso: Charles Patterson, Paul W. Taylor, Steven Best, David Nibert, Jim Mason e Steve Sapontzis, ma anche Anna Maria Ortese, Chris DeRose e Barry Horne perché l’antispecismo non è solamente teoria, ma anche sentimento, denuncia, impegno personale e azione.

Domanda 12. Siamo in troppi? Una questione che emerge nel libro è quello del sovrannumero della popolazione umana: “Quello che sin d’ora appare più che sicuro è che una futura umanità aspecista non potrà esistere se continueremo a crescere demograficamente aumentando il nostro già pesantissimo impatto sul pianeta; è quindi lecito pensare che una società aspecista sarà costituita da un numero molto esiguo di Umani, che potrebbero stabilirsi in areali circoscritti che ci siano favorevoli per clima, condizioni ambientali (presenza di acqua dolce, vegetazione, ecc.) e con terreni adatti alla coltivazione e raccolta di un’ampia varietà di Vegetali.” Una posizione simile emerge nell’ambito dell’ecologia profonda, oltre a essere una questione posta da alcuni autorevoli biologi già da molti anni. Ma è anche una posizione dibattuta dal punto di vista etico, ad esempio da vari movimenti per la giustizia climatica che sostengono che il problema non è il sovrannumero quanto l’iniquità nel consumo di risorse e negli assurdi ‘stili di vita’ di una piccola parte della popolazione mondiale. Come risponderesti a queste considerazioni?

Risposta: Il problema della crescita demografica umana ritengo che sia uno dei nodi più urgenti dasciogliere per poter sperare in un futuro positivo per noi e il pianeta Terra. Certamente si può parlare dell’enorme iniquità in ambito umano nella distribuzione e disponibilità delle ricchezze della Terra, di stili di vita e di modelli di sviluppo assurdi, energivori e distruttivi, dell’impronta ecologica devastante dei Paesi maggiormente industrializzati e via discorrendo; tutte argomentazioni estremamente importanti e gravi, ma la questione principale credo rimanga sempre la stessa: siamo sempre di più e come specie non intendiamo autoregolarci in base a quanto la Natura è in grado di darci. Ciò unitamente al fatto che tendiamo a trasformare l’ambiente in cui viviamo adeguandolo alle nostre esigenze e non invece adattandoci come in genere fanno gli altri Animali, sta causando la devastazione delle foreste, l’inquinamento dei mari e degli oceani, l’estinzione di massa delle specie viventi, disastri ambientali e climatici con conseguenti migrazioni e conflitti. Pertanto anche se giungessimo a un’equa distribuzione delle ricchezze terrestri e ad una diminuzione del loro consumo mediante nuovi e più responsabili stili di vita, al punto in cui siamo tutto questo non sarebbe più sufficiente. La necessaria e inevitabile diminuzione del nostro impatto devastante sulla Terra e sui viventi, dovrà per forza significare anche una massiccia diminuzione del numero di individui umani.

Domanda 13. Scienza e tecnologia. Un altro tema ‘caldo’ è quello del rapporto con la scienza e la tecnologia. Nel tuo libro si legge: “Un futuro aspecista non è sinonimo di “ritorno alle origini” o di primitivismo, ma di uso responsabile e non specista delle conoscenze umane, della scienza e della tecnologia impiegate per comprendere e convivere e non per sfruttare, lucrare e dominare. Dunque per la costruzione di una società umana orientata alla maggior integrazione e coesistenza pacifica possibile tra i viventi.” Ci sembra una posizione simile a quella di Bookchin, che noi condividiamo. D’altro canto, parte della scienza è oggi (e non da oggi) pesantemente condizionata da interessi economici non certo rispondenti a considerazioni antispeciste e la tecnologia, concentrata nelle mani di pochi grandi gruppi, svolge un ruolo fondamentale nel sostegno al consumismo, al capitalismo e al controllo di massa. Come possiamo riappropriarci della scienza e della tecnologia per orientarle a buon fine? Secondo te chi opera nella scuola, nella ricerca pubblica e nell’università potrebbe/dovrebbe avere un ruolo in questo processo oppure il processo deve avvenire soprattutto in altri contesti?

Risposta: Come già evidenziato la scienza è uno dei pilastri che reggono l’architettura specista della nostra società e in quanto tale ha un’enorme responsabilità per quello che stiamo facendo agli altri viventi e al pianeta. Al netto degli ovvi e pesanti condizionamenti che la scienza subisce da parte dell’industria e del mercato (situazione comune ad ogni attuale attività umana) è necessario riflettere sui motivi e sui fini originari che ci spingono a fare ricerca scientifica, nonché sui metodi adottati, per individuare quali dovrebbero essere i comportamenti etici da rispettare per non causare i danni che stiamo causando. Il problema di fondo della scienza riguarda discipline come l’etica della scienza e la bioetica. Dunque più che di riappropriazione, direi che sarebbe opportuno parlare di reinterpretazione della scienza in chiave antispecista: insomma rifondarla, individuando una nuova etica, metodi, utilizzi adeguati e soprattutto limiti affinché la scienza smetta di essere la punta di diamante dello specismo applicato e un’arma per la conquista della Natura.
Coloro che operano nella scuola e nell’università grazie al loro ruolo, potrebbero certamente contribuire a fornire nuove chiavi di lettura alle future generazioni umane, a patto che ovviamene prima abbandonino il paradigma specista. Ciò che vale per la scienza, vale in egual misura per la scuola e l’università.

Domanda 14. Pensiero conclusivo. Vuoi condividere un pensiero conclusivo con chi segue il Collettivo?

Risposta: Vorrei condividere con voi una frase di Anna Maria Ortese tratta da una sua lettera a Guido Ceronetti che sento profondamente mia: “il dolore degli animali è ormai il primo dei miei pensieri, e giudico perfino il «genio» da quel rapporto: se c’è o non c’è, con l’indignazione”.

Domanda 15. Dove. Dove si può trovare il nuovo “Manifesto antispecista”? Hai intenzione di presentarlo in giro?

Risposta: Il libro attualmente è disponibile solo in formato digitale (epub) e lo si può leggere con qualsiasi dispositivo elettronico. Si può trovare nelle maggiori librerie online e ovviamente sul sito web manifestoantispecista.org. È prevista anche una versione in formato pdf ottimizzata per la stampa fai-da-te e attualmente ancora in lavorazione. Questa scelta è dettata dal fatto che ritengo scandaloso e ingiustificabile l’attuale enorme consumo di carta. Per il momento non prevedo di fare delle presentazioni come accaduto in passato per la penultima edizione, in futuro vedremo.

16. Grazie. Grazie mille Adriano, per il tuo impegno e l’amicizia sempre dimostrata nei confronti del Collettivo.

Grazie a voi per il vostro lavoro, l’interesse e lo spazio che mi avete dedicato.


Se hai letto fin qui vuol dire che questo testo potrebbe esserti piaciuto.
Dunque per favore divulgalo citando la fonte.
Se vuoi Aiuta Veganzetta a continuare con il suo lavoro. Grazie.

Avviso legale: questo testo non può essere utilizzato in alcun modo per istruire l’Intelligenza Artificiale.

2 Commenti
  1. Claudio ha scritto:

    Complimenti vivissimi al Collettivo Tana Libera Tutti per questa intervista strepitosa.
    13 domande e risposte assolutamente necessarie che approfondiscono i concetti esposti nel Manifesto Antispecista.
    Vorrei aggiungere una domanda, ovvero quanto l’approccio “liberazionista” sia influenzato dalla corrente dell’anarco-veganismo e se quest’ultimo possa esserne considerato la matrice.
    https://www.anarcopedia.org/index.php/Anarco-veganismo

    Mi hanno colpito anche altre due cose, a chi hai rivolto la dedica, poichè anche io mi sono ritrovato a riflettere amaramente su quanto la mia condizione di insipienza avesse irrimediabilmente danneggiato gli altri prima di realizzare e prendere consapevolezza della questione Animale.
    In secondo luogo in chi hai condensato i ringraziamenti: Romina Kachanoski, Psicologa Vegana. Antispecista. Creatrice del concetto «Violenza Specista». L’ho vista citata in pochi articoli qui su Veganzetta, approfondirò i suoi lavori.

    3 Novembre, 2022
    Rispondi
  2. Veganzetta ha scritto:

    Caro Claudio,

    Grazie per le tue parole che sono davvero gradite.

    Tra liberazionismo e anarco-veganismo ci sono ovviamente numerosissimi punti di contatto. Certamente l’ambiente liberazionista essendo interessato alla liberazione più completa dei viventi, si pone in modo fortemente critico nei confronti della società umana gerarchica e antropocentrica, mutuando molti concetti dal mondo anarchico in fatto di lotta non per l’assunzione del potere, ma contro il potere stesso.
    Lo specismo che il liberazionismo intende combattere è dunque una ulteriore tappa (questa volta enorme e esterna alla sfera umana) del processo di liberazione degli individui.
    Non è possibile affermare che l’anarco-veganismo sia la matrice del liberazionismo, nel senso che tale derivazione non è automatica: certamente le due entità sono molto vicine e spesso sovrapponibili, ma non identiche. Potrebbero magari essere considerati due percorsi che da direzioni diverse convergono su posizioni comuni.

    La dedica del libro è un atto dovuto e una chiara ammissione di colpa che certamente non rende giustizia ma perlomeno indica una presa di coscienza e la volontà di un riscatto.

    Romina Kachanoski è una ricercatrice e autrice antispecista di grande importanza, che è stata fondamentale per la redazione di questa ultima edizione del Manifesto Antispecista e per questo compare nei ringraziamenti. Purtroppo il suo lavoro è ancora poco conosciuto in Italia a causa della barriera linguistica, appena possibile su Veganzetta le verrà dato lo spazio che indubbiamente merita.

    4 Novembre, 2022
    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *