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“Due occhi simili a lanterne
Quelle che splendono nei porti
Quando l’avere occhi di scorta
Farebbe gola ai marinai
Per osservar la notte altrui
Così come uno scimpanzé
Presso i Ferré
Pépée”
L. Ferrè, “Pépée” in “Ferrè 69”, 1969
Come gli ammiratori di Léo Ferré sicuramente sapranno, il poeta e musicista aveva adottato, insieme alla seconda moglie Madeleine, un cucciolo di Scimpanzé.
Una scimmia di nome Pépée divenuta protagonista di una delle più struggenti e celebri composizioni e della vita del cantautore a partire dal 1961.
In realtà, va ricordato come premessa, il cantautore si circondò di Animali per tutto l’arco della sua esistenza e questi popolarono numerosi le sue residenze di campagna così come le sue opere.
Il rapporto fra Ferrè e gli Animali viene infatti definito in molte trattazioni “speciale”, fatto di “affetto e necessità di coesistenza nonché protezione e paternità”.
I Cani, i Gatti, il Maiale Baba, le Mucche Charlotte, Titine e Fifine e il Toro Arthur furono infatti solo alcuni dei “coinquilini” adottati dalla famiglia Ferrè, ma è senza dubbio il legame con Pépée quello più significativo per il cantautore monegasco così come per il resto dei suoi familiari. La figlia di Madeleine, Annie Butor, adolescente all’epoca, ricorda gli eventi connessi alla convivenza con la femmina di Scimpanzé in un libro dal titolo “Come potrei dimenticare” che ne mette in evidenza la tragicità e ci spinge a delle riflessioni sul rapporto fra Animali umani e non umani specie alla luce del tragico epilogo della vicenda. Come si concretizzò in effetti questo legame speciale? E che conseguenze ebbe sulla vita dei Ferrè e, sopratutto, su quella della Scimmia Pépée?
Dalle parole di Annie riusciamo senza dubbio a estrapolare indizi utili, a comprendere quello che doveva essere lo scenario che si presentava davanti agli occhi di chiunque visitasse la residenza del poeta presso Pechrigal e, soprattutto, con quale forza la presenza di Pépée avesse determinato, fin dal suo arrivo, un drastico cambiamento delle comuni abitudini di vita. Nonostante le raccomandazioni accorate di chi gliel’aveva affidata, infatti, Ferrè aveva scelto deliberatamente di gestire la convivenza con la Scimmia secondo il suo modo di pensare relativamente alle costrizioni e all’autorità. Non ascoltò, per questo, i consigli che gli erano stati dati e meno che mai giudicò potenzialmente problematico il fatto che Pépée avrebbe “ben presto raggiunto il metro e venti di altezza e sviluppato la forza di sette otto uomini”.
Chiare ci appaiono le parole di Annie riguardo al modo in cui Pépée viveva:
“Pépée aveva la sua stanza, i suoi giocattoli, faceva colazione con noi, guidava l’auto sulle ginocchia di Leo. La sera, prima di mettere il pigiama, beveva il tè prima di stringersi saldamente fra le sue braccia” (1).
Non solo, quindi, i Ferrè sottovalutarono senza dubbio i rischi pratici connessi allo sviluppo naturale delle peculiarità fisiche e caratteriali dello Scimpanzé, che infatti si palesarono in numerosi incidenti e episodiche aggressioni a visitatori e amici, ma si rapportarono con una Scimmia considerandola una vera e propria “seconda figlia” umana, le riservarono tutto quello che solitamente viene riservato a un bambino tanto da rivolgersi, nel caso di suoi problemi di salute, al medico di famiglia anziché al veterinario.
Se quindi il fatto di non adottare un atteggiamento impositivo nei confronti di Pépée potrebbe sembrare condivisibile fermandosi a un’analisi superficiale, va ricordato che questo si è affiancato a un insieme di comportamenti che resero evidente un meccanismo di antropomorfizzazione perpetrato nei confronti dello sfortunato Animale e che lo resero l’ombra di una Scimmia.
Annie soffrì molto per questo, perché messa da parte e costretta a crescere in costante competizione con Pépée fino al definitivo allontanamento. Difronte all’ultimatum: “O me o la scimmia”, infatti, Ferrè scelse Pépée.
Molte sono le versioni che possiamo trovare relativamente all’epilogo della vicenda (la morte di Pépée), seguito a una serie di incidenti che la Butor descrive fra le pagine del suo libro, tutte sicuramente molto tristi. La più accreditata pare essere quella secondo cui Pépée rimase vittima di un incidente che la ridusse in fin di vita, a seguito del quale Madeleine sarebbe stata costretta a ricorrere all’eutanasia.
Il tutto in assenza di Leo Ferrè. Chiaramente, appare ovvia conseguenza di quanto descritto in precedenza, questo causò anche la rottura del legame fra Leo e Madeleine che fu accusata di aver deliberatamente posto fine alla vita di Pépée. Probabilmente non sapremo mai come si svolsero realmente i fatti, se si sia trattato davvero di un incidente, sicuramente uno degli intenti di Annie Butor nel suo libro è difendere la memoria della madre dagli attacchi subiti a seguito della vicenda, dunque questo la rende, viste anche le sue personali sofferenze, probabilmente di parte. Poco importa in effetti, perché a prescindere da quale meccanismo abbia causato la fine dei giorni di Pépée, la tragedia era annunciata.
Nei fatti, questa ci spinge a riflettere profondamente sul legame, sicuramente morboso, instaurato dal cantautore e da sua moglie con Pépée e, più in generale, sul rapporto degli Umani con gli Animali non umani in situazioni di convivenza, sulla loro considerazione come individui e sul fenomeno della loro antropomorfizzazione.
La storia di Pépée costituisce un dramma per come si è conclusa, certamente, ma anche per le modalità del suo svolgimento, certamente dolorose per Pépée che ha finito i suoi giorni tragicamente dopo averli vissuti come un piccolo d’Umano, vedendo negato il suo essere individuo dotato di proprie caratteristiche, esigenze e peculiarità e vivendo un costante dissidio fra il suo essere Scimmia e il suo dover essere una Ferrè.
Sicuramente, sebbene inconsapevolmente, anche la famiglia ne soffrì. Nell’isolamento dagli amici, nella perdita del suo equilibrio e della serenità dei rapporti fra i suoi componenti.
Molto spesso, specie negli ultimi anni e parallelamente allo svilupparsi della zooantropologia, la questione dei cosiddetti “animali da compagnia” – definizione che non facciamo nostra, ma che utilizziamo solo al fine di evidenziare l’orientamento dell’atteggiamento generale sul tema – è stata affrontata sia nell’analisi delle motivazioni che spingerebbero gli Umani a circondarsi di Animali nella loro vita quotidiana, sia nella possibilità di costruzione di una cosciente responsabilità affettiva nei loro confronti una volta instaurato questo legame. Il trasferimento sugli Animali del bisogno tutto umano di circondarsi di oggetti, di possederli e di collezionarli, è un fenomeno che il filosofo francese Baudillard individua nettamente e le cui dinamiche ravvisiamo anche in questo caso.
Gli Umani considerano spesso gli esseri viventi non umani di cui si circondano, come delle specie intermedie fra l’oggetto e il vivente. Oggetti viventi di cui disporre, da possedere e da gestire secondo schemi consoni agli Umani e al loro sistema di vita e dinamiche che mettono da parte l’individualità dell’Animale in questione.
Del resto, capita molto spesso di sentire espressioni come “il mio Cane” o “il mio Gatto”, che, a prescindere da chiari limiti di carattere linguistico che ci impediscono di fare riferimento a chi ci sta vicino senza l’utilizzo di determinati termini, tradiscono proprio questo atteggiamento e questo senso di possesso. Gli Animali vengono fin troppo spesso personificati e su di loro vengono proiettate caratteristiche umane innescando un meccanismo di evidente confusione e completa inconsapevolezza delle loro effettive esigenze e delle loro peculiari caratteristiche.
Questo atteggiamento crea ovviamente negli Umani che se ne rendono artefici un sistema di aspettative che nascono già con la certezza di essere disattese: un Animale non potrà infatti mai soddisfarle, non perché inferiore, ma semplicemente perché non umano.
Aspettative che diventano pretese e che si trasformano, più o meno consapevolmente a seconda dei casi, in vere espressioni di violenza e repressione. Vite che diventano altre da se stesse; Gatti, Cani e altri Animali che divengono caricature, più simili a bambini che ai loro simili, vestiti, abituati ad assumere atteggiamenti propri degli Umani e, per questo, sicuramente infelici.
Il caso di Ferrè è emblematico, ed è per questo che ne abbiamo fatto oggetto di trattazione, perché mette senza dubbio in luce questo atteggiamento antropocentrico che, nello specifico, stride con una tanto millantata esaltazione della libertà e con un netto rifiuto dell’autorità tanto care al cantautore anarchico. Se la questione è senza dubbio spinosa già per quanto attiene a chi assume tale atteggiamento a partire da un senso comune dei concetti di libertà e imposizione dell’autorità, sicuramente lo è ancora di più se pensiamo che a sottovalutarne l’importanza di applicazione nell’ambito del rapporto con gli Animali, sia stato il grande poeta francese che ha totalmente ignorato l’identità di Pépée, che tanto diceva di amare.
Ferrè in realtà non ha mai visto Pépée, così come accade a molti Umani con gli Animali che li circondano; non la vedeva veramente perché non ne ha mai riconosciute e accettate l’alterità e l’unicità.
Ha amato quello che Pépée era costretta a essere, dalle condizioni in cui viveva e dal modo in cui è stata cresciuta, ma non è stato in grado – lui così come il resto della sua famiglia – di aver a che fare con la vera Pépée, quella che con tutta probabilità non avrebbe mai voluto indossare vestiti e guidare l’automobile.
Se l’espressione della libertà è l’espressione di se stessi, di quello che siamo e di quello che vogliamo essere, questo passa per il riconoscimento dell’altro, di quello che è e che vuole essere. Di Pépée, purtroppo, ce ne sono tanti, troppi. E non vogliamo affermare che sia impossibile costruire un rapporto con gli Animali non umani anche in ambienti che non siano i loro naturali, in situazioni di convivenza. In molti ci troviamo a vivere questa circostanza per svariate motivazioni. Quello che è però necessario fare, è ricordarci che abbiamo a che fare con individui, liberi così come noi vogliamo essere e dovremmo essere, ai quali in nessun caso possiamo chiedere che diventino altro da se stessi.
“Noi abbaiamo con armi nel muso
Armi bianche e nere
Nere come il terrore che vi assalirà
Bianche come la nostra verginità.
Io non scrivo come De Gaulle o come Saint-John Perse
Io parlo e urlo come un cane
Io sono un cane”
L. Ferrè , “Le Chien” in “Amour-Anarchie I”, 1970
Ada Carcione – Veganzetta
Note:
1) Tutte le citazioni dell’articolo derivano dal testo del libro Annie Butor, Comment voulez-vous que j’oublie. Madeleine et Léo Ferré, 1950-1973, Edizioni Phebus, 2013
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Molto triste e, purtroppo, sempre attuale.
Consiglierei di non inserire note prive di contenuto o uguale a note precedenti.
Per indicare lo stesso riferimento credo sia sufficiente ripetere nel testo la nota utilizzata anche in altre occasioni (la (1) in questo caso).
Grazie Danilo per il consiglio, le note sono state ottimizzate.
La storia di Pépée è davvero struggente, c’è anche da dire che sicuramente Ferré l’ha amata come una figlia, ma non ha tenuto conto del fatto che non era umana e che Pépée avrebbe voluto vivere semplicemente come una Scimmia.
Cara Ada, il tuo articolo è commovente e fa riflettere. Sono tra coloro che ammirano Leo Ferré: sapevo della scimmia e degli altri animali ma non conoscevo questi retroscena drammatici. La pessima abitudine di personificare e umanizzare i nostri animali è l’idea di dominio vestita in abito da sera ma purtroppo fatichiamo a rendercene conto. Li amiamo tanto, è vero, ma li amiamo nel modo sbagliato. Il caso di Pépée è emblematico, forse perché è una scimmia (che appare simile all’umano più di quanto appaia una gallina). Io stessa, quando guardo video di primati non umani mi ripeto “E’ come me” e mi commuovo sempre. La sfida, difficilissima da vincere, è proprio quella di guardare una salamandra con la stessa curiosità con cui si guarda una scimmia e restarne colpiti senza necessariamente dire. “E’ come me”.
A parte il caso di Pépée, accade anche con altre specie animali che abbiamo in casa. Trasferiamo su di loro le nostre abitudini per poi dire con soddisfazione “E’ come me” oppure “Gli manca la parola”, come se quello fosse un handicap. Un animale si esprime benissimo senza la parola perché per esprimersi non è necessaria una lingua ma è sufficiente un linguaggio, che non è affatto minoritario rispetto a una lingua. Inoltre, vedere un animale che ci imita nei nostri comportamenti non è proprio il massimo della soddisfazione. Casomai dovremmo essere noi a imitare gli animali un po’ più spesso.
Altro aspetto interessante che hai affrontato è il discorso del “mio gatto, mio cane…” E’ vero che associamo spesso l’aggettivo possessivo all’animale che vive con noi, come facciamo quando ci riferiamo a moglie, marito, figlie, figli, eccetera. E’ certamente una regola grammaticale ma con gli animali va prestata attenzione perché, mentre per un essere umano è chiara la rivendicazione di libertà, per un animale no. Ai sensi di legge, gli animali sono una “proprietà”. Nel codice doganale, gli animali sono alla voce “merce”, quindi vale tanto la “mia valigia” come “il mio cane”, certamente con regole diverse che tuttavia non mi fanno stare molto tranquilla.
Cara Paola,
hai ragione quando affermi che per quanto riguarda i primati è molto forte il meccanismo di immedesimazione. Senza dubbio suscitano in chi li guarda sensazioni amplificate dalla somiglianza con gli animali umani.
Tutto questo è sintomatico del meccanismo che ho provato a mettere in evidenza raccontando le vicende legate alla vita di Pépée, che veramente stento a definire tale ma che purtroppo accomuna troppi animali non umani.
Gli occhi con cui li guardiamo sono i nostri, ma la loro vita non ci appartiene.
Purtroppo è così che li definiamo, “nostri”, e così che ci rapportiamo a loro, come se il fatto che condividano con noi lo spazio in cui viviamo ci autorizzi a determinare ogni aspetto della loro esistenza. Fin troppo spesso non ne riconosciamo l’unicità e l’individualità e tendiamo a pretendere da loro risposte su terreni che non gli sono propri.
È triste ma credo che a partire dalla presa di coscienza dello stato delle cose possiamo provare a riscrivere la storia delle loro vite o, meglio ancora, possiamo provare a lasciargli la libertà di scriverle da loro.
Un articolo veramente interessante e molto utile alla presa di coscienza. Condivido tutto, soprattutto il commento di Paola Re.
Lo conserverò con cura, per rileggerlo più volte.
Per enfasi, riporto in copia questa porzione: “Gli Umani considerano spesso gli esseri viventi non umani di cui si circondano, come delle specie intermedie fra l’oggetto e il vivente. Oggetti viventi di cui disporre, da possedere e da gestire secondo schemi consoni agli Umani e al loro sistema di vita e dinamiche che mettono da parte l’individualità dell’Animale in questione. […]
Aspettative che diventano pretese e che si trasformano, più o meno consapevolmente a seconda dei casi, in vere espressioni di violenza e repressione. ”
Se analizziamo i comportamenti umani, spesso e mal volentieri, ritroviamo questo macabro atteggiamento di possesso. Si sente dire: “Il mio uomo”, “La mia donna”, “Il mio bambino” ecc.ecc.
Indipendentemente da un sentimento innato e primordiale, legato ad affetti e protezioni che concediamo ai nostri cari, troppo spesso confondiamo l’amore con il possesso, il quale, purtroppo e a volte, è manifestazione di uccisione e violenza. I casi di cronaca sono tanto eclatanti quanto terribili, e non è necessario riportarli qui…in un luogo dove si cerca di riflettere e capire perchè la mente umana è così confusa e difficile da esplorare, in un luogo dove si cerca di analizzare la sofferenza Animale come spunto di risoluzione ad una Liberazione mai quanto attesa.
Grazie a tutti.
Hai ragione Roberto. Sarà perché sono donna ma l’espressione “la mia donna” mi inquieta un po’. I casi di cronaca cui fai riferimento spesso partono proprio da espressioni come “la mia donna” infatti si definiscono come “amore malato”, “amore morboso” e similari. C’è sempre un aggettivo con una connotazione negativa accanto alla parola “amore” che di per sé dovrebbe essere positiva. Sono ossimori pericolosi: vale per esseri umani e non umani.
Vorrei aggiungere un pensiero oltre alle vostre profonde analisi. Il sistema economico, sempre a caccia di nuovi ambiti e fasce di ciechi consumatori ha agguantato al volo questo amore malato e distorto degli umani aprendo un mercato ridicolo e costoso di “abbigliamento” per i non umani che ha dei grossi fatturati annui. Quindi: o ti mangio o ti rendo sempre più’ simile a me. Sembra questo il pensiero che imperversa tra le persone che si reputano “amanti dagli animali”.
Ti “amo” , ti “posseggo” e ti agghindo come voglio io.
Quando vedo per strada poveri micro cani infilati in borsette fatte apposta per loro, con collari luccicati di strass, sento che la liberazione che ci auspichiamo e che cerchiamo serva anche a loro, ridotti a ridicoli oggetti di amore malato.
Cinzia
Sono d’accordo con te, Cinzia. Vada per i cappottini che, tutto sommato, in molti casi sono indispensabili perché i nostri animali di casa sono effettivamente abituati al clima di casa. E’ tutto il superfluo che gira attorno a questo “amore” che non va: accessori inutili che si pensa debbano migliorare la loro vita ma sono solo finto comfort e ovviamente business.
Ci sono certe foto in rete di animali conciati in modo tale da essere confusi con pupazzi: acconciature del pelo con elastici, fermagli e fiocchi, smalto sulle unghie, pigiama per andare a dormire, cappelli per “proteggerli dal sole”. Io credo che vadano protetti da chi li “ama”.
Cara Cinzia, il tuo pensiero è assolutamente corretto e veritiero. Tutti noi siamo nati e cresciuti nell’epoca più gloriosa del capitalismo moderno. Un sistema economico solo nel nome, ma non nella sua realtà, costituita invece da uno spreco infinito, un desiderio di possesso incontrollato, soddisfazione di bisogni materiali indotti da un marketing spietato. Ed è per questo che erroneamente consideriamo gli Animali come oggetti di possesso…e di conseguenza, o viceversa, anche le persone. Il mondo del lavoro è pieno di questi individui numerati e catalogati solo come forza produttiva, senza un carattere personale a cui le aziende non vogliono far riferimento in quanto non congruente ai fatturati. Bisognerebbe invece spiegare loro che è proprio grazie alla stimolazione e alla motivazione dei lavoratori che si ottiene il meglio dalle loro capacità e attitudini. In passato alcuni imprenditori coscienziosi lo avevano capito, ma oggi ormai tutto è esasperato e sfruttato.
Abbiamo goduto della speculazione, grazie all’uso smodato di ogni risorsa, e nonostante oggi ne stiamo pagando gli effetti collaterali, la corsa suicida sembra inarrestabile, pur senza considerare che molte popolazioni, soprattutto africane, non si sono mai rallegrate di questo colonialismo scellerato ed usurpatore, locomotore inarrestabile del mondo industrializzato. Gli Animali, che da sempre patiscono un antropocentrismo sanguinario, oggi più che mai sono diventati il simbolo sofferente di questo sfruttamento. Vittime innocenti perchè indifese…proprio come i bambini.
E anche se molti non credono nella propria crudeltà…chi oggi detiene, come possesso personale, un Animale d’affezione, dovrebbe porsi la seguente domanda: “Amare gli Animali è sinonimo di compagnia?”
La storia triste di Pépée ci insegna che nonostante la visione libertaria e ugualitaria di persone come Ferré, il nostro egoismo e l’incapacità di comprendere l’alterità e rispettarla è sempre dietro l’angolo. Ferré era convinto di amare Pépée, nella realtà lui amava l’idea che si era costruito di Pépée, ma non ha mai davvero amato né visto la Scimmia Pépée rendendola infelice. In definitiva lui amava ciò che di sé vedeva in Pépée.