Si legge in circa: 13 minuti
L’allevamento intensivo può essere considerato come l’apice di un lungo processo di sottomissione e controllo degli animali non umani per fini produttivi, che ha preso piede nel passato recente della storia dell’umanità. La meta dell’allevamento “senza terra” salutata come l’evoluzione e specializzazione dell’allevamento tradizionale, ha prodotto e produce enormi sofferenze agli animali e conseguenze disastrose all’ambiente profondamente modificato per soddisfare le pesanti necessità di tale pratica. La riduzione degli animali in schiavitù non solo è una terribile ingiustizia, ma sta significativamente contribuendo a portare la società umana verso il baratro della devastazione della Terra.
Gli animali-macchina costretti e rinchiusi in strutture lontane dai nostri occhi e dalle nostre coscienze, con i loro corpi segregati e ormai lontani dalla natura, causano loro malgrado e senza colpa una distruzione ecologica senza precedenti.
Testo di Adriano Fragano
Pubblicato originariamente nel libro L’errore antropocentrico. Uomo-natura-altri viventi, a cura di Bruno Fedi e Maurizio Corsini, Mimesis/Eterotopie, 2019, pp. 93-99.
L’allevamento: considerazioni su una strage invisibile
L’allevamento come pratica umana è un fenomeno socio-culturale e produttivo complesso, motivo di una quantità enorme di implicazioni (etiche, biologiche, ecologiche, sociali, economiche, politiche), che per essere analizzato compiutamente necessiterebbe di ben altro spazio. Mi concentrerò pertanto in questa sede solo nella trattazione dell’allevamento per fini alimentari degli animali non umani terrestri, con l’intento di fornire degli spunti di riflessione critica.
Breve cronistoria di un’ingiustizia
L’allevamento degli animali non umani viene fatto risalire al Neolitico con la specializzazione della pratica della domesticazione, ossia l’assoggettamento dei viventi al fine della convivenza con l’umano, divenendo uno degli elementi base di quella che l’archeologo Vere Gordon Childe ha definito “rivoluzione neolitica”. Notizie del ritrovamento in Medio Oriente di resti di animali non umani ritenuti domestici e allevati risalenti a circa 10.000 anni fa (F. Malossini, La domesticazione degli animali, Atti Acc. Rov. Agiati serie VIII, vol. 1 B, 2001), confermerebbero il “salto qualitativo” operato dalle popolazioni umane con le prime forme di allevamento. La domesticazione può essere pertanto intesa come propedeutica all’avvio di pratiche di gestione, reclusione e controllo rispondenti a una chiave di lettura specista del rapporto umano-altri animali, allo scopo di trarre vantaggi per la nostra specie.
Con la domesticazione si avvia – nello specifico – un percorso di evoluzione dello sfruttamento animale a beneficio dell’umano, il cui primo gradino consiste nel condizionamento forzato di numerose specie, che transitano così dallo stato di selvaticità a quello di domesticità, ossia da una condizione di libertà a una di dipendenza e di subalternità all’umano pressoché totale e continuativa nel tempo. Il secondo gradino dell’evoluzione è rappresentato dalle prime forme di allevamento selettivo, ossia l’insieme delle pratiche atte a rendere reiterabili nel tempo delle modifiche migliorative (secondo una prospettiva antropocentrica) apportate a mezzo di incroci riproduttivi, fecondazione artificiale, e altri interventi di selezione individuale. L’esaltazione o l’eliminazione artificiale di alcune caratteristiche degli animali non umani allevati, o addirittura la comparsa di nuove caratteristiche indotte, hanno apportato cambiamenti fenotipici (l’insieme delle caratteristiche anatomiche esteriori), genotipici (l’insieme del corredo genetico), fisiologici e comportamentali. Cambiamenti tali da causare, in molti casi, un pesante snaturamento e un allontanamento delle specie domesticate da quelle selvatiche di origine, dando vita a preoccupanti fenomeni di speciazione artificiale e rendendo tali specie sempre più fragili, funzionali all’umano e meno adatte alla vita selvatica.
A partire dal XVII secolo la gestione per fini produttivi degli animali non umani più o meno artificiali, diviene pratica scientifica e tecnologica prendendo il nome di zootecnia, rappresentando il terzo e decisivo gradino nella degradazione della condizione degli altri animali. La zootecnia è il più importante stadio di questo enorme processo invasivo e la si potrebbe definire come la disciplina scientifica che si occupa dell’allevamento e dello sfruttamento degli animali non umani, nel tentativo di ottimizzarne la gestione e di standardizzare e massimizzare la produttività, una vera e propria operazione di biopolitica interspecifica.
Il quarto e attuale gradino evolutivo dell’allevamento consiste nella razionalizzazione del “ciclo produttivo” conseguenza della zootecnia moderna che contribuisce a creare una nuova terribile condizione per gli individui allevati: esseri senzienti trasformati in macchine biologiche da produzione, costretti a seguire i ritmi industriali innaturali del cosiddetto allevamento intensivo o industriale.
L’animale-macchina
Considerare gli esseri viventi come individui gestibili alla stessa stregua di una macchina, rappresenta il concetto su cui si basa il moderno allevamento di animali non umani e non solo. L’idea dell’animale-macchina è antica e prende il via dalla visione meccanicistica della vita originatasi da posizioni antropocentriche di filosofi come Aristotele e Tommaso d’Aquino, raggiungendo la sua piena formulazione nel ‘600 con Cartesio (egli stesso di formazione aristotelico-tomista), per divenire successivamente elemento di riferimento in ambito scientifico con effetti che – nonostante l’assurdità dell’argomento – si riscontrano in parte ancora oggi nel dibattito sul rapporto tra umani e gli altri animali. La teoria dell’automatismo animale, delle macchine biologiche di Cartesio e dell’assenza dell’anima negli animali non umani come elemento di separazione dagli umani (singolare posizione se si pensa che la radice etimologica del termine animale è “essere che dà vita, animato”), ha prodotto una concezione distorta del mondo dei viventi divenuta teoria giustificazionista dei nostri comportamenti nei confronti dei non umani e della natura in generale, sino a giungere alle estreme conseguenze come il moderno allevamento industriale. Gli animali non umani allevati sono gestiti secondo rigorose impostazioni logistiche, economiche, aziendali e sanitarie che ne regolano sin nei minimi particolari ogni aspetto della loro breve e sfortunata esistenza.
Nulla è lasciato al caso e ogni fase “produttiva” dell’azienda (questo è un allevamento) risponde a un’accurata programmazione: un vero e proprio management aziendale delle vite altrui. Secondo Giuseppe Campanile docente di Zootecnia speciale nel corso di laurea di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (a.a. 2009/2010), le dimensioni del reparto di gestazione di un allevamento di suini si deducono dalla seguente formula:
[(SxPAxPO)/365]x1,1 dove: S = n° scrofe presenti in allevamento; PA = n° medio di parti/scrofa/anno; PO = periodo di occupazione del settore (giorni gestazione – giorni conferma gravidanza – gravidanza – giorni sala parto).
Un evento naturale come il parto di una femmina di mammifero (che genera dei piccoli esattamente come gli umani), è ridotta a base di dati per una formulazione non dissimile da quelle utilizzate per la logistica di un magazzino di stoccaggio merci. Ciò che è assolutamente evidente – ossia che gli animali non umani sono capaci di emozioni, sentimenti, provano paura e dolore e anelano alla libertà – non pare esserlo per chi si occupa dei cicli produttivi zootecnici, anche se gli stessi allevatori operano con la consapevolezza (che svela l’enorme ipocrisia che soggiace a tale pratica) di dover gestire esseri senzienti utilizzando strumenti detentivi e coercitivi sempre più elaborati per piegarne la volontà.
L’allevamento intensivo come apice dello sfruttamento
La produzione di massa e il consumismo hanno causato un’enorme accelerazione in ambito zootecnico e agricolo, avvenuta soprattutto nel secondo dopoguerra del secolo scorso: in precedenza non esisteva ancora una ben definita linea d’intervento per l’allevamento, che si industrializza per poter soddisfare la richiesta di enormi quantitativi di prodotti a prezzi sempre più bassi e con caratteristiche merceologiche standardizzate.
L’allevamento moderno può essere diviso in due macro categorie: l’allevamento estensivo e quello intensivo. Il primo è caratterizzato da un metodo di allevamento svolto su grandi territori di pascolo recintati o non (sistema brado o semi-brado), solitamente privi di ricoveri e con una bassa densità di animali non umani. Le specie allevate sono “libere” di muoversi in ampi spazi per poi subire periodiche attività di controllo, gestione e infine essere condotte al macello. Tale allevamento si basa su un chiaro nesso funzionale con il territorio che fornisce il cibo per gli animali non umani allevati. Ciò che invece contraddistingue il moderno allevamento intensivo è l’utilizzo di tecniche industriali, aziendali e scientifiche per il conseguimento di un “prodotto” al minor costo, con il minor uso di risorse e lavoro, la minor occupazione di spazio, molto spesso l’assenza di un nesso funzionale con il territorio e mediante la standardizzazione dei cicli biologici degli animali non umani allevati (che peraltro avviene anche nel caso dell’allevamento estensivo). Il risultato di quanto esposto è il confinamento forzato e il concentramento in spazi chiusi, gabbie, box, capannoni o raramente in aree aperte recintate. L’allevamento intensivo può avvenire su piccola o grande scala, nel secondo caso si parla di allevamento industriale o factory farming, ossia la gestione di strutture di grandi dimensioni capaci di detenere un enorme numero di animali non umani allevati secondo criteri zootecnici intensivi. Tale modello è quello che sta avendo una diffusione planetaria seguendo sempre più l’esempio degli sterminati complessi di allevamento industriale degli USA denominati CAFO (Concentrated Animal Feeding Operation) capaci, secondo United States Department of Agriculture (USDA), di detenere 4.900 bovini, più di 40.000 maiali, 700.000 pecore o diverse decine di milioni di polli.
Le tecniche di allevamento zootecnico-intensivo sono numerose e variano a seconda della specie allevata e della finalità produttiva; in generale dovendo rispondere all’esigenza di allevare un grande numero di animali non umani in spazi confinati indipendentemente dal contesto geografico e climatico in cui si trovano (anche per quanto riguarda l’approvvigionamento di cibo che non viene prodotto sul posto), spesso vengono chiamati allevamenti senza terra. Solitamente avvengono in capannoni chiusi in cui gli animali non umani passano la loro breve vita senza mai uscire all’aperto; nel caso dei polli “da carne” definiti anche broiler, i numeri degli individui per capannone sono altissimi: 15.000 o più polli per singolo capannone di allevamento a terra (un paradosso dato che rimangono pur sempre allevamenti definiti senza terra per i motivi di cui sopra) con uno spazio medio, secondo i dati di Veneto Agricoltura, di 1 metro quadrato per 11-18 polli. Altra tipologia è quella dell’allevamento intensivo in gabbia (in batteria o in gabbie arricchite), dove migliaia di animali non umani (soprattutto galline ovaiole, polli, tacchini o conigli) vengono stipati in piccole gabbie che, nel caso delle galline allevate in batteria (tecnica abolita in Europa dal 2012 ma ancora non del tutto recepita e largamente presente in Italia), forniscono uno spazio non più grande di un foglio di carta formato A4 per ciascuno individuo. Nelle gabbie arricchite lo spazio a disposizione di ogni gallina passa dai 440 cm2 dell’allevamento in batteria a 750 cm2 e vengono aggiunti arricchimenti, come posatoi o lettiere (direttive 99/74/CE e 2002/4/CE).
Gli animali non umani di maggiori dimensioni (bovini, ovini, caprini, suini, ecc.) vengono allevati generalmente in box singoli o di gruppo, solitamente in strutture chiuse (dotate o meno di aree esterne) o direttamente in recinti esterni con ricovero. In condizioni del genere, è chiaro che nessuna esigenza specie-specifica (come razzolare, costruirsi un giaciglio, spostarsi sul territorio, ecc.) possa essere espletata. La reclusione, l’assenza di stimoli, di vegetazione, il sovraffollamento, causano enorme stress tanto da scatenare periodicamente pericolose epidemie (tenute sotto controllo con scarso successo mediante dosi massicce di vaccini e antibiotici), o da condurre a comportamenti stereotipati, aggressivi, autolesionisti (con gravi mutilazioni) e infine alla morte.
Per tali motivi si eseguono alcuni interventi di amputazione atti ad evitare aggressioni e ferimenti (con conseguenti perdite economiche): il debeaking ovvero il taglio della punta del becco delle galline e dei polli (senza anestesia), la recisione dei denti canini ai suinetti uno o due giorni dopo la nascita (senza anestesia), la caudectomia, ossia l’asportazione chirurgica della coda del suino (spesso senza anestesia), la decornazione dei bovini (taglio delle corna mediante cauterizzatore o sega) e via discorrendo. Se a ciò si aggiungono le sofferenze causate dalla riproduzione artificiale, la separazione dei piccoli dalle madri, la castrazione, la convivenza forzata, il sovraffollamento e lo stato permanente di paura in cui vivono gli animali non umani negli allevamenti intensivi fino al macello, possiamo facilmente immaginare l’enorme quantità di sofferenza che tale pratica è in grado di causare.
La sofferenza nascosta
Considerando i dati statistici forniti dall’ISTAT per il 2010, in Italia annualmente vengono allevati secondo criteri industriali e per fini alimentari circa 200 milioni di animali non umani (ciò senza tener conto di tutti gli allevamenti in acqua dolce e salata), un numero di esseri viventi davvero enorme, passeggiando per le campagne è però raro incontrarne: sono centinaia di milioni ma al contempo sono invisibili.
Nel caso della zootecnia la scomparsa dei corpi animali si realizza mediante gli allevamenti senza terra, è infatti possibile affermare che moltissimi animali non umani allevati secondo criteri intensivi riescano a vedere l’ambiente esterno solo quando entrano da cuccioli nello struttura dell’allevamento e quando ne escono per essere condotti al macello. La condizione di segregazione è perenne, tanto che i capannoni sono dotati di impianti di ventilazione forzata in modo da espellere le sostanze chimiche volatili create dalle deiezioni (come i vapori d’ammoniaca, il metano, il protossido di azoto) che se non espulse trasformerebbero i locali in vere e proprie camere a gas. Probabilmente i miasmi che fuoriescono dai capannoni degli allevamenti – soprattutto durante le ore notturne -, sono l’unico indizio che abbiamo sul fatto che in essi sono ammassati migliaia di esseri senzienti.
La società in cui viviamo è permeata di oggetti e prodotti derivanti dallo sfruttamento animale (letteralmente da pezzi dei loro corpi) che contribuiscono alla formazione del capitale animale, ma la presenza degli individui non umani con la propria soggettività e identità latita. Ci vengono offerti prodotti di origine animale senza soluzione di continuità, ma al contempo i loro corpi sono occultati nel tentativo – riuscito – di trasformare un soggetto vivente in mero oggetto. Gli artifici come la segregazione e la reificazione tipici degli allevamenti intensivi, non solo sono funzionali all’ottimizzazione della pratica zootecnica, ma sottraggono al nostro sguardo il parossismo dello sfruttamento dell’umano sul non umano, risultando necessari per permetterci di fruire senza scrupoli di coscienza dei benefici che esso ci apporta.
Il futuro inquietante dell’allevamento è alle porte
Un probabile futuro prossimo dell’allevamento è rappresentato a mio avviso dalla manipolazione genetica, non a caso questo è il secolo della corsa alla ricombinazione genetica, alla mappatura dei geni, alla clonazione e alle applicazioni biotecnologiche. Gli organismi geneticamente modificati (OGM) in campo agricolo e zootecnico sono già una realtà consolidata e spesso produttiva: animali non umani di specie storicamente utilizzate per la produzione di cibo, sono sempre più al centro delle ricerche bioingegneristiche per la creazione di varietà artificiali di specie con caratteristiche estreme che si aggiungeranno a quelle già acquisite mediante gli incroci riproduttivi. Negli USA, in Canada, Brasile e Argentina, la zootecnia fa già uso di animali non umani clonati per la produzione di carne, latte e derivati. Con l’accordo di libero scambio tra UE e Canada (CETA) entrato in vigore in via provvisoria il 21 settembre 2017, il cibo derivante da animali non umani clonati potrebbe sbarcare in Europa. La manipolazione genetica riguarda anche il cibo consumato negli allevamenti: la maggior parte delle attuali coltivazioni destinate a divenire foraggio, derivano da piante geneticamente modificate che entrano così nell’alimentazione soprattutto di bovini e suini.
Anche l’informatica e la robotica avranno in questo ambito un ruolo da protagoniste. In provincia di Treviso è già operativa una stalla di mucche “da latte” robotizzata e gestita in remoto mediante un’applicazione (App) installata su smartphone. Il ciclo di controllo delle mucche (mungitura, allattamento, nutrizione, controllo sanitario, ecc.) viene gestito interamente da robot che mediante appositi sensori inviano flussi di dati al software installato sul dispositivo cellulare. In un’intervista rilasciata il 16 dicembre 2016 a Confagricoltura Treviso, uno dei proprietari dell’azienda afferma che “in qualsiasi parte del mondo io sia, basta che apra la app sul telefonino per avere sotto controllo la situazione delle stalle e sapere se le vacche mangiano e quanto mangiano, se hanno qualche problema sanitario, quanto latte fanno, se sono in calore e se hanno la mastite, se i vitellini vengono allattati a sufficienza”. Secondo lo studio World Robotics 2011 – Service Robots dell’Institute of Electrical and Electronics Engineers, le mungitrici robot insieme ai droni militari sono i robot per i servizi più diffusi al mondo. La rivoluzione scientifica e tecnologica in zootecnia procedono a gran velocità e contribuiranno a dare il via a una nuova fase dell’allevamento moderno (il quinto gradino?): il definitivo distacco dell’umano dagli animali non umani che alleva, tra i quali non ci sarà più alcun contatto (e men che meno empatia), ma l’intermediazione delle macchine che gestiranno animali-macchina. Stiamo letteralmente costruendo gli animali non umani “da reddito” del futuro, esseri senzienti artificiali che oltre a continuare a soffrire e a subire la prigionia, avranno anche un impatto sull’ambiente e sugli altri viventi del tutto inimmaginabile.
L’inganno del “benessere animale”
L’accresciuta sensibilità per le tematiche animaliste sta causando considerevoli modifiche in numerosi ambiti della società umana, ivi compresi quelli produttivi e commerciali. Il comparto zootecnico appare in difficoltà a causa di nuove istanze e posizioni critiche espresse da chi “consuma” animali, ma vorrebbe per loro migliori condizioni di vita. Nel tentativo di recuperare consensi dal punto di vista commerciale e dell’immagine, ha preso piede il concetto mistificatorio di “benessere animale” nell’allevamento. L’idea si basa sul fatto che sia possibile adeguare le tecniche di allevamento alle esigenze specie-specifiche degli individui allevati, concedendo loro la possibilità di condurre un’esistenza “dignitosa” prima di essere macellati. In tal modo si riconsidera la natura biologica dell’animale non umano, che magicamente non è più solo una macchina produttrice cartesiana, ma anche essere senziente, con esigenze etologiche da soddisfare che prescindono la mera sopravvivenza biologica, il tutto esclusivamente al fine ottenere un “prodotto” di miglior qualità e tacitare le critiche di chi si oppone a tali pratiche.
La storia del “benessere animale” principia in Gran Bretagna, dove il famoso libro Animal Machines pubblicato da Ruth Harrison nel lontano 1964 – ma ancora oggi attualissimo – provocò grande scalpore nell’opinione pubblica, tanto da costringere il governo inglese all’istituzione di una commissione che elaborò un rapporto sugli allevamenti intensivi (il Brambell Report del 1965) e formulò le cosiddette cinque libertà per gli animali non umani allevati:
• libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione;
• libertà dai disagi ambientali;
• libertà dalle malattie e dalle ferite;
• libertà di poter manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche;
• libertà dalla paura e dallo stress.
Il Farm Animal Welfare Council del 1979 fece proprie le cinque libertà che divennero in seguito la base delle politiche sul “benessere animale” in Europa. Dal punto di vista utilitaristico è chiaro che dei provvedimenti di welfare – parzialmente già adottati per mezzo di leggi nazionali e comunitarie – in campo zootecnico, possano alleviare effettivamente le enormi sofferenze degli animali non umani, questo non toglie che l’allevamento industriale debba sempre e comunque rispondere primariamente alle esigenze del mercato. Pertanto logica vuole che le “concessioni” che gli allevatori saranno disposti a fare saranno in ogni caso funzionali al sistema produttivo. Ma sarebbe possibile un reale “benessere animale” nell’allevamento? Consideriamo ad esempio l’etologia dei maiali.
I maiali sono animali intelligenti e gregari, in natura vivono in piccoli gruppi familiari matriarcali, formati da due a sei scrofe adulte con i loro piccoli. I verri, invece, conducono un’esistenza solitaria. L’home range – ossia il territorio frequentato quotidianamente – è di dimensioni variabili sino a comprendere molti ettari. Esso viene suddiviso in aree di pascolo, di riposo (i maiali si costruiscono anche dei grandi nidi con erbe e rami dove peraltro partoriscono), di defecazione, di svago e pulizia (con pozze d’acqua e fango); il tutto collegato da una rete di sentieri. La gran parte della giornata dei maiali è dedicata alla ricerca del cibo, un adulto occupa circa 6-7 ore al giorno per tale attività e può percorrere fino a 50 chilometri. Per il riposo vengono scelti luoghi puliti e asciutti con la possibilità di controllare il territorio e assicurarsi una via di fuga.
Se davvero si intendesse rispettare le cinque libertà nel tentativo di assicurare un minimo reale benessere agli esseri senzienti allevati, considerando le caratteristiche specie-specifiche dei maiali, si dovrebbero costruire per loro allevamenti di dimensioni sterminate, rinunciare alle castrazioni, all’ingrasso, al controllo riproduttivo, a ogni tipo di coercizione, alla segregazione in base a sesso ed età, al trasporto su camion, e al resto delle pratiche che hanno reso purtroppo la carne di maiale così diffusa ed economica. Se anche – per assurdo – si riuscisse a rispettare tali esigenze, rimarrebbe lo scoglio invalicabile della macellazione che senza dubbio violerebbe buona parte delle cinque libertà, il tutto senza parlare della dignità dei maiali e del loro diritto alla vita.
Il “benessere animale” in ambito zootecnico è pertanto un grande inganno (come lo sono anche le cinque libertà perché inapplicabili e perché parlare della libertà di chi è in cattività è un ossimoro), ed equivale solamente a prendere i provvedimenti sufficienti a rendere l’allevamento una pratica maggiormente accettabili dall’opinione pubblica. Un concetto di “benessere animale” che non sia distorto o strumentalizzato è in realtà incompatibile con qualsiasi tipologia di allevamento (intensivo o no).
Non esiste un essere senziente contento di vivere in schiavitù, di subire vessazioni, violenze, menomazioni e di perdere la vita per l’interesse altrui. Le mucche che pascolano placide in prati fioriti entusiaste di donare a noi latte anziché al proprio vitello, le galline che razzolano serene per l’aia per poi tuffarsi volontariamente in pentola esistono solo nel mondo edulcorato e adulterato della pubblicità commerciale. La storia di un trancio di carne, di un uovo di gallina, di un bicchiere di latte vaccino o di una mozzarella di bufala è costellata di privazioni, paura, sofferenza, dolore e immancabilmente termina con una morte.
Adriano Fragano
Bibliografia
Malossini F., La domesticazione degli animali, Atti Acc. Rov. Agiati, a. 251, 2001, ser. VIII, vol. I, B, pp. 5-40.
Childe V.G., Preistoria della società europea, Sansoni, Firenze, 1979.
Calarco M., Zoografie, Mimesis, Milano, 2011.
Imhoff D., CAFO: The Tragedy of Industrial Animal Factories, Earth Aware Editions, San Rafael (CA), 2010.
Harrison R., Animal Machines, Cab Intl, Wallingford, 2013.
Foto in apertura: opera di Roberto Manzotti © 2022
Se hai letto fin qui vuol dire che questo testo potrebbe esserti piaciuto.
Dunque per favore divulgalo citando la fonte.
Se vuoi Aiuta Veganzetta a continuare con il suo lavoro. Grazie.
Avviso legale: questo testo non può essere utilizzato in alcun modo per istruire l’Intelligenza Artificiale.
Articolo chiaro e veritiero. Ciò che più mi addolora è il concetto di benessere animale di cui si sono appropriate le aziende. Prima ancora di essere criticate da noi, sono loro a rassicurarci con le loro etichette mistificatorie. La pubblicità ingannevole non esiste più: fanno ciò che vogliono. Il problema è che la clientela crede all’etichetta, non al tuo articolo o a ai milioni di video e immagini che circolano.
Gli Umani normalmente credono a ciò in cui conviene credere.
A volte mi domando quali siano gli effetti a 360° di questo incredibile sistema scientifico-industriale-tecnologico di oppressione e sterminio. Ciò che viene sapientemente occultato nei capannoni o edulcorato dalle pubblicità, riversa nel sottosuolo e nell’aria dei miasmi mefitici che ci stanno avvelenando, così come chi si ciba dei corpi martoriati e torturati degli esseri viventi assume dentro di sé una parte di questa incommensurabile sofferenza. Qualsiasi progetto politico umano che neghi questa evidenza è destinato a perpetuare una situazione che è a dir poco distopica.
Negare l’evidenza delle nostre azioni, senza preoccuparsi delle inevitabili conseguenze è una delle caratteristiche tipiche della nostra specie. Le stesse civiltà umane si basano in gran parte su evidenze negate e su enormi menzogne assurte a verità incontestabili. Un progetto politico umano che non neghi tutto ciò, probabilmente non è ancora nato, speriamo che compaia presto, prima che sia troppo tardi.
Articolo splendido come al solito.
Purtroppo le investigazioni che smascherano condizioni di allevamento estreme e umanamente inaccettabili producono nella popolazione generale una reazione emotiva indignata ma che non mette in discussione le fondamenta su cui si basa la società specista.
Si richiedono piuttosto misure volte alla salvaguardia del benessere animale per quel lasso di tempo che è stabilito per loro vivere, più per salvaguardare l’ottenimento di un prodotto di qualità (gastronomica e nutrizionale) che per rispetto intrinseco della dignità animale.
L’allevamento deve essere sostenibile, eco-friendly, per evitare la devastazione dell’ambiente nel quale il consumatore vive, e delle cui conseguenze si preoccupa egoisticamente.
Dopo gli allevamenti industriali intensivi, ed i super intensivi che stanno nascendo in Cina (“pigs hotel” da 13 piani) il prossimo futuro e lontano “gradino” nell’evoluzione del sistema produttivo di carne sarà rappresentato dalla carne sintetica prodotta in laboratorio.
Mi chiedo se di fronte all’abominio delle pratiche precedenti e il baratro umano verso il quale stiamo allegramente saltellando quello della carne coltivata non sia uno step decisivo verso quel 99.9% di popolazione mondiale che altrimenti non sarebbe disposta/capace ad abbandonare/ mutare le proprie abitudini, usanze, tradizioni.
Ciao Claudio,
Ti ringrazio per le tue belle parole di apprezzamento sull’articolo.
La reazione emotiva che le investigazioni (necessarie!) sulla condizione degli Animali negli allevamenti generano sul pubblico, è la stessa che generano le immagini della guerra, della distruzione ambientale, delle foreste in fiamme, o dei cataclismi naturali ed ha a che vedere con un senso di impotenza che è stato ben descritto da Bauman nel suo “Il secolo degli spettatori”, un piccolo libro molto interessante, nel quale affermava che di fronte al bombardamento di notizie su sofferenza, problemi, violenza, diventiamo impotenti, semplici spettatori che non si sentono in grado in alcun modo di partecipare attivamente a modificare tutto ciò. Personalmente penso che sia così anche per la questione animale, salvo che esiste in questo caso una enorme differenza: ciascuno di noi – per davvero – nel suo piccolo può decidere della vita e della morte di un considerevole numero di Animali. Dunque la scelta individuale di fronte all’oceano di sofferenza in cui siamo immersi (e che abbiamo causato) probabilmente non può quasi nulla, ma può molto nei confronti di chi diviene vittima diretta delle nostre decisioni individuali e questo è fondamentale anche se è artatamente ignorato dall’Umano-spettatore. E’ proprio per questo motivo che non è possibile comprendere e giustificare in alcun modo il comportamento di chi – pur potendo fare qualcosa anche solo privatamente – non fa nulla.
A causa di tali questioni, si giunge inevitabilmente ad un vicolo cieco: non si mette in discussione l’impianto specista della società umana perché ciò significherebbe una lotta enorme, fuori dalla nostra portata, che causerebbe degli sconvolgimenti significativi, ma nemmeno si mettono in discussione le nostre pratiche quotidiane e i nostri comportamenti individuali, perché in fin dei conti il coltello dalla parte del manico lo abbiamo – letteralmente – noi e questa in effetti è una posizione di tutto comodo.
Allora ci si indigna, salvo poi tornare nel confortevole alveo delle consuetudini speciste, magari alleggerendoci la coscienza avallando soluzioni ipocrite come quelle del cosiddetto “benessere animale” negli allevamenti e questo ci riconduce alle tue considerazioni.
Quella dei “Pig hotels” è solo l’ennesima discesa negli inferi della sofferenza animale che pare non abbia davvero fine. Dunque non solo non si sale di un gradino verso una vita finalmente etica e giusta, ma si preferisce scendere, perché indubbiamente per noi è molto meno faticoso.
Sulla questione della carne coltivata ti suggerisco la lettura di questo articolo: http://www.veganzetta.org/cibo-del-futuro