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Numerose testate giornalistiche hanno di recente divulgato la notizia che in seguito a una sentenza della terza sezione civile della corte di Cassazione, dare del “vivisettore” a chi pratica esperimenti sugli Animali è un reato.
La sentenza in questione riguarda un processo civile intentato (molti anni fa) contro un’attivista animalista responsabile del sito web della campagna antivivisezionista NoRBM (conclusa nel 2004) che avrebbe – secondo l’accusa – diffamato il personale dell’azienda RBM, che si trova vicino a Ivrea (Torino) e che nei suoi laboratori compie esperimenti su Animali.
Qualora tale notizia fosse stata vera, per quanto riguarda l’attivismo antispecista nulla sarebbe cambiato, il punto è che essa non risulta nemmeno fondata – come è stato illustrato nel comunicato pubblicato su AgireOra Network –, è giusto pertanto smascherare l’ennesima menzogna divulgata dai media mainstream per arrecare danno alla lotta per la liberazione animale.
Per tale motivo di seguito riportiamo, per completezza d’informazione, alcune considerazioni di Carlo Prisco, avvocato e attivista animalista.
La sentenza numero 14694/2016 della terza sezione civile della corte di Cassazione è stata recentemente oggetto di molte diatribe, nonché di evidenti strumentalizzazioni.
In particolare si è cercato di affermare il principio che dare a qualcuno del “vivisettore” configuri il reato di diffamazione. Che questa interpretazione non sia corretta lo suggerisce il fatto che a occuparsene sia stata proprio la Cassazione civile anziché quella penale.
Ma allora di che cosa si è occupata questa pronuncia? Com’è implicito nel fatto che si tratti di una sezione civile, oggetto del contendere era la responsabilità risarcitoria e non quella penale.
Dunque si potrebbe già concludere non soltanto che “dare del vivisettore” a qualcuno non sia reato, ma addirittura che ciò sia talmente evidente da non dover neppure richiedere un processo per accertarlo.
A questo punto ci si potrebbe domandare come mai chi effettua la sperimentazione sugli Animali sia tanto interessato ad affermare il concetto che il termine “vivisettore” vada bandito dal vocabolario, addirittura invocando la legge o arrivando a travisare pronunce giurisprudenziali per tale finalità.
L’enciclopedia Treccani definisce la vivisezione come: “Atto operatorio su animali vivi, svegli o in anestesia totale o parziale, privo di finalità terapeutiche ma tendente a promuovere, attraverso il metodo sperimentale, lo sviluppo delle scienze biologiche, o a integrare l’attività didattica o l’addestramento a particolari tecniche chirurgiche, o, più raramente, a fornire responsi diagnostici”.
È chiaro che qualsiasi atto operatorio compiuto su un Animale vivo rientra a pieno titolo nella definizione; ma i fautori di tale pratica, focalizzando l’attenzione sulla variabilità degli esperimenti possibili, rivendicano la necessità di utilizzare l’espressione “sperimentazione animale” per motivi di precisione terminologica. A conforto di queste posizioni s’invoca il disuso in ambito scientifico dell’espressione “vivisezione”, che sarebbe invece deliberatamente dispregiativa.
Pensando al fenomeno dell’inflazione terminologica: qualunque categoria contraddistinta da un termine, con il tempo, finisce progressivamente e inevitabilmente per sentirsene etichettata, e dunque esso verrà sistematicamente soppiantato da uno nuovo.
Un esempio su tutti: soltanto negli anni ‘80 era considerato normale definire “handycappato” un Umano portatore di un’invalidità, mentre poi è stato considerato dispregiativo e soppiantato dal termine “disabile”, che a sua volta è progressivamente diventato dispregiativo ed è stato sostituito dall’espressione “diversamente abile”.
Insomma, l’intera battaglia degli sperimentatori/vivisettori sembrerebbe di donchisciottiana memoria, tanto che viene da domandarsi: cui prodest?
Forse che, una volta abbandonata l’espressione “vivisezione” a favore di “sperimentazione animale”, questa non diverrà a sua volta dispregiativa per via di ciò che viene fatto agli Animali?
Perché allora condurre una simile crociata? Forse perché il termine “vivisezione” concentra l’attenzione sull’atto e sulla vittima, mentre “sperimentazione” evoca un’attività di per sé asettica e focalizza semmai sullo scopo. Come a dire: chi “seziona Animali vivi” non sembra attirare su di sé le simpatie popolari, mentre uno “sperimentatore” può più facilmente assurgere a paladino della società. Società che, come gli scienziati sanno bene, è in gran parte contraria alla vivisezione, ma che – come questi hanno cercato di dimostrare – è assai più incline ad avallarne l’operato, se “correttamente informata”.
Uno degli argomenti che è stato rappresentato dagli sperimentatori/vivisettori, è appunto questo: l’elevata percentuale di dissenso sociale verso tali pratiche, sarebbe frutto della manipolazione mediatica da parte degli animalisti e del ricorso a concetti come quello di vivisezione. E il “metodo scientifico” adoperato per confermare quanto sopra consiste nell’”informare” l’opinione pubblica, fornendo una visione del tutto soggettiva, volta a dimostrare che:
1) gli Animali non soffrono,
2) gli sperimentatori lavorano in nome d’interessi altruistici e idealistici,
3) tali pratiche sono necessarie e non surrogabili.
Ecco dunque che s’impugnano le armi contro i mulini a vento della vivisezione: nella consapevolezza che ciò che viene fatto veramente (operare Animali vivi) evochi tale repulsione da dover “distrarre” l’attenzione del pubblico con pratiche degne dei migliori illusionisti, sicché, mentre la gente “guarda” al nobile scienziato che guida il progresso morale e materiale dei popoli, con il cuore grondante sangue per l’inevitabile sacrificio degli Animali, il tavolo operatorio dove le vittime inermi giacciono venga coperto dall’oblio.
Finché la pratica di usare per scopi scientifici Animali vivi non cesserà il termine “vivisezione”, anche nella sua accezione di base e più letterale, sarà perfettamente calzante alle pratiche “scientifiche” odierne, mentre, nella sua accezione estesa continuerà a esserlo fino a quando verranno causate privazione di libertà, sofferenza e morte.
Questo caso, in conclusione, rappresenta una cartina al tornasole di ciò che gli sperimentatori/vivisettori vorrebbero che fosse, cioè un bavaglio all’espressione stigmatizzata, e di ciò che è, cioè una pratica tuttora invalsa e una definizione di uso comune per fare genericamente riferimento all’uso di Animali per fini sperimentali.
Carlo Prisco
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Il metodo è sempre lo stesso: si cerca di indurre nell’opinione pubblica una sorta di giustificazione alle pratiche di sfruttamento animale. Si utlizzano degli eufemismi atti ad attenuare l’asprezza di un concetto sostituendo al vocabolo una perifrasi o un altra parola meno cruda…ovvero deve risuonare bene, parlar bene, dir bene. Una specie di retorica ben studiata a priori, o successivamente per “riparare” il danno inflitto alla coscienza Umana. Un classico esempio è riportato nell’articolo: handicappato, specifica descrizione di chi è affetto da menomazione fisica o psichica. Essa è ancora in vigore ma usualmente svanita per tutti i preconcetti consequenziali dovuti ad un cattivo utilizzo della stessa spesso in modo offensivo e denigratorio. Nell’epoca più gloriosa dell’informazione, della condivisione, della divulgazione la terminologia è utilizzata anche tramite link, hashtag o citazioni brevi in cui si racchiude un significato riassuntivo dell’argomento trattato. Quindi si può concepire facilmente come essa sia molto fondamentale nel linguaggio moderno. In questo caso specifico da parte degli addetti ai lavori si preferisce sostituire il termine “vivisezione”, così tanto evidente e limpido data la sua tematica particolare, con il più neutro e distaccato “sperimentazione animale”. Gli esempi in archivio sono innumerevoli: per esempio si utlizza “eutanasia” per definire letteralmente “bene (buona) morte” , o “pena capitale” per autorizzare la morte di un detenuto, o “cacciagione” l’insieme degli Animali da cacciare o uccisi a caccia, o addirittura “soluzione finale” (in tedesco “endlösung der judenfrage) adottata dai nazisti per sterminare infine gli ebrei detenuti nei lager. Questa eufemia serviva da una parte a mimetizzare il genocidio verso l’esterno, dall’altra per una giustificazione ideologica, come se davvero si risolvesse un problema di portata mondiale.
Insomma si può dialogare infinitamente su come spesso una parola magistralmente mistificata nasconda invece tutta l’amarezza e la crudeltà inflitta a vittime innocenti. Meglio così quindi che una volta tanto le istituzioni si schierino dalla parte giusta affermando con una sentenza che la vivisezione può essere ancora considerata pratica d’uccisione animale a scopo scientifico.
Sono sorpreso che la “Treccani”, riporti una definizione così antiquata: con la parola “vivisezione si intende, ormai da decenni” qualunque atto (medico o chirurgico) che non sia stato compiuto nell’interesse dell’animale (Si esclude così la terapia chirurgica) , senza riguardo alla sua sofferenza.
Indipendentemente da definizioni più o meno d’ attualità, tutto nasce da una condanna ad un non lieve risarcimento, in cui è incappata una nota dietologa la quale aveva usato appunto il termine “vivisettore” contro qualcuno che la ha querelata- Questo è grave, perché intimorisce chi protesta contro le crudeltà verso gli animali. La cosa è aggravata da un articolo sul ” Fatto Quotidiano” a cui ho dato risposta. Ovviamente, non pubblicata. Credo che anche Bailador sia stato portato a conoscenza, della mia risposta, che era puramente scientifica. Bruno Fedi
ciò che mi sorprende sempre è il fatto che i “ricercatori biomedici”, come amano farsi chiamare, rinneghino le loro stesse radici, considerando i loro padri vivisettori dei reietti da rinnegare, tanto da non volerne nemmeno portare il nome. Ciò la dice lunga su quanto pesi alla categoria in oggetto lo spauracchio del cattivo giudizio ormai ampiamente diffuso nei loro confronti e nei confronti del loro mestiere.