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Sul numero 387 di marzo 2014 di A Rivista anarchica, è stato pubblicato un interessante articolo di Selva Varengo dal titolo “I molti filoni dell’anarchismo verde”.
Si riporta di seguito per intero il testo, sul quale è opportuno fare delle considerazioni su alcuni concetti esposti. Ci si limiterà ad affrontare solo gli argomenti relativi all’antispecismo e alla liberazione animale, questo per questioni di competenza.
Varengo scrive che Peter Singer fornisce una definizione di specismo nel suo famoso libro del 1975 “Liberazione animale”. In realtà il termine “specismo” venne coniato dallo psicologo inglese Richard Ryder nel 1970, tale definizione fu ripresa successivamente da Singer, appunto nel ’75, che la rese famosa. Singer peraltro in una sua nota al capitolo I della seconda edizione del libro (nel 2003) scrive:
Devo il termine “specismo” a Richar Ryder. Dopo la prima edizione di questo libro esso è entrato nell’uso generale (…)1
Tale precisazione non va concepita come una sterile critica, ciò perché Peter Singer ha sempre avuto delle posizioni particolari a riguardo della questione animale (leggasi utilitarismo), e far risalire a lui la definizione di specismo sarebbe non solo un’attribuzione indebita, ma anche un errore concettuale. E’ probabile che questa non sia stata affatto l’intenzione dell’autrice, ma il testo è passibile di varie interpretazioni, meglio quindi specificare.
In riferimento alla frase di Varengo:
L’antispecismo rientra dunque a pieno titolo all’interno dell’anarchismo verde quando ha come obiettivo la liberazione animale (umana e non) e di conseguenza una nuova società libera, solidale ed egualitaria. L’antispecismo libertario e anarchico ha come fine la liberazione animale e ritiene che per raggiungere tale obiettivo sia necessario abbattere le barriere culturali e materiali che impediscono ai principi di eguaglianza, equità e rispetto, di cui è portatore, di potersi liberamente diffondere; ma poiché queste barriere sono le stesse che consentono a tutt’oggi il perpetuarsi dello sfruttamento dell’umano sull’umano, ecco che per l’antispecismo anarchico liberazione umana e liberazione animale non umana coincidono.
Anche se Varengo esordisce scrivendo “bisogna precisare che ovviamente non tutti gli antispecisti sono anarchici né l’antispecismo fa necessariamente riferimento ad un pensiero libertario“, si ribadisce un concetto chiave, se non altro per il fatto che l’articolo porta come titolo “i molti filoni dell’anarchismo verde”: l’antispecismo NON rientra all’interno dell’anarchismo verde, e non è uno dei suoi filoni (come non appartiene o fa parte di nessun altro movimento sociale, politico e culturale umano), semmai trae alcuni riferimenti e orientamenti da esso e ne comprende delle parti. L’obiettivo dell’antispecismo è sempre la liberazione animale, e ciò anche nella sua accezione più stretta o circostanziata di pregiudizio nei confronti dei non Umani. Non per nulla il libro di Singer si intitolava proprio Liberazione animale, e fu uno dei testi di riferimento del movimento liberazionista mondiale, pur non trattando temi direttamente legati alla critica del sistema capitalistico. La liberazione animale per una società che fonda le proprie origini sullo sfruttamento degli Animali e della Natura, significa automaticamente la sua fine, quindi la visione antispecista è antisistema, senza dover mutuare tale posizione da altre ideologie. Varengo giustamente scrive che “non esiste un solo antispecismo, ma declinazioni molteplici“: è infatti vero che esistono numerosi correnti all’interno del pensiero antispecista, anche considerevolmente diverse tra di loro. Non è quindi opportuno parlare di “antispecismi”, ma semplicemente di declinazioni, parlare quindi di antispecismo libertario e anarchico è improprio.
Infine l’autrice scrive:
Tra i numerosi riferimenti bibliografici che si potrebbero dare segnalo la rivista trimestrale “Liberazioni. Rivista di critica antispecista”, nata nel 2010 (la rivista italiana di filosofia antispecista più longeva di sempre); il periodico “Veganzetta” (…)
Un grazie di cuore per la citazione, se però per “rivista” si intende una rivista cartacea, si segnala che Veganzetta esiste in formato cartaceo dal lontano 2007, quindi ben prima delle riviste antispeciste esistenti attualmente; è utile inoltre ricordare riviste come La Nemesi (periodico antispecista tra i primi a comparire in Italia, ma ora chiuso), e Terra Selvaggia, anche se quest’ultima non può essere considerata propriamente una rivista antispecista.
Note:
1) Peter Singer, Liberazione animale, NET, 2003, p. 279
Fonte A Rivista anarchica N° 387 marzo 2014
I molti filoni dell’anarchismo verde
Ecologia sociale, decrescita, primitivismo e anticivilizzazione, antispecismo: un primo bilancio storiografico di differenti forme di incrocio tra una prospettiva anarchica e diverse forme di sensibilità e di attenzione sociale. Una relazione presentata al seminario “La storiografia dell’anarchismo italiano dal 1945 ad oggi”.
Innanzitutto volevo fare alcune precisazioni riguardo al titolo del mio intervento odierno e quindi sugli argomenti che andrò a trattare. L’obiettivo che mi sono posta con questa mia relazione è affrontare quelle che sono state le proposte teoriche sviluppate in ambito anarchico italiano sulle questioni ecologiche. Il mio intervento si inserisce dunque nell’ambito della storia delle idee, e non tratterà quindi in alcun modo ciò che di pratico è stato fatto in tale ambito.
Non parlerò quindi delle numerose lotte portate avanti soprattutto negli ultimi decenni in difesa del territorio, contro il nucleare, contro discariche, inceneritori, contro le grandi opere, l’alta velocità… e non parlerò neanche di coloro che in prima persona si sono dedicati completamente a queste lotte, talvolta pagando a duro prezzo tale scontro come nel caso di Marco Camenisch su cui incombe il rischio della carcerazione a tempo indefinito.
Ovviamente questo non significa in alcun modo non riconoscere l’importanza delle lotte ecologiste che fortunatamente sono numerosissime negli ultimi anni, un po’ in ogni angolo del mondo e a qualsiasi latitudine. Credo si possa dire che la consapevolezza dell’importanza della questione ecologica sta crescendo ogni giorno di più, e che ogni giorno di più diminuisce la fiducia nella possibilità di risolvere la situazione con riforme parziali del sistema o affidandosi a chi il sistema lo governa. Ad esempio risulta sempre più evidente agli occhi di tutti l’inganno del Protocollo di Kyoto oppure l’improvvisa attenzione per l’ecologia da parte di grandi multinazionali impegnate a investire nel business del nuovo millennio: la green economy e il cosiddetto “sviluppo sostenibile”.
Le lotte ecologiste, sempre più radicate e radicali, stanno crescendo anche in Italia e stanno optando sempre più frequentemente per metodologie libertarie – più o meno consapevolmente anarchiche – scegliendo di restare fuori dalle istituzioni, cercando di non farsi ingabbiare dai partiti, assumendo forme decisionali assembleari e il più possibile autogestionarie e non gerarchiche. Tutto ciò è un dato molto interessante di cui credo si debba tenere conto.
Oggi però cercherò invece di attenermi a quello che è, se ho ben capito, lo scopo del seminario odierno, ovvero tentare un bilancio storiografico sull’anarchismo italiano degli ultimi decenni.
A dir la verità, quando mi è stato chiesto di partecipare a questo seminario con un intervento sull’ecologia sono rimasta all’inizio un po’ perplessa. Perplessa perché ritengo molto difficile parlare di una storia o peggio ancora di una storiografia riguardante i rapporti tra ecologismo e anarchismo in Italia. Mentre in altre lingue vi è ormai una letteratura diffusa e un dibattito aperto e spesso anche acceso sui rapporti tra anarchismo e ecologismo, in italiano possiamo dire che ad oggi c’è veramente poco, anche se qualche passo in avanti si sta facendo. Comunque di questo poco cercherò di darvi conto attraverso questi appunti che in quanto tali risulteranno per forza di cose incompleti, lacunosi e sicuramente non definitivi.
Innanzitutto una precisazione terminologica, sicuramente nota alla maggioranza dei presenti, ma che penso possa essere comunque utile da ricordare: ovvero la distinzione tra ecologia ed ecologismo.
Il termine ecologia è un vocabolo piuttosto recente, coniato in Germania nel 1866 dal naturalista tedesco Ernst Haeckel che definisce l’ecologia come “lo studio delle relazioni (…) degli organismi (…) in un ambiente”. L’ecologia è dunque una disciplina scientifica, branca della biologia, sviluppatasi a fine Ottocento e consolidatasi definitivamente nei primi decenni del XX secolo e incentrata su quello che è stato definito lo studio delle interazioni tra esseri viventi e non viventi negli ambiti terrestri conoscibili.
L’ecologismo non è un sinonimo di ecologia e non va confuso con essa. Esso si sviluppa in seguito all’aumento della consapevolezza della crisi ambientale contemporanea più o meno verso la metà degli anni sessanta, come conseguenza di alcuni gravi disastri ambientali. Per l’Italia emblematico è il disastro di Seveso del 10 luglio 1976, con la nube tossica di diossina sprigionatasi dopo un’esplosione al reattore chimico dell’ICMESA, annoverato nella triste classifica degli otto disastri ambientali più gravi causati dall’essere umano – per capirsi nella lista è appena sotto al disastro di Bhopal e di Chernobyl.
Negli anni si sviluppano diversi movimenti ecologisti, alcuni dei quali si istituzionalizzeranno e daranno vita – soprattutto in Europa – ai partiti verdi che conosceranno un’ampia affermazione politica negli anni ottanta e che oggi sono spesso in netto declino. Ricordare ciò ci permette di porre in evidenza come l’ecologismo non sia omogeneo né per gli scopi che si prefigge né per le metodologie di contestazione. Per questo motivo un discorso a parte merita il rapporto esistente tra ecologismo e anarchismo.
Innanzitutto bisogna dire che gli anarchici hanno spesso contribuito alla realizzazione e alla crescita del movimento ecologista sin dai suoi albori se non prima. Tra i precursori dell’ecologismo in ambito libertario e anarchico è possibile sicuramente ricordare, per fare degli esempi, Henry Thoreau con la sua volontà di ritornare alla natura; Peter Kropotkin che vedeva nella natura le prove della validità del mutuo appoggio e della cooperazione ed Elisée Reclus il quale arrivava a scrivere che “l’uomo è la natura che prende coscienza di sé”, autore inoltre di un saggio sul vegetarianismo.
Per quanto riguarda invece nello specifico l’anarchismo verde o ecologismo anarchico, anch’esso – come tutto l’ecologismo – prende piede a partire dagli anni settanta e, sebbene si differenzi in varie tendenze, presenta alcune caratteristiche comuni quali la constatazione della crisi ecologica, il rifiuto del riformismo, l’antiautoritarismo, la critica all’antropocentrismo e l’opposizione al dominio umano sulla natura.
Nonostante tali caratteristiche comuni, è evidente che l’arcipelago di gruppi, movimenti e giornali che operano nel campo ecologista anarchico è complesso e vario, ciascuno con metodologie e pratiche diverse. L’ecologismo anarchico si dirama infatti in varie tendenze, sviluppatesi soprattutto nei paesi di lingua anglosassone ma giunte in gran parte anche in Italia, tra cui l’ecologia sociale, la decrescita, il primitivismo e l’anticivilizzazione, l’antispecismo… Cercherò di presentarvi queste posizioni, facendo riferimento soprattutto a ciò che è stato prodotto in italiano.
Parto da alcune note sull’ecologia sociale che sicuramente costituisce il primo tentativo di incontro tra anarchismo ed ecologismo, sia in Italia che altrove.
L’ecologia sociale prende avvio dalla teorizzazione dello statunitense Murray Bookchin, il cui interesse per le tematiche ecologiche si sviluppa già nei primi anni ’50: Bookchin è stato quindi tra i primi a prefigurare la comparsa all’orizzonte di una grave crisi ecologica, scrivendo un primo saggio sulla questione ambientale già nel 1952 e il suo primo libro nel ’62. Bookchin sin da subito non si limita a descrivere l’attuale situazione di crisi ecologica ma indica la causa di tale crisi nella rottura dell’equilibrio tra esseri umani e natura; rottura provocata a suo parere dall’emergere di ciò che chiama logica del dominio. Quindi per Bookchin il problema ecologico è in realtà un problema sociale che deve essere affrontato proprio a partire da tale base; a suo parere infatti gli squilibri del mondo naturale sono la conseguenza degli squilibri del mondo sociale. Lo sfruttamento e il dominio sulla natura secondo Bookchin non sono quindi sempre esistiti, ma sono il frutto storico di determinati rapporti sociali e hanno origine nelle gerarchie sociali, emerse per la prima volta con lo sviluppo della famiglia patriarcale e giunte al massimo grado nella società capitalista contemporanea.
L’aspetto fondamentale del pensiero di Bookchin risiede quindi nell’evidenziare l’origine sociale della crisi ecologica e nell’affermare come il dominio sulla natura da parte degli esseri umani derivi dal dominio di un essere umano sull’altro. Quindi, considerato il forte legame esistente tra i problemi ecologici e i problemi sociali, per Bookchin risulta evidente la necessità di cambiare radicalmente i rapporti sociali per risolvere, da un lato la crisi ecologica incombente, e dall’altro l’attuale crisi sociale. Giustizia ambientale e giustizia sociale sono visti così come due volti dello stesso problema, la cui risoluzione necessita di un radicale cambiamento della società, che porti all’eliminazione della gerarchia e del dominio di un essere umano sull’altro.
Numerosi testi di Bookchin sono stati tradotti in italiano a partire dagli anni settanta suscitando un vivace dibattito e favorendo la nascita di alcuni gruppi per l’ecologia sociale in Italia e aprendo – soprattutto a partire dagli anni novanta – un acceso confronto sul municipalismo libertario.
Negli ultimi anni è emerso in ambito anarchico, sia italiano che internazionale, un rinnovato interesse per le proposte dell’ecologia sociale, soprattutto per le critiche da questa rivolte al primitivismo e al misantropismo insito in certe posizioni dell’ecologia profonda. In particolare, accanto a diversi articoli e molti riferimenti sul web, mi permetto di citare per quanto riguarda i testi usciti in italiano il mio libro La rivoluzione ecologica. Il pensiero libertario di Murray Bookchin (Milano, Zero in condotta, 2007) ma anche il testo di Ermanno Castanò Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin (Milano, Mimesis, 2011) e la recente ristampa deL’ecologia della libertà (Milano, Elèuthera, 2010).
Inoltre è importante ricordare come, accanto alle riflessioni dell’ecologia sociale, si siano sviluppate riflessioni ecofemministe che condividono in parte le analisi dell’ecologia sociale ma ritengono prioritario porre fine alla visione patriarcale dominante e al dominio sulle donne considerato all’di ogni dominazione nella società umana, e sostengono quindi che l’ecologia sociale, senza un’analisi femminista della dominazione, rimanga incompleta.
Il movimento per la decrescita si sviluppa nel corso dell’ultimo decennio, inizialmente in Francia. Il teorico più noto, come molti sanno, è il francese Serge Latouche di cui sono stati tradotti in italiano molti testi. Egli sostiene che la decrescita è innanzitutto uno “slogan”, una “parola bomba” il cui scopo è “sottolineare con forza la necessità dell’abbandono della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale”. L’obiettivo polemico dunque è la crescita capitalistica giudicata folle e inutile. Per questo motivo, secondo Latouche, bisogna abbandonare definitivamente l’obiettivo della crescita. Poiché lo sviluppo non è né sostenibile né durevole, dobbiamo “demistificare e demitificare il grande racconto occidentale della crescita, del progresso, con la rivoluzione industriale e i miracoli della tecnologia, racconto che ha largamente contribuito alla formattazione delle menti secondo i parametri della società dei consumi”.
Tutto quanto sostenuto dai teorici della decrescita inevitabilmente contrasta con le esigenze del Capitale, che solo in un sistema economico in espansione può produrre profitto da accumulare, e dello Stato moderno, che sulla promessa truffaldina di una ricchezza materiale in continua crescita fonda il proprio consenso sociale. Il dibattito però sui mezzi e sugli strumenti da adottare da parte del movimento della decrescita è ancora del tutto aperto e per nulla chiaro, mentre la critica alle forme tradizionali della politica e del potere è sviluppata soprattutto per iniziativa della componente eco-femminista presente all’interno del movimento.
In ogni caso vi sono recenti tentativi di aprire anche in ambito libertario e anarchico la discussione sull’argomento “decrescita” e di trovare punti di incontro tra questa teoria e il movimento anarchico e libertario. Alcuni esponenti della decrescita infatti includono esplicitamente la sinistra antiautoritaria fra le radici storiche del loro movimento, e soprattutto in ambito francese si sta approfondendo la tematica attraverso laboratori sulla decrescita organizzati dalla Fédération anarchiste.
Per quanto riguarda l’ambito italiano, è possibile segnalare un animato dibattito sulla decrescita organizzato all’interno della 5° Vetrina dell’editoria anarchica e libertaria a Firenze nel 2011 proposto fra gli altri dal Libero Ateneo della Decrescita di Roma. È da segnalare inoltre che nel 2012 all’interno della terza “Conferenza internazionale su decrescita, sostenibilità ecologica e giustizia sociale” uno dei laboratori, quello su “Decrescita e potere”, nasceva proprio dalla proposta di alcuni libertari italiani. È interessante infine ricordare il saggio di Latouche appena apparso sul primo numero della nuova Libertaria (L’anarchismo oggi. Un pensiero necessario, Himesis, 2013), intitolato “Stato e rivoluzione (della decrescita)” che si conclude con Né anarchismo, né “democratismo”, il che forse dice più di tanti dibattiti…
Passiamo ora al primitivismo anarchico o all’anticivilizzazione che negli ultimi tempi sta riscuotendo un rinnovato interesse.
Il più noto teorico del primitivismo anarchico è lo statunitense John Zerzan il quale individua nell’agricoltura e nell’allevamento – oltre che nella cultura simbolica – le cause della divisione del lavoro, della gerarchia, dell’alienazione e dello sfruttamento di un essere umano sull’altro e dell’essere umano sulla natura. Zerzan ritiene che con la rivoluzione neolitica – ovvero con l’emergere dell’agricoltura e della domesticazione animale – l’umanità abbia preso una svolta distruttiva. Con la rivoluzione neolitica – secondo Zerzan – all’originaria unione e comprensione del mondo si è sostituito l’imperativo dello sfruttamento delle risorse e dell’accumulazione dei beni; questa logica sta spingendo il pianeta verso l’esaurimento delle risorse e verso un prossimo collasso. L’unica soluzione risiede per lui nella distruzione della civilizzazione e dell’industrializzazione e in un ritorno ad un mondo preagricolo e nomade.
Alcuni libri di Zerzan sono stati tradotti in italiano negli ultimi anni, soprattutto da Stampa Alternativa di Roma e dalla Nautilus di Torino. Sempre in italiano sul primitivismo è stato tradotto l’opuscolo Introduzione al pensiero e alla pratica anarchica di anticivilizzazionescritto dal collettivo Green Anarchy.
Le posizioni anticivilizzatrici sono state riprese in Italia negli ultimissimi anni da alcuni autori come Michele Vignodelli e soprattutto da Enrico Manicardi, autore di due volumi Liberi dalla civiltà e L’ultima era entrambi editi dalle edizioni Mimesis; oltre che dalle pubblicazioni della “Coalizione contro le nocività” e da alcuni periodici come “Terra selvaggia” e “Nunatak”.
In tutti questi scritti si riscontrano quelle che sono le caratteristiche principali del pensiero anticivilizzatore ovvero innanzitutto l’individuazione della civilizzazione come la radice dei problemi del mondo; in secondo luogo la convinzione che l’origine della civilizzazione, e quindi a loro parere del sistema oppressivo attuale, risiede nella scoperta dell’agricoltura; in terzo luogo la tesi che l’origine del dominio risiede nella divisione del lavoro, nella nascita del “simbolismo” e del concetto di tempo; inoltre il rifiuto radicale della società industriale condiderata la fonte principale delle diverse forme di alienazione che gravano sulla libertà umana e infine la promozione di un modello di vita strutturato su una forma di società basata sul sistema dei cacciatori-raccoglitori e sul nomadismo, considerato come il modello più egualitario mai esistito riguardo ai rapporti tra esseri umani ma anche tra umani e natura, un ritorno dunque a una società pre-moderna e pre-industriale.
Ci sono però anche delle differenze all’interno del pensiero anticivilizzatore, innanzitutto perché sicuramente non necessariamente tutti i primitivisti sono anarchici, ma anzi vi è una fetta significativa di primitivisti autoritari o mistici. In secondo luogo perché sebbene l’idea del primitivismo implichi, nella sua forma più radicale, un ritorno a una supposta età dell’oro della caccia/raccolta, tuttavia pochi – anche tra i più fervidi critici della civilizzazione – sostengono fino in fondo questa direzione e quindi la questione se bisogna abbattere o abbandonare la civiltà è tutt’altro che risolta.
Le posizioni primitiviste sono state oggetto di molte critiche, in Italia e altrove, soprattutto sul fatto che l’accenno è posto spesso più su una volontà distruttiva che non costruttiva e inoltre per una certa indifferenza dimostrata rispetto al destino a cui andrebbero incontro milioni di esseri umani se la terra fosse catapultata d’improvviso in un’epoca primitiva. Infine la posizione sulla tecnologia, ritenuta dai primitivisti come tutt’altro che neutrale, non è condivisa da una parte importante del movimento ecologista anarchico, ma approfondire oggi questo discorso ci porterebbe troppo lontano.
Per prima cosa bisogna precisare che ovviamente non tutti gli antispecisti sono anarchici né l’antispecismo fa necessariamente riferimento ad un pensiero libertario, anzi si può dire che non esiste un solo antispecismo, ma declinazioni molteplici.
L’antispecismo raggiunge consistenza e visibilità a partire dal testo di Peter Singer del 1975 intitolato Liberazione animale, sebbene a dir la verità una riflessione sull’animalità sia sempre stata presente sin dall’antichità, a partire ad esempio dallo scritto di Plutarco intitolato Del mangiare carne. Trattati sugli animali. Singer definisce lo specismo come “un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie” affermando che un pregiudizio analogo è all’opera anche nel caso di discriminazioni intra-umane quali il razzismo e il sessismo.
Più recentemente a questa definizione di specismo se ne è affiancata un’altra che considera lo specismo non più come un pregiudizio ma come un’ideologia giustificazionista per pratiche di oppressione dell’animalità. Lo specismo viene così definito (ad esempio da David Nibert) come “un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali”. In questo modo l’antispecismo abbandona il piano del pensiero astratto e argomentativo, volto a mostrare l’incoerenza del pensiero specista, e passa così al piano della prassi politica: non è più quindi un antispecismo morale ma diventa un antispecismo politico. Così facendo l’antispecismo lega l’interesse per la sorte degli sfruttati di altre specie alla critica del capitalismo, dell’antropocentrismo e del sistema di dominio, riuscendo così a difendersi dalle frequenti e sempre più numerose infiltrazioni del movimento di estrema destra nel movimento animalista e trovando invece un contatto col mondo libertario e anarchico.
L’antispecismo rientra dunque a pieno titolo all’interno dell’anarchismo verde quando ha come obiettivo la liberazione animale (umana e non) e di conseguenza una nuova società libera, solidale ed egualitaria. L’antispecismo libertario e anarchico ha come fine la liberazione animale e ritiene che per raggiungere tale obiettivo sia necessario abbattere le barriere culturali e materiali che impediscono ai principi di eguaglianza, equità e rispetto, di cui è portatore, di potersi liberamente diffondere; ma poiché queste barriere sono le stesse che consentono a tutt’oggi il perpetuarsi dello sfruttamento dell’umano sull’umano, ecco che per l’antispecismo anarchico liberazione umana e liberazione animale non umana coincidono.
Il dibattito sull’antispecismo è decisamente aperto e negli ultimi anni piuttosto vivace e interessante, così come interessante è ad esempio la significativa distinzione tra animalismo e antispecismo. Tra i numerosi riferimenti bibliografici che si potrebbero dare segnalo la rivista trimestrale “Liberazioni. Rivista di critica antispecista”, nata nel 2010 (la rivista italiana di filosofia antispecista più longeva di sempre); il periodico “Veganzetta”; ma anche gli interessanti dibattiti sull’antispecismo ospitati recentemente da A Rivista anarchica e il testo di Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio (Milano, Elèuthera, 2013).
Strettamente legato all’antispecismo ricordo infine la riflessione sul vegetarismo – sul quale non abbiamo il tempo oggi per soffermarci – pratica largamente diffusa all’interno del movimento anarchico, molto interessante soprattutto per la sua continua oscillazione tra stile di vita, obbligo morale o istanza politica.
Questo è il testo della relazione “Appunti per una storia dell’anarchismo verde in Italia” presentata nel corso del seminario pubblico “La storiografia dell’anarchismo italiano dal 1945 ad oggi” promosso dall’Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa e tenutosi nella Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia il 9 novembre 2013.
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