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Fenomenologia della compassione di Ralph Acampora (Edizioni Sonda, 2008) è un libro che apre nuovi orizzonti nella comprensione dei rapporti che costituzionalmente ci legano agli Animali e, conseguentemente, indica nuovi indirizzi per il perseguimento della Liberazione Animale. In primo luogo, questo volume, ribaltando completamente la prospettiva con cui guardarci e con cui guardare al resto del vivente, contribuisce a far chiarezza su alcuni annosi problemi della teoria e della pratica antispecista. In secondo luogo, propone una sorta di “teoria unificante del vivente” che, in prospettiva, sembra rendere possibile quella convergenza tra antispecismo ed ecologia da tempo auspicata. Infine, pur trattandosi di un testo di teoria antispecista, denso di riferimenti filosofici e scientifici, Fenomenologia della compassione propone alcuni esempi di come la prospettiva delineata dall’autore dovrebbe essere considerata in contesti pratici e fornire nuovi argomenti a chi è impegnato nella lotta di Liberazione Animale.Tra i problemi affrontati da Acampora, assume una rilevanza eccezionale la questione della “coscienza animale”. A partire dal “possono soffrire” di Bentham fino al concetto reganiano di “soggetto-di-una-vita”, la difesa dell’Animale si è sempre scontrata con il difficile compito di dover dimostrare ad una cultura rigorosamente specista che gli Animali possiedono caratteristiche – quali l’anima, una mente, una sensibilità ecc. di tipo vagamente “umanoide” -, tali da rendere ingiust(ificat)o il modo in cui normalmente vengono trattati dalla nostra società. Acampora sostiene che questo modo di procedere concede troppo all’avversario, poiché muove da un presupposto filosofico che non siamo affatto obbligati ad accettare: il solipsismo (per “solipsismo” si intende il punto di vista che assume come certa e indubitabile solo la propria mente).
L’autore ci invita invece a spostare l’attenzione sul concetto di corpo – inteso, ovviamente, non come mero ricettacolo spaziale, ma come campo di forze parte di un reticolo più ampio che costituisce insieme agli altri corpi (nei termini dell’autore: “sinfisìa”) – poiché la mente stessa non esiste in un vuoto pneumatico ma nasce e concresce in un tessuto vivente di rapporti, incontri e scontri che hanno come presupposto l’esistenza corporea.
Acampora inizia così una serrata descrizione di cosa si debba intendere per corpo vivente (“corpeazione”) e, quindi, di cosa significhi condividere con altri corpi uno spazio (“residenzialità”) e un tempo (“climaticità”).
Descrizione serrata che lo porta ad individuare nella vulnerabilità la caratteristica più intrinseca e profonda dell’essere corpo, vulnerabilità che, essendo condivisa da tutte le specie, apre lo spazio della compassione (cioè del sentire-assieme) e della convivialità transpecifica. La compassione di Acampora non è perciò il ritorno alla pietà del movimento animalista che ha preceduto le elaborazioni teoriche degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Quella pietà, infatti, nonostante il lodevole impegno degli attivisti di allora, era ancora strettamente antropocentrica – una generosa concessione che un Umano benigno faceva all’Animale. È questa natura profonda e condivisa dell’esistenza corporea a fondare la possibilità di una sintesi tra antispecismo ed ecologia.
Acampora non nasconde che il dissidio tra animalisti ed ambientalisti risiede nel diverso approccio al problema “natura” (i primi si interessano dei destini degli individui, i secondi di quelli del sistema-mondo) e prende inequivocabilmente posizione per l’ottica antispecista. Da quanto detto, però, è evidente che un’ enfasi esclusiva sull’individuo non può che essere fuorviante. L’individuo, come realtà a se stante ed esclusiva, esiste tanto poco quanto una mente solipsistica. In questo senso, l’ambiente (come sintesi di corpeazione, residenzialità e climaticità) non è qualcosa di esterno al corpo individuale ma lo attraversa e lo costituisce.
Fenomenologia della compassione è infine un testo che dimostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, come la teoria non sia necessariamente nemica della prassi ma, anzi, ne sia il presupposto ineludibile.
Le pagine dedicate all’applicazione della teoria acamporiana a due dei campi dove tradizionalmente si è assistito al massimo impegno da parte del movimento antispecista (lo zoo e la vivisezione) mostrano come una visione dell’Animale nei termini brevemente richiamati imponga la cessazione tout court di ogni pratica che limiti le sue possibilità di espansione, incontro e interazione con gli altri corpi.
In altre parole, queste pratiche sono condannabili, indipendentemente dalle atrocità a cui si associano, già “solo” per il fatto che tramite un sistema di contenimento espongono il corpo dell’Animale alla più completa ed assoluta visibilità, togliendo a tale corpo ciò che gli è più proprio e cioè la possibilità di negarsi all’incontro. La cattività è perciò il crimine originario e non riformabile tanto dello zoo che della vivisezione. Essa trasforma gli Animali in esemplari (nello zoo) e in numeri (nel laboratorio), annullando o facendo finta di annullare ogni possibilità di rapporto tra noi e loro. L’aspetto forse più interessante di queste osservazioni è che la critica di Acampora alla vivisezione indica la possibilità di spingersi oltre la diatriba che oppone l’antivivisezionismo scientifico a quello etico, in direzione di una visione più ampia in cui la scienza e l’etica sono considerate entrambe parti di un processo che le abbraccia e verso cui dovrebbero volgersi i nostri sforzi di comprensione e di trasformazione: la vita condivisa.
Marco Maurizi e Massimo Filippi
Articolo pubblicato originariamente nella rivista Veganzetta versione cartacea: Anno II / Numero Speciale del 15 Maggio 2008, p. 2
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