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“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” diceva il noto filosofo Ludwig Wittgenstein, un’affermazione che molto semplicemente indica l’impossibilità di definire la realtà al di fuori di un linguaggio che sappia esprimerla e il linguaggio in ambito umano è quasi sempre un sistema di segni condivisi da una data comunità. In questo senso, il linguaggio è un creatore di mondi e un costruttore di senso e significati.
Nella neo-lingua orwelliana del romanzo distopico 1984 si dà vita a una serie di enunciati che ripetuti ossessivamente dalla propaganda del regime finiscono per diventare credibili, quindi reali. Non importa che qualcosa lo sia, basta ripeterlo fino allo sfinimento, farne, per così dire, un luogo comune e le persone finiranno per crederlo reale. In questo senso possiamo tranquillamente affermare che il linguaggio è sempre un atto politico.
L’apprendimento della cultura in cui viviamo comincia sin da quando siamo bambini e interiorizziamo passivamente una serie di informazioni e di credenze culturali che, proprio poiché ci vengono somministrate in un’età in cui non abbiamo ancora capacità critica, non siamo in grado di mettere in discussione. È in questo modo che si trasmette la cultura in cui viviamo e i valori in cui crediamo: tramite un processo che si chiama appunto inculturazione e che si avvale del linguaggio e dei significati di cui si fa portatore.
Ora, così come le società si evolvono, sebbene quasi sempre solo in apparenza, anche le lingue e i linguaggi mutano col tempo per star dietro alla loro raffigurazione: alcuni modi di dire scompaiano e parole un tempo accettate vengono ritenute superate; succede però anche il contrario, ossia che si continuino a tramandare con una certa pervicacia determinati modi di dire ed espressioni poiché funzionali al sistema politico-sociale in cui viviamo o che, come nel già citato 1984 di Orwell, se ne inventino di nuove per favorire una certa ideologia e l’ascesa di una certa forma di potere.
Il sistema politico-sociale in cui viviamo è fondamentalmente conservativo ed è un sistema gerarchico basato sul dominio da parte di uno o più gruppi su una moltitudine di viventi. Questo dominio non è solo verticistico, ma anche trasversale e intrecciato in vari sottoinsiemi, così ci sono gruppi oppressi che a loro volta ne opprimono altri e forme di oppressione similari e analoghe nelle loro manifestazioni a seconda della diversificazione delle vittime. C’è un solo gruppo di viventi che, a ogni latitudine, non viene mai risparmiato ed è quello costituito dagli Animali non umani. Ovunque si vada si può esser certi che sono tutti, a parte la minoranza degli antispecisti, concordi nel ritenere in qualche modo giustificato lo sfruttamento degli altri Animali e il linguaggio è uno degli strumenti funzionali al mantenimento di questa oppressione e ideologia che chiamiamo specismo: un’ideologia tanto più efficace e pervasiva quanto più resa invisibile dal fatto che viene interiorizzata sin da quando siamo bambini, anche attraverso una serie di frasi fatte, locuzioni, termini che ci ricordano continuamente che gli Animali sono inferiori e diversi da noi, gli Umani, giustificando l’oppressione e la discriminazione basata sulla differenza di specie. Già questa prima differenziazione terminologica e ontologica, che non ha alcun senso scientificamente parlando, dal momento che anche noi siamo Animali, imprime, di fatto, un marchio violento.
Per combattere lo specismo bisogna agire su più livelli, lavorando anche sulla percezione che abbiamo del mondo che ci circonda e quindi sul linguaggio.
In questi giorni in cui si parla tanto dell’emergenza dei migranti umani colpiscono alcune espressioni ripetute dai media, dalle persone umane, ma anche dai migranti stessi. “Ci trattano come animali”, “trattati come animali”, “non siamo bestie”, “viaggiano come animali stipati su carri bestiame”. Sono espressioni e modi di dire che ci indignano e ci indignano per il semplice fatto che pensiamo che sia se non lecito quantomeno normale trattare gli Animali in un certo modo, ma non gli Umani e che quindi esseri umani e Animali debbano essere trattati diversamente. Questo modo di dire non fa altro che perpetuare lo specismo e nel farlo lo legittima e lo rafforza. Se i migranti sono trattati come Animali è perché permettiamo che gli Animali siano trattati come sono trattati. E nel dire “non siamo mica animali” non ci rendiamo conto che ne decretiamo e avalliamo lo sfruttamento, la violenza, l’uccisione, così come di quella di tutti coloro che via via verranno ad essi assimilati.
Persino le persone umane più disagiate di questa terra, le ultime tra le ultime – ingiustamente disagiate poiché private delle risorse da governi infami e costrette ad abbandonare le loro terre a causa delle guerre per l’accaparramento delle risorse dei territori in cui sono nate – non riescono a superare la barriera sottile come un filo che le separa dagli altri Animali e non si rendono conto che se vengono trattate così è anche perché esiste un termine di paragone cui far riferimento, un precedente.
In ogni epoca, ogni volta che si è voluto opprimere o uccidere un gruppo di persone umane è stato necessario trovare una giustificazione razionale che ne motivasse l’azione e la più comune è sempre stata quella sbiadirne i contorni che li definivano come individui umani per tratteggiarli con quelli più vicini alle varie definizione di animalità, intesa come insieme di caratteristiche – del tutto arbitrarie – opposte e negative rispetto a quelle che contraddistinguono invece l’umanità. Tutte caratteristiche ovviamente funzionali a giustificarne l’oppressione.
Oggi però il sapere condiviso, la scienza, l’etologia, l’antropologia, ci dicono che siamo tutti Animali, umani e non, e che questa distinzione ontologica non ha più senso, se non a giustificarne l’oppressione per motivi economici o respingere chi, di volta in volta, per vari motivi, come i migranti, non vuole essere tenuto fuori dalla cerchia degli aventi diritto a fare determinati cose, che spesso coincide con la cerchia degli aventi i diritti basilari tout court. Non si capisce che finché rimarrà in piedi questa distinzione principale tra i viventi, Umani e Animali, resterà sempre aperta la possibilità di definire un’alterità su cui proiettare in negativo tutto ciò che ci spaventa e rifiutiamo, ma che in realtà ci appartiene. Ma, sia chiaro, la volontà di abbattere questa distinzione ontologica e di fatto tra Animali umani e non, non dovrebbe essere dettata unicamente dal desiderio di abbattere i presupposti affinché si creino le condizioni di poter trattare qualcuno come un animale, ma per il riconoscimento della dignità degli altri Animali stessi, affinché siano considerati individui da rispettare e non macchine da sfruttare o prodotti da consumare; come scriveva il filosofo Tom Regan, gli Animali non umani vanno riconosciuti come soggetti della loro stessa vita e in quanto tali rispettati, e non in funzione dei nostri bisogni o dei nostri capricci.
Bisogna quindi iniziare a stigmatizzare tutte quelle espressioni e modi di dire specisti che continuano a rafforzare questa disparità di trattamento tra Animali umani e non, dando per scontato, e anzi confermando, che sia giusto uccidere, schiavizzare, sfruttare, maltrattare i secondi.
Se non è giusto trattare un migrante umano come un pacco postale, non è giusto nemmeno per un Animale non umano. Bisogna iniziare a dirlo, forte e chiaro, senza aver paura di passare per misantropi. Ché non è questione di essere anti-umani, ma, al contrario, di includere nel cerchio degli aventi rispetto anche i non umani, abbattendo quei limiti del linguaggio che sono ormai i limiti di un mondo che dovrebbe aver capito che continuare a mantenere in piedi barriere (simboliche e reali) non può che portare verso un’inevitabile distruzione. Non ci siamo noi e il mondo, noi e la Natura, noi e migranti umani, noi e gli altri Animali, i migranti umani e gli Animali – un dualismo che porta alla frattura e all’instaurazione di relazioni improntate sul dominio di un gruppo sull’altro -; ma noi nel mondo, noi nella Natura, noi insieme agli altri Animali – ciò che invece, come espressioni linguistiche, rimanda immediatamente a un rapporto di armonia, di collaborazione, di solidarietà reciproca, di accoglienza.
Rita Ciatti
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Infatti avevo letto che i nazisti avevano creato i campi di sterminio prendendo esempio proprio dalle catene di smontaggio dei mattatoi. Brava Rita, devono smetterla con questo antropocentrismo, l’ uomo è un animale come gli altri, anzi non certo quello con più cuore.
Questo testo ne parla con grande dovizia di particolari: https://it.wikipedia.org/wiki/Un%27eterna_Treblinka