Si legge in circa: 6 minuti
Buongiorno a tutti, sono un vostro assiduo lettore, vegano, volevo chiedere il vostro parere su quanto scritto sull’ultimo numero della pubblicazione online “Il Fatto Alimentare” riguardo alla situazione caotica sui requisiti richiesti per la certificazione di un prodotto veg; da quel che ho potuto capire soprattutto nella sezione “Commenti”, sembra che tra le problematiche ci sia l’assenza di un interlocutore “ufficiale” del mondo veg che possa chiarire quali parametri deve avere un prodotto vegano (se ad esempio il fatto che sia dichiarato che ci siano tracce di latte e uova possa essere accettabile oppure no, oppure se si debba chiarire, per arrivare alle estreme conseguenze, se la coltivazione di un prodotto come ad esempio la soia, abbia evitato l’uccisione, nel corso delle pratiche colturali di animali, roditori, insetti ecc, oppure che non sia stato causa di sfruttamento e vessazioni sulle popolazioni umane del luogo di coltivazione).
Spero possiate aiutarmi!
Segue il link in oggetto.
Un caro saluto e ancora tanti complimenti per la vostra pubblicazione!Fabio Bodrero
https://ilfattoalimentare.it/vegani-vegetariano-certificato.html
La domanda di Fabio è senza dubbio interessante e offre lo spunto per una breve analisi di un argomento che è un problema importante per il mondo vegano, ossia il tentativo in atto da tempo di individuare una serie di caratteristiche minime, chiare e condivise che dovrebbe avere un prodotto commerciale per essere definito “vegano”.
Nell’articolo pubblicato su Ilfattoalimentare.it citato, l’autore considera lo stato dell’arte delle certificazioni per i prodotti “vegani” (o peggio ancora definiti “veg”: termine inventato dal marketing per fini meramente commerciali e che vuol dire tutto e nulla) presenti attualmente in Italia, evidenziando la confusione che regna sovrana.
Fabio accenna all’assenza di un interlocutore “ufficiale”: una voce unica in rappresentanza dell’ambiente vegano che però (per sua natura e storia) è a dir poco frammentato e addirittura caratterizzato da posizioni in conflitto tra loro; tanto che ancora oggi non è stato possibile esprimere una linea di pensiero e di condotta unitarie, non si capisce dunque come potrebbe essere possibile arrivare ad un accordo sugli standard di eventuali prodotti commerciali “vegani”. Esistono in realtà dei tentativi in atto da parte di alcune associazioni vegane europee (anche italiane) di avviare un dialogo con le istituzioni in tal senso, ma la situazione è ancora ben lontana dall’adozione di un vero e proprio regolamento. Qualora inoltre giungessero a dei risultati effettivi, rimarrebbe irrisolto il grave problema della rappresentatività, per via delle ragioni espresse in precedenza.
Oltre al problema dell’interlocutore, Fabio solleva un’altra questione fondamentale, in sunto: fino a dove nell’analisi del processo produttivo ci si dovrebbe spingere per considerare un prodotto come “vegano”?
La complessità della filiera industriale di un prodotto è tale che cercare di analizzarne ogni elemento e adeguarlo in base alle esigenze della filosofia vegana, significherebbe nella pratica uno sforzo enorme, soprattutto per l’adattamento dei processi produttivi. Gli elementi da tenere in considerazione sono numerosissimi, alcuni dei quali sono stati anche accennati nei commenti all’articolo de Ilfattoalimentare.it. Basti pensare che se – in quanto persone umane vegane – desideriamo coerentemente impattare il meno possibile sugli altri a partire dagli Animali, è necessario considerare non solo gli ingredienti, componenti o caratteristiche di un prodotto che intendiamo consumare (che non devono essere causa di sfruttamento o morte di Animale), ma anche per esempio gli imballaggi (che non devono contenere colle, colori e materiali di derivazione animale), o i processi di produzione e controllo (che non devono prevedere test su Animali o un loro qualsiasi impiego), ma anche l’eticità dell’azienda produttrice. Esistono in commercio prodotti definiti “vegani” derivanti da aziende che hanno come core business lo sfruttamento degli Animali, o sono multinazionali che provocano enormi danni all’ecosistema, non rispettano i diritti dei lavoratori e delle popolazioni locali.
Non è difficile comprendere che anche se tutti i criteri di cui sopra venissero rispettati, sarebbe necessario analizzare altri fattori come ad esempio il trasporto: quanto è etico un prodotto che percorre migliaia di chilometri per finire nelle nostre case? Pare una questione di poco conto, ma a causa del suo trasporto verrebbero bruciate quantità enormi di derivati petroliferi, immesse nell’atmosfera tonnellate di sostanze inquinanti, uccisi migliaia di Animali (vittime del traffico aereo, ferroviario, navale, su ruota).
Altra questione è la modalità di produzione utilizzata: ci sono prodotti che pur avendo caratteristiche merceologiche compatibili con l’idea vegana (si pensi all’olio di palma), sono la causa nei luoghi di produzione di terribili devastazioni ambientali e della sofferenza e morte di un numero enorme di Animali selvatici.
In verità andrebbe aggiunto che anche nelle produzioni locali di piccola entità, esistono elementi di considerevole criticità: un pomodoro coltivato con metodo biologico, da una piccola azienda magari a conduzione familiare e venduto direttamente sul posto, ha pur sempre causato la morte di molti Animali, uccisi dagli antiparassitari (sebbene biologici), dall’aratura meccanizzata dei campi, dalla raccolta e dalla lavorazione. Chi lo coltiva e commercializza potrebbe, inoltre, non essere una persona umana vegana e utilizzare il denaro percepito in attività che causino sfruttamento o uccisione di Animali.
L’individuazione di una serie minima di caratteristiche da rispettare per l’ottenimento di un prodotto commerciale “vegano”, significherebbe inoltre porre un pesante limite, per motivi pratici ed economici, alla vastità dell’analisi dell’impatto che tale prodotto può avere sugli Animali. L’idea di un limite legato a motivazioni produttive ed economiche sarebbe quindi già di per sé non in linea con il pensiero vegano, in quanto atto arbitrario che permetterebbe di escludere dalla nostra considerazione morale ulteriori danni evitabili agli Animali (umani e non).
Si può affermare dunque che il pensiero vegano non potrà mai essere integralmente declinato in un processo produttivo come lo concepiamo al giorno d’oggi.
Pertanto in linea di principio è corretto definire un prodotto come “vegano”?
Il veganismo non è banalmente una pratica e non può e non deve essere concepito solo come tale: è una filosofia morale con una sua precisa etica e dotato di una serie di pratiche coerenti; definire un prodotto come “vegano” equivarrebbe ad attribuirgli un significato che non può avere né tanto meno rappresentare. Come non hanno motivo di esistere degli spaghetti libertari, una bicicletta antifascista, o una lampadina nonviolenta, non dovrebbe esistere una marmellata vegana, ma al limite una marmellata “100% vegetale” ottenuta con metodi che arrecano il minor danno possibile agli altri Animali e all’ambiente, che non abbia significato lo sfruttamento o la morte di nessuno (Umani compresi), che derivi da un commercio equo e solidale e via discorrendo. Dei prodotti rispettosi – per quanto possibile – dell’etica vegana, possono solo essere il risultato di un cambio sostanziale e radicale del modo di produrre unitamente a un nuovo concetto di consumo delle persone umane vegane: il mondo della produzione e quello del consumo dovrebbero condividere gli stessi principi, divenire un tutt’uno.
L’individuazione di un protocollo condiviso per la determinazione dello status di “vegano” per un prodotto, al giorno d’oggi e nella società contemporanea, ricondurrebbe all’idea di delega e alla passività a cui è relegato il soggetto consumatore finale. Ma la persona umana vegana è nella realtà un soggetto consum-attore ossia consuma consapevolmente e responsabilmente, riflettendo sugli effetti delle scelte che compie e sulle conseguenze dei suoi comportamenti sugli Animali, sulla società umana e sull’ambiente. Un consum-attore vegano non subisce passivamente, ma propone, interviene e modella direttamente la sua realtà dei consumi. Il limite della considerazione dei diritti fondamentali altrui è frutto della coscienza individuale e collettività delle persone umane vegane e in continua evoluzione, ed è parte integrante del processo di ricerca esistenziale tipico del veganismo: ciò significa che paradossalmente un prodotto considerato “vegano” da alcuni individui, potrebbe non esserlo per altri, oppure potrebbe esserlo ora, ma potrebbe non esserlo nel caso si acquisiscano nuove conoscenze e consapevolezza.
Insomma decidere a tavolino con il mondo produttivo (o peggio lasciare che quest’ultimo decida) quali potrebbero essere le caratteristiche basilari di un prodotto “vegano”, significherebbe di sicuro una maggiore chiarezza nell’offerta e una indubbia facilitazione per il consumatore finale, ma allo stesso tempo causerebbe un’inevitabile sua deresponsabilizzazione e la paralisi di un continuo e inarrestabile processo di crescita personale, culturale e sociale che è alla base del pensiero vegano.
Dulcis in fundo l’adozione del concetto di prodotto “vegano”, significherebbe anche l’accettazione da parte del mondo vegano, delle regole decise e imposte dal mercato e dal mondo produttivo, dirette espressioni di una società antropocentrica, capitalista e consumista, quindi inevitabilmente specista. Si può addirittura affermare che ad oggi un prodotto commerciale “vegano” universalmente accettato e affidato alle dinamiche del mercato, segnerebbe la fine della spinta innovatrice e rivoluzionaria del pensiero vegano.
In conclusione è auspicabile l’eliminazione del termine “vegano” da qualsiasi processo produttivo attuale, in favore di una terminologia appropriata – come ad esempio “100% vegetale” o similare – unita a delle politiche di produzione utili ad evitare lo sfruttamento degli Animali e dell’ambiente, politiche che nella attuale società umana in cui viviamo, con le attuali logiche del profitto e con le attuali modalità e tecniche di produzione, non potranno mai in alcun modo soddisfare l’etica vegana.
Adriano Fragano
Se hai letto fin qui vuol dire che questo testo potrebbe esserti piaciuto.
Dunque per favore divulgalo citando la fonte.
Se vuoi Aiuta Veganzetta a continuare con il suo lavoro. Grazie.
Avviso legale: questo testo non può essere utilizzato in alcun modo per istruire l’Intelligenza Artificiale.
Ottimo! Sono anni che detesto le etichette!
“100% vegetale” mi pare una proposta accettabile.
Anche se temo che poi, qualsiasi soluzione si adotti, con il tempo verrebbe inevitabilmente distorta dal sistema…
In effetti qualsiasi soluzione in ambito commerciale diverrebbe oggetto di strumentalizzazione e di speculazione, perlomeno non sarebbe più l’idea vegana a essere usata e messa in pericolo e questa non è certo cosa di poco conto.