Categoria: <span>Antispecismo</span>


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Noi esseri umani spesso esitiamo a definirci “Umani”, il che denota quantomeno che come specie siamo culturalmente molto confusi rispetto a ciò che siamo e ciò che vorremo essere. Utilizziamo spesso l’aggettivo “disumano” per definire il comportamento di nostri simili che commettono atti di sopruso o violenza. Dimenticandoci evidentemente che costoro sono in tutto e per tutto Umani come noi. In casi estremi poi sosteniamo quasi con naturalezza che certe persone umane sono degli “animali”, delle “bestie”, sempre a causa di loro comportamenti inaccettabili.

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I progressi tecnologici e tecnici della medicina nel campo dei trapianti e le possibilità  di salvezza per molte persone malate si scontrano con un problema pratico molto concreto e carnale, ossia la cronica mancanza di organi sani da trapiantare, dovuta ad una carenza di donatori: «La lista d’attesa negli Stati Uniti, aggiornata al gennaio 2004, consiste in un elenco di circa 84.000 pazienti; di questi, 57.000 sono in attesa di un rene.
I dati, comunque, indicano che 16 persone muoiono ogni giorno negli Stati Uniti in attesa di un organo».1

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Assistendo alla presentazione del libro Fenomenologia della compassione di R. Acampora a cura di Massimo Filippi e Marco Maurizi tenutasi al Veganch’io 2008, è stato interessante constatare come Acampora consideri la questione della cessione dei diritti acquisiti ad altri che ne sono privi (nel nostro caso gli Animali). I curatori infatti parlavano della concessione dei diritti come atto intrinsecamente specista, una considerazione assolutamente condivisibile. La posizione di dominanza di chi concede dei diritti acquisiti ad altri è indubitabile.

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Cercando la parola “vegan” in un motore di ricerca di immagini si troveranno per prime delle foto di vegetali (solitamente in funzione alimentare). Anche cercando libri riguardanti il “veganismo” ci si imbatte soprattutto in libri di ricette alimentari o relativi alla dieta. E non possiamo dimenticare l’evidenza del fatto che la radice semantica del termine stesso rimandi al “vegetale”. E non alla sofferenza e alla morte. Pare esservi insomma nella percezione collettiva e nella cultura una visione superficiale (nel senso quasi “geometrico” della parola) della pratica vegana: essendo consapevoli di come la “parola”, l’ “immagine” e la “comunicazione” abbiano il potere di plasmare la realtà, non si può che essere preoccupati.

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