Benessere animale che nuoce agli Animali


Si legge in circa:
8 minuti

opera di Roberto Manzotti

Si pubblica di seguito un testo tratto dal libro “Noi abbiamo un sogno” della psicologa, psicoterapeuta e attivista animalista Annamaria Manzoni che si ringrazia per la disponibilità.
Buona lettura.


Benessere animale che nuoce agli animali

The Times They Are a-Changin’: finiva il 1963 quando Bob Dylan la cantò per la prima volta dando voce all’urgenza e alla fascinazione di un cambiamento che sembrava destinato a travolgere il mondo; ideali di rinnovamento, giustizia, pace, sollecitati dalla forza esplosiva di un’intera generazione di giovani, pronti a rivoltare il mondo, che così come era fatto non si poteva proprio sopportare. Da allora è risuonata in mille contesti dove la rivolta contro l’ingiustizia faceva sventolare la bandiera di ogni speranza; nella rimozione autoprotettiva che quei versi erano risuonati per la prima volta giusto quando John Kennedy veniva assassinato: dettaglio non trascurabile mentre il sogno veniva spacciato per previsione.
Potenza delle parole e potenza dei sogni. Così anche oggi la tentazione di ripeterle è grande davanti al dilagante movimento contro la sopraffazione dei nonumani, che si manifesta nelle forme indecenti, irraccontabili, variegate, ciniche, sadiche che sa assumere. L’ingiustizia sembra tale da dovere per forza implodere. Nel giro di pochi decenni, ma essenzialmente negli ultimi anni, davvero tantissime cose sembrano essere cambiate: si denunciano le atrocità compiute nei macelli, nei laboratori di vivisezione, nel dietro-le-quinte dell’addestramento degli animali esotici nei circhi, si guardano con disprezzo attività quali caccia e pesca, sagre e zoo, per legittimate che siano. Persino nel campo dell’alimentazione, quella connessa alla pochezza della nostra (in)capacità di agire sugli irrinunciabili piaceri della gola, tante cose si muovono: un termine quale vegano, incomprensibile ai più fino all’altro ieri, è ora sdoganato in tanti bar e ristoranti; vengono pubblicati persino libri il cui titolo, No vegan,1 sta a metà strada tra la supplica di chi non ne può più (Basta, vi prego) e l’appello di chi, seriamente preoccupato, passa al contrattacco (Tutte storie); maltrattamenti di animali d’affezione raramente hanno luogo in pubblico e, quando succede, le conseguenze mediatiche sui responsabili sono dilaganti. Pur nella consapevolezza trattarsi di gocce nel mare, la tentazione di farsi invadere da una vaga soddisfazione, che attutisca il tormento sperimentato da tutti coloro che sentono nelle loro corde l’inferno quotidiano dei nonumani, è davvero grande. Tentazione che deve però confrontarsi con la realtà, che racconta una storia diversa. Addentrarsi nel discorso coincide con la presa d’atto di una situazione di fatto: ciò di cui si parla, che si sbandiera e si ripete quasi fosse un mantra, è essenzialmente il benessere animale, alla lettera quindi una condizione in cui gli animali stanno bene. Ma le cose bene non stanno.

Per capirci con qualche esempio: la Coop che sei tu (tu chi?) nella sua pubblicità “si impegna a migliorare le condizioni degli animali” per eliminare o ridurre l’uso degli antibiotici. Così si può contrastare l’aumento di batteri resistenti e dare alle persone una garanzia in più per la loro salute. Per questo, il benessere animale, assicurano, è nell’interesse di tutti. A commento una bella immagine stilizzata di un pollo bianco come il latte, che scoppia di salute. Giusto per ricordare: nulla della nascita e della vita dei polli cambia: iperallevamenti, spazi ridottissimi per le galline, trasporti finali in terrificanti tir, sgozzamenti a catena di montaggio appesi a testa in giù, sanguinanti e ancora vivi. Siccome però avranno ingurgitato meno antibiotici, l’azienda si sente autorizzata a parlare di benessere animale. E, già che ci siamo, sposta contestualmente il focus su quello umano, consapevole di quanto l’argomento sia in grado di catalizzare l’attenzione autocentrata degli acquirenti, oscurando con facilità il neonato interesse per i polli.
In contemporanea un attore di chiara fama rassicura sorridendo che i tonni dell’azienda con cui ha evidentemente rapporti privilegiati, la Rio Mare, sono pescati uno per uno con la canna: ammesso e non concesso, forse l’amo non si conficca nelle bocche degli animali? Forse loro non si dibattono disperati mentre cercano di respirare, mentre muoiono tra dissanguamento, asfissia, terrore, in un’agonia lunga e terribile, senza scampo? Che cosa c’è da sorridere? E quale imbroglio propone ai bambini che lo ascoltano, e che con la loro stessa presenza testimoniano la preoccupazione per natura e animali, che loro sì li amano davvero? Non è certo casuale che alcuni termini siano ricorrenti quando si parla di tonni: è con lo slogan “La qualità e il rispetto” che la ASdoMAR, marchio leader nel tonno confezionato, fa concorrenza e, udite udite, sostiene le aree marine protette. Qualcosa insomma come sollecitare uxoricidi così con i soldi dei risarcimenti si possono magari aprire centri di accoglienza per donne maltrattate. È un meccanismo noto agli psicologi come formazione reattiva, che permette di affrontare realtà emotive angoscianti sostituendole inconsciamente con altre che sono esattamente l’opposto. Insomma, secondo Jung, dove maggiore è il fascio di luce tanto più profonda è l’Ombra sottostante. In questo caso l’operazione pubblicitaria tutto è tranne che inconscia: la realtà della crudelissima morte del tonno viene oscurata da una sbandierata cura per animali e ambiente: dalla mattanza cruenta alla amicale sollecitudine. Una sorta di raggiro, che funziona perché collude con il desiderio dei consumatori di volerci credere.

L’atteggiamento di confondere un ipotetico benessere animale con il rispetto a loro dovuto ha antesignani illustri: Temple Grandin (Boston 1947), a cui è stata diagnosticata la sindrome di Asperger, disturbo dello spettro autistico, si è occupata per tutta la vita non solo delle persone con la sua stessa diagnosi ma anche dei bovini negli allevamenti (il master in Zootecnia ne testimonia l’interesse). Ha ideato un particolare congegno, la hug machine o macchina degli abbracci, costituita da due parti laterali capaci di contenere e calmare, oltre alle persone, anche gli animali, con cui ritiene di avere grande affinità e possibilità di comunicazione grazie a una mente e a una empatia fuori dal comune. Divenuta una autorità in questi campi, tra l’altro professore di Scienze alla Colorado State University, autrice di innumerevoli articoli e libri, in virtù di tutto ciò, si riconosce ed è riconosciuta come attivista animalista: in fondo nella sua macchina le mucche spaventate diventano mansuete e tutto ciò che deve succedere ha un percorso più facile, con buona pace di chi deve fare il lavoro sporco, che fa meno fatica, e degli animali che vanno a morire un po’ più sereni. Il fatto che quegli stessi nonumani, che sostiene di amare, continuino a essere schiavizzati dagli umani che li comprano, li vendono, li tengono prigionieri, li sottopongono a mutilazioni, li sfruttano, li uccidono, sembrano essere particolari a impatto zero nella sua visione del mondo, una sorta di dover-essere emotivamente neutro.

Il fatto che, a fronte di una sensibilità per il mondo animale in ascesa libera in Occidente, l’assunzione di comportamenti conseguenti (quindi astensione da prodotti o attività che comportino sofferenza ai nonumani), sia tanto pallida, è reso possibile dalla dissonanza cognitiva, che bene spiega come risolvere la situazione di disagio in cui ci si viene a trovare quando vi è incoerenza tra le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti.
Nello specifico, l’esplicitato amore per gli animali richiederebbe consequenzialmente di non nuocere loro in alcun modo: ma per molti a quanto pare è fatica estrema. Impensabile cambiare la propria visione del mondo sostenendo che no, in fondo non è che di loro ci importa più di tanto, perché questo inciderebbe sulla considerazione di noi stessi, sulla nostra autoimmagine di persone dotate di sensibilità a 360 gradi, che è anche alla base del nostro senso di identità e del tipo di autostima che ci è necessaria. Molto più semplice dare una lettura aggiustata della realtà, inserirla in una modificata cornice cognitiva che ci permette di credere che di fatto loro stanno proprio bene, che il nostro usarli, mangiarli, indossarli non fa loro alcun male: il loro benessere è assicurato perché vengono trattati (alias domati, addestrati, imprigionati, mutilati, triturati, castrati, macellati…) con grande cura. Rilassiamoci e non angosciamoci perché stanno tutti bene, come assicurava Marcello Mastroianni sulla tomba della moglie, nel film di Tornatore, oscurando a lei e a se stesso l’infelicità di ognuno dei suoi figli sparsi per il mondo: meglio mentire che cedere all’angoscia.2
Ecco: gli attuali riflettori puntati su un presunto benessere animale rispondono all’esigenza di ripristinare quel livello di coerenza con le nostre convinzioni che ci tranquillizza tutti. Tutti, tranne loro, ovviamente, gli altri animali, esclusi dal consesso di anime pacificate. Noi umani possiamo contare su un ricco patrimonio di meccanismi autodifensivi a sostegno del nostro atteggiamento: ci rappacifichiamo con noi stessi perché siamo in grado di rimuovere la realtà, di negarla, di rinominarla in modo da renderla irriconoscibile, di proiettare colpe e responsabilità al di fuori di noi stessi, di autoassolverci. Ci liberiamo dall’angoscia modificando non la realtà, ma la sua narrazione. Loro, i nonumani, restano vittime tout court delle nostre intellettualizzazioni e dei nostri marchingegni. Dovrebbero essere difesi dai sadici e dagli indifferenti che li opprimono, ma l’organizzazione economica e sociale intorno sta ridisegnando la rappresentazione delle cose, e i difensori a volte fanno pace con gli aguzzini.
Tom Regan, il filosofo grande difensore dei diritti degli animali scomparso nel 2017, è stato preveggente: già alcuni lustri fa, in una situazione culturale ben diversa dall’attuale, aveva chiaro davanti a sé il pericolo incombente della confusione tra il tema del benessere e il tema dei diritti, e ha asserito senza mezzi termini che parlare di benessere animale significa sostenere l’industria della carne e lo status quo. Non vi può essere benessere negli allevamenti intensivi, nei laboratori di sperimentazione animale, nei macelli, nell’addestramento di animali, esotici e non.3
Non è certo un caso che le leggi di tutela concludano le descrizioni di tutto ciò che agli animali non si può fare, con chiarimenti del tipo “Sono esclusi da queste norme…” e a seguire tutte le pratiche ordinarie, comuni, all’interno delle quali la violenza è legalizzata, quindi autorizzata, quindi non punita, quindi, ancor più grave, nemmeno riconosciuta come tale.4

È ancora Tom Regan che, a proposito dei veterinari, rilevava che il loro richiamo a un trattamento umano e responsabile fosse una retorica non dissimile da quella delle industrie di sfruttamento animale: affermava che “con amici come questi, gli animali non hanno bisogno di nemici”.5 A ciò contrapponeva la sua visione del mondo in cui l’obiettivo non fosse quello di allargare le gabbie, ma di svuotarle: “gabbie vuote”, appunto, secondo il titolo del suo libro, che resterà utopia se ci ostineremo a non pensarlo possibile.
Lasciamo allora che il tema del benessere animale, così come viene declinato, sia appannaggio delle aziende per le quali è divenuto baluardo contro i cambiamenti che temono. A fare inizio e per finire con McDonald’s, che aspira alla Dominazione Globale del mercato, ed è responsabile di un numero imprecisato di milioni di animali uccisi ogni giorno per imbottire panini nei trentacinque paesi del mondo in cui è presente: in una sua recente pubblicità, sorridenti imprenditrici inneggiano alle loro scelte “per garantire la qualità del benessere animale”. Ecco: lasciamo che sia McDonald’s a parlare di benessere animale: nessun tentativo di chiarire il senso di questa espressione può essere più chiarificatore della M arcuata posta a testimonial.
Sostenere che gli animali, che finiscono la loro disperante vita nei macelli e tutti gli altri sottoposti al dominio dell’uomo, “stanno bene” ricorda Guillotin, relatore della legge che prevedeva le norme per l’utilizzo della ghigliottina in Francia a ridosso della Rivoluzione francese, quando assicurava che i condannati a morire con quel marchingegno non sentivano alcun dolore, “solo un po’ di frescura sul collo”.6 Non ci fa onore che nella nostra specie ci sia chi ha avuto bisogno di un paio di secoli per inorridire.

Annamaria Manzoni, Noi abbiamo un sogno. Dall’oppressione alla liberazione degli animali, Bompiani, 2022, pp. 159-166


Note:

1) Luca Avoledo, No vegan. La verità scientifica, oltre le mode, Milano, Sperling & Kupfer, 2017.
2) Stanno tutti bene, film del 1990, interpretato da Marcello Mastroianni, del quale è stato realizzato un remake nel 2009 con Robert De Niro per la regia di Kirk Jones.
3) Tom Regan, op. cit.
4) La legge di riferimento sul maltrattamento degli animali (189/ 2004) stabilisce tutto ciò che è punibile per legge proprio in quanto considerato maltrattamento, ma esclude, al titolo IX, tutte le situazioni legalizzate a cui non si applicano tali norme: allevamenti, trasporti, macelli, caccia, pesca, zoo, circhi, sagre, vivisezione.
5) Tom Regan, op. cit.
6) Albert Camus (1957), Riflessioni sulla pena di morte, Milano, SE, 2014.


Foto in apertura: opera di Roberto Manzotti © 2025


Se hai letto fin qui vuol dire che questo testo potrebbe esserti piaciuto.
Dunque per favore divulgalo citando la fonte.
Se vuoi Aiuta Veganzetta a continuare con il suo lavoro. Grazie.

Avviso legale: questo testo non può essere utilizzato in alcun modo per istruire l’Intelligenza Artificiale.

Nessun commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *