Quel 28 aprile 2012 a Montichiari: cronaca di una liberazione


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Fabio Serrozzi è una delle persone umane che il 28 aprile 2012 entrò nei capannoni del lager di Green Hill a Montichiari (BS) per liberare i Cani che vi erano rinchiusi. Per tale azione è stato fermato e arrestato ed ora è uno degli imputati al processo che si sta celebrando a Brescia.
A distanza di più di tre anni Fabio ha voluto scrivere per Veganzetta la sua testimonianza come attivista liberazionista, per ripercorrere – e condividere con chi legge – la sua versione dei fatti di quella storica giornata che ha segnato un punto di svolta fondamentale per la lotta per la liberazione animale in Italia. Grazie Fabio.
Buona lettura.


Montichiari, 28 aprile 2012

Il corteo parte dal parcheggio del Palasport. Il percorso non prevede il passaggio davanti l’allevamento, ma solo ai piedi della collina sulla quale si trova… Quando arriviamo alla rotonda che porta alla tangenziale (a sinistra) il corteo procede regolarmente dritto. Io sono a metà corteo circa. Qualcuno suggerisce di tagliare a sinistra, di invadere e bloccare la tangenziale: un modo per renderci più visibili, nessun ascolta, il corteo seguita dritto. Arriviamo nella zona industriale, sotto la collina di Green Hill. Un gruppo – a metà corteo circa – si stacca e inizia a salire verso l’allevamento. Mi unisco a loro. Attraversiamo dei campi (alcuni sono coltivati a grano), arriviamo alla stradina che fronteggia la recinzione dell’allevamento La polizia, colta di sorpresa per la nostra deviazione, ci raggiunge. La gente si sparpaglia nel campo di fronte la strada che porta agli uffici, lungo la stradina di fronte alla recinzione, sotto il viale alberato che, passando davanti agli uffici, porta delle case dei contadini nei pressi. Ci sono i poliziotti ora: io sono nella stradina. Un poliziotto in borghese della digos mi intima di fermarmi (scoprirò poi che si tratta di un dirigente). Io dico che non sto facendo niente di male, lui mi ripete di fermarmi… Rispondo che la strada non è privata. Lui ordina a un poliziotto e un collega in borghese di controllare i miei documenti; io chiedo spiegazioni e lui mi consiglia di non fare storie, affermando che è meglio per me se non me lo faccio chiedere una seconda volta. Senza rispondere fornisco i documenti. Nel frattempo giunge, percorrendo la strada dove mi trovo, una monovolume con al volante una donna di circa 35-40 anni di età che impreca visibilmente infastidita dai manifestanti; i poliziotti le dicono che è meglio per lei uscire dal retro dell’allevamento, lei – sempre imprecando – fa manovra e si avvia verso il retro della struttura.

Ripresomi i documenti mi incammino per la stradina verso le case dei contadini: direzione uffici. C’è altra gente con me, e altre persone che giungono dal campo. La situazione sta palesemente sfuggendo al controllo dei poliziotti, tanto che ricevo un ulteriore alt, sempre dallo stesso dirigente della Digos: «quello coi ricciolini mi ha rotto le scatole, prendilo e portalo via», dice a un suo collega riferendosi a me. In quel momento però l’attenzione della polizia si sposta su un tafferuglio scoppiato tra i contadini che abitano un casolare di fianco all’allevamento e alcuni attivisti, ancora una volta posso continuare per la mia strada. Intanto molta gente si è accalcata davanti agli uffici. Un ragazzo prende una transenna da lavori stradali – messa insieme ad altre davanti alla recinzione degli uffici – e la solleva fino ad appoggiarla al cancello d’ingresso. La transenna diviene una sorta di scala dove lui, e altre 6 o 7 persone salgono per scavalcare la recinzione. Arriva la polizia e gli agenti si posizionano davanti alla transenna per evitare che altre persone entrino. Intanto la gente continua con i cori. Tra la folla si sparge la voce che hanno fermato delle persone all’interno dei capannoni e le stanno portando fuori dal cancello secondario, che rispetto alla salita dalla collina si trova sulla destra della stradina che conduce agli uffici. Decido di spostarmi in quella zona, vedo la gente concentrata davanti agli uffici protetti da alcuni agenti che, a giudicare dalle divise, dovrebbero essere della forestale. Non vedendo arrivare altre persone, ripercorro il viale cercando di capire cosa fare.
Giunto davanti all’ingresso secondario dell’allevamento vedo alcuni ragazzi che si avvicinano alla rete. Uno di loro la scavalca e si dirige verso il portone di un capannone. Lo apre con estrema facilità, senza forzarlo, come se fosse già aperto già. Non ci sono poliziotti in giro. Entra e in breve esce con un Cane… poi rientra, altri cuccioli…. Intanto inizia ad arrivare altra gente con la palese intenzione di fare delle fotografie. I ragazzi che sono entrati iniziano a urlare: «non fate foto, non fate foto!».

C’è un buco nella rete, non so chi l’ha fatto, non penso i ragazzi entrati del capannone perché hanno scavalcato, non sono quindi al corrente della presenza del buco nella rete che altrimenti avrebbero utilizzato. Decido si sfruttare l’occasione che mi si presenta e di entrare, altre persone entrano nello stabile con me… La polizia sta arrivando. Alla porta d’ingresso del capannone vedo che ci sono delle persone dentro compresi dei poliziotti che non intervengono. Entro nel capannone. Vedo un corridoio, e una serie di celle in fila, in ciascuna delle quali c’è una mamma e 6 o7 cuccioli. Non abbaiano, sento però abbaiare in lontananza. Loro però non emettono suoni, non sembrano nemmeno provare paura. C’è puzza di escrementi. In terra poca segatura (o qualcosa di simile) e nessuna ciotola. Il cancello delle celle si apre facilmente, è privo di lucchetto: ha solo una levetta. Apro una gabbia e prendo un cucciolo. Sulla porta c’è il dirigente della digos che sta entrando e altri poliziotti. Le persone passano loro accanto, ma nessuna viene fermata. Mi metto il cucciolo nella maglietta e esco, penso che la polizia mi fermi, nessuno però fa nulla. Esco quindi fuori correndo verso la recinzione: sono emozionatissimo. Vedo molta gente che fa la spola dalla rete ai capannoni. Passato il cucciolo sopra la rete a qualcuno che mi dice «dallo a me, te lo ridò dopo»… Non lo rivedrò. Aiuto a passare altri cuccioli e mamme che la gente porta fuori ma che non riesce a far passare dalla rete. Le mamme sono pesanti: hanno molto latte e uno strano odore, cattivo secondo me… Su una di loro, alzandola, noto una cicatrice che parte dalla base del collo e finisce lungo l’addome.

Rientrato nel capannone prendo altri cuccioli e due mamme. I poliziotti continuano a dirci di smettere, perché ne abbiamo già portati via un bel po’, ma non chiudono il portone, eppure sarebbe molto semplice farlo e bloccare tutto. Nulla! Esco, passo i Cani a persone che conosco e rientro. Stavolta però il capannone viene chiuso. Mi avvicino con altre persone a un’altra recinzione più in alto e attendo. Alcune persone incitano chi manifesta fuori a entrare, ma la gente applaude soltanto, pochi entrano. Hanno paura.

Davanti a me c’è un carabiniere, mi dice di uscire e tornare indietro, ma io e un’altra ragazza approfittiamo di un suo momento di distrazione per scendere fino al capannone sottostante. Lui ci segue per un po’ senza molta convizione. Entriamo nel capannone. Anche lì la porta antipanico è aperta. Stesso ambiente del precedente. La ragazza apre una gabbia, prende un bel po’ di cuccioli. Io prendo una mamma e altri due cuccioli. Il carabiniere è sulla porta, ci chiede di smettere, andare via…. «questo è l’ultimo giro, ora basta»… Usciamo di corsa.

In quel momento entrano altre persone. I Cani pesano molto e chiedo a una ragazza che mi viene incontro di prendermi i cuccioli e portarli fuori. Glieli affido. Mi accorgo che un uomo con una telecamera si dirige verso di me: penso sia un animalista, poi mi accorgo che è il cameraman di un’emittente televisiva locale (Teletutto). Mi riprende e accarezza la mamma che reggo in braccio. Mi avvio verso l’uscita quando un ragazzo mi si avvicina e mi dice: «dai a me la mamma se ti pesa, la porto fuori». Accetto ed essendo rimasto a mani vuote penso di tornare dentro. Assieme ad una ragazza torno verso il capannone, questa volta però il portone lo troviamo chiuso, giro intorno al capannone, ma tutte le porte risultano chiuse a chiave. Mi accorgo che c’è un capannello di persone nei pressi: pare stiano parlando con dei poliziotti. Sono tranquillo e decido di avvicinarmi per capire cosa accade. Forse stanno chiedendo loro i documenti d’identità. D’improvviso arriva il dirigente della digos che mi ha fermato la mattina, con un ragazzo e un agente. Mi vede e ordina all’agente «porta giù anche lui». L’agente mi si avvicina e mi chiede «non fai resistenza vero?». Io non penso a un fermo o un arresto, potrebbe trattarsi solo di un controllo dei documenti, decido di seguirlo.

Mi ritrovo insieme ad altre persone, appoggiati alla parete del capannone di fondo. Si sentono i Cani abbaiare e lamentarsi. Ci sono Raffaele, Debora, Luana e Veronica. C’è anche una ragazza minorenne che chiede di poter avvisare la madre. Intanto ci requisiscono i cellulari e le macchine fotografiche: ci sediamo aspettando di capire che intendono fare. Alcune persone fermate vogliono avvisare amici o parenti, io penso alle persone del bus con cui sono arrivato a Montichiari che ci stanno sicuramente cercando. Non ci fanno chiamare nessuno, solo la ragazza minorenne può avvisare i familiari. Passa diverso tempo e finalmente ci comunicato che saremo condotti in questura per il riconoscimento. Ci chiamano a coppie, aprono un buco nella rete con delle tronchesi, e ci fanno passare da una strada che conduce a dei campi, fino a arrivare a una strada dove attendiamo delle volanti. Ogni volante carica una persona fermata e ci dirigiamo verso Desenzano del Garda, in questura. Io arrivo per primo: mi fanno spogliare completamente e mi prendono tutto: portafoglio (contano il denaro) e oggetti personali, cellulare e braccialetti vari che porto ai polsi. Poi è il turno di Raffaele – lui non lo fanno spogliare – e ci chiudono in una stanza piccolissima per gli interrogatori. Arrivano man mano tutte le persone fermate. La ragazza minorenne invece viene rilasciata immediatamente al giungere della madre in questura. Ci riforniscono di bottigliette d’acqua e a turno ci chiamano per il rilevamento delle impronte digitali, le fotografie e il riconoscimento da parte di chi ha eseguito il nostro fermo. Ancora non si parla di arresto, ma ci dicono che passeranno parecchie ore prima di poter uscire. Poi in tarda serata convalidano l’arresto: ci chiamano a gruppi di tre per leggerci le i capi di accusa, poi ci chiedono se intendiamo fornire un numero di telefono per avvisare i parenti dell’accaduto. Io non ricordo il numero di telefono di mio fratello e chiedo se posso consultare la rubrica del mio cellulare. Non mi permettono di farlo: mi dicono che potrò consultare la rubrica dal carcere, cosa che poi puntualmente non avverrà.

Verso le 23,30 ci ammanettano, e ci fanno salire sulle volanti per tradurci al carcere a Brescia (io sono con Federico Paracchini): a sirene spiegate, con una guida spericolata (semafori rossi, rotonde contromano, sorpassi da ritiro di patente immediato) per le strade di Desenzano del Garda e Brescia, come se fossimo terroristi di Al Quaida!

La nostra colpa è quella di aver dato la libertà a chi ne era stato privato… E per questo, secondo loro, meritiamo di perdere la nostra.

All’una di notte, dopo esser stati di nuovo denudati e perquisiti ovunque, pur non avendo più niente addosso, entriamo in cella.

Fabio Serrozzi


Fotografia in apertuta: archivio del Coordinamento Fermare Green Hill


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