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Articolo pubblicato su: A – Rivista anarchica n° 353, maggio 2010, pagina 48
La via vegana etica per la rivoluzione
“Dopo un seminario sul marxismo o l’anarchismo, gli studenti possono parlare a tavola di rivoluzione mentre mangiano i corpi di animali torturati e uccisi. Dopo un seminario sui diritti degli animali, si trovano spesso a fissare il piatto, mettendo in discussione i loro comportamenti più basilari.”1
Se ci si sofferma a pensare quali siano i pilastri su cui la nostra società ha poggiato le sue fondamenta, immediatamente si pensa al soddisfacimento dei bisogni individuali. Non ci sarebbe alcuna società se non vi fossero tali esigenze. In definitiva mediante una serie di convenzioni, contratti, costrizioni e consuetudini ciascun appartenente ad una società dovrebbe ottenere ciò di cui ha bisogno per vivere. Questo in linea teorica, ovviamente, la realtà si è poi sempre dimostrata molto diversa. A prescindere però dal tipo di società umana considerata, dalla sua collocazione storica e dalle sue caratteristiche, tutte indistintamente si sono sempre dovute porre il problema del cibo. Il cibo, quindi, è e rimane il vero fulcro della società umana: senza di esso sono scoppiate sommosse, rivolte, rivoluzioni, e guerre: a causa della sua scarsità , della sua diseguale distribuzione, per il suo controllo e per il fiume di denaro che da esso sgorga finendo nelle tasche dei pochi soliti noti. Il cibo è il collante sociale per antonomasia, dietro ad esso vi sono implicazioni culturali, sociali, storiche e tradizioni consolidate, il cibo inoltre è sempre di più uno status sociale.
La frase riportata in apertura di questo testo è sintomatica: si può discutere appassionatamente di rivoluzione, crederci fermamente, praticarla e lottare per essa, ma poi ci si ritrova di fronte alla necessità che ogni rivoluzionario deve affrontare giornalmente affrontare tanto quanto qualsiasi altra persona: il soddisfacimento delle esigenze primarie, fondamentali. La prima di esse è il procacciamento del cibo. Risulta quindi facile ora capire cosa voleva dire Steven Best nella sua frase: è dalle fondamenta che bisogna abbattere una costruzione per rinnovarla, non dai suoi piani più alti. E le fondamenta della società umana sono sempre state abitate da esseri senzienti che non hanno mai fatto parte di essa, ma che l’hanno sorretta (e la sorreggono) mediante la loro sofferenza. Gli Animali2.
In sostanza Best sembra chiederci: come si può parlare di rivoluzione e di reale cambiamento sociale quando noi stessi ci omologhiamo a prassi di sfruttamento dei più deboli sfruttandoli per i nostri bisogni?
Pare scontato pertanto che se si vuole cambiare un sistema (qualunque esso sia) semplicemente non bisogna assecondarne le pratiche (che lo tengono in vita) creando nuovi spazi liberati e nuove pratiche.
In realtà risulta difficile capire come generazioni di attivisti, teorici e pensatori non abbiano mai compreso o considerato il fatto che per poter davvero cambiare le cose (e non solo quindi tentare la flebile via welfarista della modifica parziale della società umana) si dovrebbe partire dal basso, dagli ultimi e non solo dai gradini intermedi? Non è possibile parlare di egualitarismo e di libertà quando miliardi di individui senzienti crepano quotidianamente per noi e per il nostro sistema. Non è possibile cercare nuove vie per la convivenza pacifica, per l’autodeterminazione dei popoli, per la liberazione collettiva ed individuale quando ci si sostenta con i pezzi di chi è ha subito violenza, torture, prigionia e morte. Siamo anche noi vittime del paradigma antropocentrico che ci costringe a pensare sempre e solo in termini di specie e mai in termini generali ai problemi. Vogliamo la libertà ma solo per noi, senza capire che la reale libertà ha un valore assoluto e non riguarda solo ed esclusivamente la nostra specie.
Diventare vegan significa svincolarsi dalle logiche di mercato, sottrarsi alla pubblicità che domina la nostra società dello spettacolo (così ben descritta da Guy Deborde), dalle visioni verticali di chi ci impone un ruolo, una funzione, ed un ben preciso collocamento all’interno di una megamacchina che tutto tritura e digerisce. Ma la megamacchina ha un solo carburante che l’alimenta: i corpi dei non umani che ungono i suoi ingranaggi (noi) e che la fanno funzionare a ciclo continuo.
Sarebbe così semplice rifiutare tutto ciò ed impostare la nostra esistenza su principi nuovi ed orizzontali. Una piena uguaglianza è ottenibile solo ed esclusivamente ridando finalmente la libertà e la dignità a chi per millenni ha subito la nostra forza devastatrice, e per farlo bisognerebbe subito ed ora smettere di cibarsi delle loro membra. Sarebbe semplice, ma nella realtà risulta arduo. Ciò a causa del fatto che le nostre menti non sono affatto libere, e torniamo ad essere semplici ingranaggi, esseri colonizzati nell’immaginario, e non individui realmente consapevoli.
Fino a quando non cominceremo a pensare davvero in termini non antropocentrici, non riusciremo mai a slegarci dai retaggi del passato e dalla logica del profitto che mercifica ogni corpo ed ogni esigenza, che fa dell’infelicità permanente lo status di vita di ogni singolo per spingerlo a cercare soddisfazione nel consumo perenne. Solo partendo da una pratica quotidiana e personale come il veganismo etico si potrà cominciare un cammino realmente inedito. “Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno” diceva Isaac Bashevis Singer, come dargli torto? Impossibile quindi cominciare una vera rivoluzione pacifica e pacificante senza prima mettersi in gioco abbandonando ogni forma di discriminazione e di sfruttamento dei più deboli tra i deboli. Ogni altra soluzione sarebbe destinata a fallire.
Adriano Fragano
Note:
1) Steven Best, Crisis and the Crossroads of History: The Need for a Radicalized Citizenry.
La traduzione italiana è consultabile all’indirizzo: https://comedonchisciotte.org/crisi-e-crocevia-della-storia-la-necessita-di-una-cittadinanza-radicalizzata/
Steven Best è professore associato di Filosofia e materie umanistiche presso l’università del Texas a El Paso.
2) Max Horkheimer, “il grattacielo”, in Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931, Einaudi 1977, pp. 68-70.
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